lunedì 31 luglio 2017

Oltre la coscienza

Quando moriremo, vedremo prima il corpo che si ferma, poi la mente che si disgrega e infine la coscienza che svanisce.

Ma, allora, chi vedrà tutto questo? Il Testimone. Quello che tu sei, tolti corpo, mente e coscienza.

Un gioco sadico

Che cosa diremmo di qualcuno che inventasse un gioco in cui, per vincere, bisogna uccidere tutti gli altri e mangiarseli? Diremmo che è un pazzo criminale. Nessuna persona sana di mente costruirebbe un gioco così feroce.
Eppure è esattamente questo il meccanismo della vita che si suppone creato da Dio.
Dunque, veneriamo un pazzo criminale.

Per questo motivo, noi pensiamo che il cosmo non sia creato da un Essere superiore. Ma si crea da solo, tra mille errori e atrocità.

La vita come droga

La gente comune non sembra interessata alla vita spirituale, cioè ad una ricerca diretta, dato che è tutta intenta a vivere ed è sempre all’inseguimento di cose concrete, di soldi, di sesso, di cibo, nonché di sogni e di illusioni. In apparenza sta bene così com’è, non ha nessun’altra esigenza. Non alza mai lo sguardo dalla greppia.
Tutt’al più, quando si accorge che è destinata a morire, si rifugia in qualche risposta prefabbricata (come quella delle religioni) o non pensa proprio nulla.
Le cose andrebbero avanti così, senza un barlume di consapevolezza, se non ci fosse la sofferenza, che talvolta si fa intollerabile e costringe la gente a riflettere. Sì, perché fin’allora credeva di star bene. Poiché la scoperta può essere scioccante, qualcuno si suicida.
È come se, tolta la droga, ci si accorgesse di quanto si stesse male.
Allora la scommessa di Pascal va ribaltata. La gente non scommette affatto sull’aldilà, ma sull’aldiqua. Perché continua a riprodursi. È come se fosse sicura che, pur avendo sofferto, i figli soffriranno di meno o saranno felici. È questa la suprema illusione.
Non ci si rende mai conto che la sofferenza è ineliminabile e che non diminuisce affatto da una generazione all’altra. Il risveglio è quasi sempre amaro, se non ci si prepara prima, se si crede acriticamente a ciò che raccontano le religioni e i poteri forti. che ci trattano come mandrie da alllevamento.


domenica 30 luglio 2017

L'esperienza diretta

È inutile seguire questa o quella tradizione, questa o quella religione, questa o quella filosofia. È inutile chiedersi se ha ragione Gesù, Buddha o Platone.

Il problema è che noi dobbiamo capire chi siamo, anzi percepirlo direttamente. Se no, sarà sempre una conoscenza di seconda mano, una fede piena di dubbi. Dunque, non una vera conoscenza, ma un’incertezza.

Colui che contempla

Tutti noi siamo più o meno coscienti, e non è difficile esserlo: fa parte della nostra natura.
Ma non è facile comprendere che cosa sia la coscienza. Perché, in realtà, cerchiamo di capire intellettualmente: cerchiamo parole, idee, concetti, analogie, paragoni, metafore…
Quello che non riusciamo a fare è collocarci nel luogo della coscienza ed esserne testimoni.
Meditare non è cercare definizioni, ma stabilizzarsi nel luogo del sé autentico, ed essere testimoni. Anche perché questo è l’unico “luogo” in cui trovare un po’ di tranquillità.
La coscienza è sempre inquieta, per non dire infelice.

Non siamo il corpo, non siamo neppure la coscienza. Siamo colui che contempla tutto ciò.

sabato 29 luglio 2017

Polvere di stelle

La scienza ci conferma che siamo nati tutti da polvere di stelle, ossia da immense esplosioni di supernove che hanno sparso materiali dappertutto, fornendo i mattoni della vita. L’idrogeno, l’elio, il carbonio, l’azoto del Dna, il calcio delle ossa e dei denti, il ferro nel sangue, ecc. provengono da queste disseminazioni.
Ma se da lì, da quegli elementi che consideriamo inanimati, è nata la coscienza degli animali, più o meno evoluta, vuol dire che di inanimato non c’è proprio niente e che la coscienza è latente in ogni cosa, anche nella pianta e nel sasso, il che era ben noto alla saggezza antica.
“Alza una pietra e lì troverai il divino” troviamo scritto in un testo gnostico.
Ma con questo non dobbiamo dedurre che all’inizio vi sia una Supercoscienza, perché la coscienza è pur sempre divisione e dolore. No, come dimostra il nostro concepimento, in principio c’è un’unione estatica (quella dei nostri genitori) che solo in seguito diventa coscienza.
È una diversa forma di coscienza dove si perde o non c’è il senso dell’io e della separazione.

