Tutto è duale, ma non in senso statico.
Le due polarità si muovono continuamente e si presentano in proporzioni
diverse. Questo significa che devono continuamente controbilanciarsi, come due
pugili, due schermitori, due ballerini o due eserciti. Un passo avanti dell’uno
corrisponderà a un passo indietro dell’altro. Ma, siccome nessuno dei due può
vincere definitivamente (pena la fine dell’incontro-scontro), la tendenza è
sempre quella di riportare un equilibrio o una parità. Che però non può
permanere a lungo, perché anche la parità significa la fine dell’incontro.
Questo si traduce in un dramma
umano, perché l’uomo non può trovare a lungo né pace né equilibrio. Siamo su un
piano inclinato e dobbiamo tutti cadere. La vita è dunque uno stato inferiore.
A che cosa?
Al tutto.
È qualcosa, ma sempre inferiore
al tutto.
Molti di coloro che hanno vissuto
esperienze di premorte riferiscono che, da morti, non avevano più nessun
dolore, mentre il ritorno in vita era sempre accompagnato dalla sofferenza.
La vita è sofferenza, diceva giustamente
il Buddha.
Chi è morto si trova in uno stato
di benessere, di leggerezza e di consapevolezza. Mentre chi ritorna in vita si
trova in uno stato di costrizione, di pesantezza, di limitatezza, rinchiuso in
quello scafandro che è il corpo.
Un conto è sentirsi un unico
punto di consapevolezza, unito al tutto, parte del tessuto dell’universo, e un
altro conto è sentirsi un individuo isolato, pieno di ansie e di paure, sempre
minacciato da malattie e distruzione.
La morte è entrare nell’infinito
e nell'ampio, la vita è entrare nel finito e nel ristretto . Non troverai un Dio
che ha una figura antropomorfa, perché Dio non ha forma, la consapevolezza non
ha forma.
La morte è una cosa naturale,
facile, liberatoria. Invece essere vivi è difficile e duro: è entrare in una
scarpa stretta.
Un giorno ci libereremo di questa
scarpa e cammineremo a piedi nudi verso l’infinito.
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