Questo ci insegni come meditare. Nessuna parola, nessun ragionamento, ma unificazione al di là della mente.

venerdì 28 luglio 2017

Meditazione di guarigione

Ti senti stanco, ti senti vecchio, ti senti cretino, ti senti malato? Com’è possibile?
Tu sei Dio, l’eterno, l’infinito, l’assoluto… ossia colui che è ab-solutus, libero da tutto. Ti pare possibile che Dio abbia il raffreddore?
Il fatto è che non ne sei convinto. Tu credi in Dio, dunque non sei Dio.
Sei vittima delle tue stesse convinzioni. Ti limiti da solo.
Considerati l’infinito e ogni problema si risolve.

Ecco una meditazione di guarigione – guarigione dalle limitatezze che ti sei autoimposto. Immaginati infinito ed eterno. Di che cosa potresti aver paura?

Nuvole e sole

Di solito pensiamo che la vita termini con la morte – e la cosa ci spaventa. Ma dovremmo cambiare prospettiva.
Siamo quasi sempre morti (che cosa sono cent’anni contro l’eternità?) Tranne quel po’ di vita che ogni tanto appare.

Ogni tanto un’ombra passa sull’eternità, ma presto scompare – e ritorna la luce.

Il Testimone

C’è qualcosa o qualcuno che è testimone di tutto ciò che passa per la mente di un individuo. Quando però il corpo muore e anche la coscienza individuale si dissolve, Il Testimone non ha più niente da osservare. E ritorna ad essere il Testimone universale.
Non c’è dunque perdita, se non quella della piccola lente di ingrandimento che era stata la coscienza di un individuo. Non c’è più il sé di qualcosa di particolare, ma il Sé di tutto.
Ognuno si appropria di un po’ di questa coscienza universale, credendo che sia sua (e questa è l’illusione). Ma, alla fine, deve restituire il maltolto.

Fine dell’illusione e ritorno alla realtà.

giovedì 27 luglio 2017

La funzione della mente

Gli esseri umani non possono fare a meno di utilizzare la mente per tutte le questioni pratiche,  per sopravvivere. Ma, mentre gli uomini comuni sono tutti presi da queste questioni e tutt’al più si affidano a qualche religione per le questioni spirituali, e quindi si fanno sempre guidare dalle funzioni e dai prodotti mentali e ne sono schiavi, il saggio vede la mente come uno strumento da tenere ad una certa distanza.

Sa che deve tenerla sotto osservazione, come un pazzo che, in certi momenti, dà in escandescenze e scivola in stati di delirio.

I giochi della coscienza

Noi siamo esseri dotati di coscienza, siamo cioè consapevoli di essere. E c’è voluto tanto tempo per diventarlo, sia collettivamente (come umanità) sia individualmente (chi si ricorda quando è nato?). Ma dobbiamo anche essere consapevoli che tutto ciò che è cosciente è temporaneo.
Siamo come fiori che sbocciano in un campo, durano qualche ora o qualche giorno, si rimirano e poi scompaiono.
Prima e dopo che cosa c’è? Ovviamente qualcosa che non è consapevole, qualcosa che non esiste, qualcosa che non è individuale.
A livello di meditazione, dobbiamo certamente partire dalla sensazione o coscienza di essere, di essere un io, per poi ampliarla al di là di parole e concetti, in modo da allargare sempre di più il piccolo cerchio dell’io.
La meta ultima è “comprendere”, ma non nel senso di inquadrare nelle categorie mentali, bensì di uscirne.
La coscienza e la consapevolezza di sé sono qualcosa di meraviglioso, ma sono inquinate da una fede perversa che le cose siano reali, vere, oggettive. Mentre si tratta di una fantasmagoria di luci, di un gioco ad apparire e sparire, come uno spettacolo teatrale.

La meta ultima è andare al di là della coscienza abituale, verso un’Ultracoscienza che è paga di se stessa e non sente alcun bisogno di divenire, di apparire, di nascere-e-morire e perfino di esistere.

mercoledì 26 luglio 2017

Le traiettorie dell'io

Ciò che cerchi in questo momento non è che una sensazione temporanea. Anche se ti sembra che l’idea di essere sia sempre la stessa, non è così: varia da un momento all’altro. Forse ti ricordi di ciò che hai provato quella certa volta, tanti anni fa. Ma quella volta eri diverso da adesso e provavi qualcosa di diverso.
Ciò che senti ora non è ciò che sentivi allora, né per le singole esperienze né in senso generale. Dunque, la tua certezza di essere le stesso è un’illazione della mente. In realtà, momento per momento, cambi.
Prendi un album di foto della tua infanzia e pensi: “Quello ero io da piccolo”. Ma sai bene che “quello” non è questo, che ciò che provavi allora, al momento della foto, non è ciò che provi e pensi adesso. Sei un altro. Tanti “te stesso” che cambiano da un istante all’altro: non sei neppure quello di poche ore fa.
Se si incontrassero i tuoi “io” a stento si riconoscerebbero. Troverebbero che sono due estranei o due parenti che non si sono più visti per 30 o 40 anni.
C’è un faticoso riconoscimento, ma ognuno è andato per la sua strada e ora siete entrambi diversi. Ad ogni istante avresti potuto prendere un’altra strada e diventare un altro. E forse è proprio così: gli altri sono tanti io che hanno imboccato traiettorie diverse.

L’io cosciente ed autocosciente è sempre qualcosa di istantaneo, e ad ogni istante cambia. Se cerchi ciò che non muta nel carosello del divenire, devi andare anche al di là del senso dell’io e della coscienza personale.

martedì 25 luglio 2017

L'obiezione turistica

Oltre all’obiezione antiabortista, ora c’è quella turistica. In Calabria, il titolare di una casa vacanze ha detto di no a una coppia di omosessuale, scrivendo che non vuole “gay e animali”.
Qui si vede da quale cultura vengono le discriminazioni e le persecuzioni degli omosessuali. Ma sono sicuro che qualche prete o ipercattolico si sarà dichiarato d’accordo.
Forse, un giorno, qualcuno dirà no alle coppie cattoliche e agli animali.

Chissà se quel titolare accetterà i preti pedofili.

Le visioni mistiche

Tutto ciò che riguarda le visioni di mistici e santi, oltre a quelle delle persone comuni, dipende dall’immaginazione, è un prodotto non di esperienze di vetta, ma di esperienze grossolane.
Vedere il divino sotto forma umana è scambiare i deliri della mente per realtà.
Questo vale anche per le visioni di luci, di suoni, di voci, di madonne, di angeli, di figure religiose, ecc. Non sono esseri divini che si rivelano, ma le scorie della nostra fantasia, film di serie B e C.
Se poi vogliamo vedere Dio sotto forma di uomo (come nel caso del cristianesimo o dell’induismo), commettiamo l’errore peggiore.
Dio non ha forma; se vedi forme non vedi Dio.
Dio non ha corpo, non ha figli, non ha mogli, non è padre, non è madre, non ha attributi.

Da noi si venera chi vede la madonna, non chi riconosce che il divino non è visibile.

La consapevolezza della coscienza

Per noi la coscienza, l’essere consapevoli, è lo stato più augurabile, tant’è vero che ciò di cui abbiamo più paura è restare magari vivi ma senza consapevolezza, come nelle malattie degenerative del cervello.
Non pensiamo mai che la coscienza è associata alla divisione e alla sofferenza.
Eppure, se proviamo a rammentare le nostre massime esperienze di piacere, di godimento, di felicità e di estasi, scopriremo che erano quelle in cui non ci ricordavamo neppure più del nostro io.
C’è dunque consapevolezza e consapevolezza. C’è anche una consapevolezza egoica deleteria, un eccesso di consapevolezza.

Ci sono livelli diversi di consapevolezza. Quello che noi cerchiamo è l’Ultra-coscienza, il samadhi completo, colui che è consapevole della coscienza.

lunedì 24 luglio 2017

L'Ultra-coscienza

Di solito immaginiamo l’illuminazione o la realizzazione come il raggiungimento di una Super-mente o di una Super-coscienza. Ed essere consapevoli ci sembra il massimo dell’evoluzione.
Ma non possiamo dimenticare che coscienza è sinonimo di divisione. Se sono consapevole di me, vuol dire che mi sono scisso tra soggetto e oggetto. Quando un bambino nasce, non ha nessuna consapevolezza di sé, non può neppure pensare o sentire “io sono”. Ci vogliono anni per formare una coscienza. E nessuno si ricorda di cos’era prima di nascere.
Il fatto è che non c’era coscienza, così come non ce n’è quando ci addormentiamo o sveniamo. Avere una coscienza ci sembra un grande risultato, una conquista dell’evoluzione; ma perché poi dobbiamo sparire di nuovo nel nulla? Dal nulla veniamo e nel nulla torniamo.
Sembra un gioco scemo… a meno che qualcuno un giorno non trovi il modo per non morire o per passare da uno stato all’altro senza sofferenze. I primi cristiani, per esempio, credevano che sarebbero stati direttamente “assunti” in cielo.

Comunque sia, rimarremmo esseri divisi, e quindi una vera meta ultima comporterebbe un Sé unitario (non diviso), in cui sparirebbe ogni traccia di divisione, ma anche ogni traccia di coscienza, almeno così come la intendiamo noi.

La dinamica del desiderio

Quante volte ci capita di desiderare ardentemente qualcosa o qualcuno, al punto da pensare di non poterne fare a meno, e poi scoprire, dopo averlo ottenuto, che non ci interessa più. Lo mettiamo da parte come un giocattolo che non ci piace più.
Questo è il meccanismo del desiderio, che ci fa apparire necessarie o insostituibili cose o persone. Sono la fantasia, l’immaginazione, la brama di appropriazione che ce le fanno apparire uniche e irrinunciabili. Il desiderio può essere così forte che ci sembra di non poter vivere senza di esse.
Ma poi le cose, viste da vicino, si ridimensionano. E subentra la delusione.

In fondo noi appariamo in questo mondo per la forza del desiderio, se non altro dei nostri genitori. Ma, se sapessimo che dovremo stare nove mesi in un utero e poi anni senza una precisa consapevolezza di essere, e che dovremo quindi subire distacchi, dolori, malattie, sofferenze e infine la morte – ci domanderemmo se ne vale la pena. 

Ma nessuno chi chiede il nostro parere, nessuno ci prospetta chiaramente ciò che ci attende.

domenica 23 luglio 2017

Il percorso meditativo

Il percorso meditativo ha regole e fasi. Parte da uno stato di concentrazione o assorbimento (jhana). Si tratta di guardare intensamente un “oggetto”, che può essere materiale o immateriale.
Se come oggetto prendiamo il respiro, dobbiamo prima di tutto calmarlo, rasserenarlo e renderlo sempre più interiore, sempre più “sottile”, in modo da vedere la sua essenza immateriale, spirituale.
Quando riusciamo nell’operazione, proviamo un senso di leggerezza e di soddisfazione (piti). Insistendo senza perdere concentrazione, la soddisfazione si trasforma in gioia (sukha).
Questo processo va ripetuto di continuo, finché non ne diventiamo padroni.
Talvolta, l’acquietamento avviene per caso, a causa di qualche stato d’animo favorevole. Si tratta di casi fortunati che possiamo tener presenti per capire a quale risultato puntiamo. Quella è la via.
È chiaro che un risultato del genere è temporaneo, in quanto tutto è impermanente e si trasforma. Ma proprio per questo va ripetuto ed esteso a tutte le situazioni della vita. Anzi, serve particolarmente quando siamo agitati, per trovare la calma.
Utilizzando la tecnica descritta o un caso favorevole, ci troviamo al primo livello di accesso (jhana) della meditazione. Ora dobbiamo svilupparlo in una condizione più stabile o duratura. Dobbiamo cioè ripetere di continuo i primi passi: respirazione, acquietamento, piacevole concentrazione, ecc.
Ma siamo solo all’inizio: senza uscire dallo stato di concentrazione, dobbiamo arrivare ad una visione più profonda (vipassana) scandagliando il carattere illusorio della realtà, la sua impermanenza e la sua insufficienza.

La conclusione è il distacco da tutte le cose e l’aspirazione ad uscire dal ciclo condizionato delle nascite e delle morti, da questa realtà così limitata.

sabato 22 luglio 2017

La meditazione come prevenzione

Quando vediamo morire o soffrire un bambino, ci domandiamo che senso abbia. Nell’orizzonte espiatorio-sacrificale del cristianesimo ci dev’essere una colpa preesistente e, quindi, se non troviamo una colpa personale, ricorriamo all’idea del peccato originale o diciamo che è un mistero divino. Così tutti possono essere colpiti in ogni momento.
Nella tradizione giudaico-cristiana, la sofferenza è giustificata. Ma lo è in modo semplicistico. Se c’è un dolore o una sventura c’è una colpa, magari non personale ma di un intero gruppo sociale. Per esempio, per punire il peccato di un padre, si colpisce il figlio – con buona pace della giustizia divina. D’altronde, che cos’è il peccato originale se non un’ingiustizia divina che, per punire uno, punisce tutti?
In Oriente si ricorre almeno all’idea di karma, ossia di un destino che va avanti più esistenze, ragion per cui, se un bambino deve soffrire oggi, è perché in precedenza lo stesso individuo ha combinato qualcosa di male. C’è una maggior logica.
Ma lasciamo stare il passato con le sue colpe e le sue responsabilità.
Il problema è quello della sofferenza attuale. Ora, per quanto si sia sbagliato in passato (individualmente o collettivamente), c’è un modo per attenuare oppure addirittura annullare o prevenire malattie, punizioni, incidenti e sofferenze varie. E consiste nel diventare consapevoli di sé e del proprio destino, impedendogli che operi in modo meccanico e spietato.

Anche se il karma esiste, lo si può disattivare. Ma occorre crearsi attorno una difesa o uno scudo personale. Questo è uno degli scopi della coltivazione della consapevolezza.

La vita finita

Dio è certamente una creazione umana per cercare di dare un senso molto limitato alla vita umana, con un inizio (creazione) e un giudizio conclusivo – tutto in pochi decenni. Mentre, probabilmente, la vicenda umana ha un inizio molto anteriore e una fine non ancora prevedibile - insomma una tappa di un percorso assai più lungo e forse infinito.

venerdì 21 luglio 2017

La grande quiete

Perché la calma è tanto importante in meditazione? Perché il nirvana, la meta, può essere definito il grande acquietamento – il grande acquietamento dopo la grande agitazione della vita.
Quando la vita finisce, molti parlano di morte. Il saggio parla di liberazione.
Ma, per essere liberi, non basta morire. Bisogna morire consapevoli che vogliamo superare la vita.
Tra i dieci ostacoli elencati dal buddhismo, troviamo anche il desiderio di una vita immateriale, come puri spiriti, in qualche paradiso.

A quel punto non saremmo ancora liberi, e il ciclo di vita e di morte proseguirebbe inesorabile.

Mettere al mondo figli

Ho sentito di un famoso cantante rock (ricco, due mogli e sei figli) che si è suicidato. Chissà se ha pensato a come l’avrebbero presa i figli. Se uno non ha fiducia nella vita, perché mettere al mondo figli? Forse i figli lo fanno uscire dalla depressione? Non mi pare.
Già, ma i figli non si mettono al mondo in modo riflessivo. Lo si fa istintivamente, seguendo un desiderio impellente.
Lo vediamo anche nelle popolazioni più arretrate, per esempio negli africani, che hanno un tasso di natalità impressionante. Ma perché mettere al mondo figli se non si sa come mantenerli? Se poi li si imbarca su gommoni per mandarli a casaccio in Occidente, molti moriranno e molti verranno violentati, schiavizzati o peggio.
Fiducia cieca nella vita o ignoranza nei metodi di contraccezione? In ogni caso forme di ignoranza.
Sogno un mondo in cui si mettono al mondo i figli in modo consapevole. E in Europa questo è già in gran parte successo, con grande rabbia delle religioni che ci vorrebbero schiavi del grande Sistema. Dovremmo essere consapevoli, soprattutto, che chi mette al mondo la vita mette al mondo la sofferenza e la morte.
La vita segue un suo percorso e delle sue necessità che possono non essere le nostre. Le religioni ci dicono che è un dovere mettere al mondo figli. Ma non è vero.

C’è chi ci vuole liberi e c’è chi ci vuole schiavi al servizio della produzione e della riproduzione.

Operare sul respiro

Operare sul respiro - come spiegato in precedenza - è un’antica tecnica che funziona in ogni occasione della vita in cui ci dobbiamo liberare dell’agitazione, dell’ansia o della paura. Meglio se accompagnata dalla ripetizione mentale di una parola chiave o di una frase (“Forza! Stai calmo, ecc…”) che ci incoraggi, oppure di un mantra, per esempio del famoso “Om mani padme hum” che nelle sue quattro parole si adatta alla quattro fasi della respirazione (inspirazione, pausa, espirazione, pausa) o ai passi di una camminata.

giovedì 20 luglio 2017

Imparare a respirare

Se si adotta il respiro come metodo per entrare in meditazione (e per non fare della meditazione una pratica astratta, solo filosofica), dobbiamo capire che dobbiamo passare dlla respirazione normale a quella meditativa.
Abbiamo detto che calmare la respirazione è un sistema per acquietare l’intero complesso psico-fisico. Ma, prima di calmarla, è bene approfondirla e prolungarla, in modo da sbloccare il petto e i polmoni che di solito lavorano meccanicamente, poco e male.
Noi crediamo che per allungare il respiro si debba espandere l’addome e il torace, in modo da riempirli il più possibile d’aria. Ma la fisiologia ci insegna che, quando si allarga il torace, l’addome si contrae. Osserviamo bene.
Nella respirazione normale, quando si espandono i polmoni e il torace, cioè quando si inspira, in realtà il diaframma si abbassa e spinge in fuori la pancia; quando si espira, il diaframma si alza e la pancia si abbassa.
Nella respirazione meditativa, noi allunghiamo le inspirazioni e soprattutto le espirazioni, in modo da ottenere movimenti di sblocco di tutto l’apparato respiratorio. Possiamo tener presente soprattutto la zona pancia-addome: prima contraiamo la pancia e poi la espandiamo, come se si trattasse di un mantice.
La pancia, l’addome e il diaframma sono il nostro motore e il nostro indicatore.
Continuiamo così per tre o quattro volte, e poi riprendiamo la respirazione normale, osservando se si è allungata e approfondita. E, soprattutto, se la mente-respiro si è calmata.
È da questa sensazione di sollievo e di rilassamento (dalle tensioni abituali) che possiamo proseguire la nostra meditazione.

In ogni caso, anche senza raggiungere risultati strabilianti, staremo meglio. Perché avremo imparato a liberare il respiro.

mercoledì 19 luglio 2017

Essere intimi con se stessi

Certi teologi sostengono che Dio sia “totalmente Altro”; e così cercano qualcosa di estraneo, che non trovano mai.
Tu cerca in te stesso. Non andare a cercare altrove. Senza la tua consapevolezza, neppure Dio esisterebbe.
Il Corano dice che Dio ti è più vicino della vena giugulare. E l’Advaita Vedanta sostiene addirittura: “Tu sei Quello!”
Certo, non si tratta del Dio delle religioni, non è un idolo da venerare. Devi fare un po’ di vuoto. Eliminare ciò che non è essenziale.

Ma, se sei già alienato in partenza, che cosa potrai trovare?

Il coro degli angeli: il tradimento di Gesù

Che la pedofilia sia il grande vizio dei sacerdoti cattolici è noto ormai a tutti. I casi sono infiniti e hanno coinvolto anche 547 bambini del famoso coro di Ratisbona, diretto dal 1964 al 1994 anni dal fratello di Papa Ratzinger, il quale aveva “chiuso gli occhi” e non era mai intervenuto – la consueta politica dei dirigenti della Chiesa.
Il problema è che in questa religione spira un’aria di infantilismo, con il Dio Babbo, la mamma vergine, il bambinello e la Chiesa madre. Diceva Gesù: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 19, 14). Tutti devono mantenersi piccoli e infantili, ignorando ogni pulsione sessuale e perfino affettiva.
Quindi l’educazione dei preti è rivolta a mantenerli infantili, puri, vergini e senza desideri. Un ideale impossibile e contro natura. Poiché la libido rimane comunque, quando un uomo rimane infantile, rivolge i suoi desideri verso gli altri bambini.
Questa Chiesa contro natura non ha mai preso atto del compito impossibile che impone ai suoi sacerdoti e continua a nascondere e a insabbiare i casi di pedofilia, oggi come ieri. Pochi giorni fa, il cardinale George Pell, chiamato a Roma da Bergoglio per riformare la Chiesa, è dovuto tornare in Australia per difendersi da un’accusa di pedofilia.
Nei Vangeli c’è già un accenno a questo problema, che evidentemente è sempre esistito. Gesù dichiara che “chi scandalizza i bambini” sarebbe meglio per lui che si appendesse al collo una macina e si gettasse in fondo al mare (Mt 18, 6).
Ma sappiamo che i preti sono i primi a non credere alle parole di Gesù. Ed è per questo motivo che nella Lettera agli Ebrei, si dice: “Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure un sacerdote” (Ebr. 8, 4).
Gesù odiava i sacerdoti e i sacerdoti odiavano lui, secondo l’antico contrasto fra profeta e sacerdote. Il profeta infatti non segue le regole e si dice direttamente ispirato a cambiare; il prete invece è un grigio burocrate, un conservatore nato.
Nella parabola del buon samaritano, l’individuo indifferente che vede il ferito ma se ne frega è un sacerdote. E furono i grandi sacerdoti del Tempio che decisero la morte di Gesù.

Già perché Gesù era un laico, che non amava affatto i preti e che mai avrebbe voluto una Chiesa di sacerdoti. È da questo tradimento che nasce la religione cristiana. 

martedì 18 luglio 2017

Gesù e i cristiani

Ci fu un solo cristiano, ed è morto sulla croce – scriveva Nietzsche.
E quelli che si dicono cristiani? Sono seguaci, nient’altro che seguaci.

Ci corre la stessa differenza che c’è tra un grande cantante e i suoi fan. Lui sa cantare, loro no.

L'importanza del cibo

Sembra banale dirlo, ma la coscienza non può esistere senza il corpo. E il corpo non può esistere senza il cibo.
Dunque nel cibo è già presente la coscienza. Senza cibo, niente corpo; e senza corpo, niente coscienza.
Dunque, nel cibo è già presente la coscienza. Quando mangiamo, mangiamo coscienza.
Ma anche il cibo – nella sue forme vegetali e animali - non potrebbe esistere senza i minerali della Terra, e questi non potrebbero esistere senza gli atomi. Dunque, senza atomi niente coscienza. Dunque, la coscienza è già presente negli atomi e nei loro costituenti elementari.
Insomma, tutto è coscienza.
Quando mangiamo, mangiamo coscienza. Quando respiriamo, respiriamo coscienza. Quando metabolizziamo, metabolizziamo coscienza.
La coscienza è già presente in ogni cosa, dal sasso al filo d’erba, dalla cometa alla stella.

Attenti a come mangiamo, attenti a come respiriamo, attenti a come siamo consapevoli.

L'origine di tutto

Fra tutte le cose che sono, niente può aspirare ad essere sempre: non la vita, non le montagne, non il mondo, non le stelle, nemmeno l’universo. Tutto questo prima o poi sparirà.
Ma non il non-essere. Ecco l’unica realtà che sarà sempre presente.
Le altre cose vanno e vengono, ma alla fine non-saranno tutte. Noi stessi da dove veniamo in essere? Ovviamente da uno stato di non-essere.
Quando nasciamo, non siamo consapevoli e non ricordiamo, dunque non-siamo. E lo stesso avviene quando siamo nel sonno senza sogni, quando perdiamo i sensi o quando moriamo. In quei momenti non siamo perché non siamo coscienti.
Il non-essere precede tutto e, alla fine, dopo aver dato origine all’essere delle cose, le riprende tutte. Se fossimo dalla parte del non-essere, saremmo eterni.
D’altra parte, il nostro senso di essere, l’ “io sono”, nasce soltanto dalla coscienza. Senza coscienza siamo tutti nel non-essere, checché ne dicano gli altri.
Molti credono che all’origine ci sia un Super-Essere, creatore di tutto. Ma c’è qualcosa che viene prima e che divora ogni cosa che viene in essere.
Altrimenti, perché parleremmo di essere?

Se vogliamo trovare l’Origine, dobbiamo avvicinarci e utilizzare il non-essere, non l’essere. Anche in meditazione dobbiamo fare così. Non-essere più che essere di più.

lunedì 17 luglio 2017

Legami e attaccamenti

Anche se non è possibile eliminare del tutto la sofferenza, esiste un segreto per ridurla al minimo: diminuire gli attaccamenti, ossia le cose, le persone, le idee e le ambizioni cui siamo più legati.
Ridurre gli attaccamenti è la via della liberazione. Se diminuiscono gli attaccamenti, diminuiscono certamente i motivi di sofferenza.
La gente soffre perché è troppo attaccata ed ha troppi attaccamenti. Ridurre gli attaccamenti significa ridurre i lacci che ci imprigionano. Gli attaccamenti infatti sono come catene che ci limitano i movimenti fino al punto di imprigionarci in uno spazio molto stretto. Più ne abbiamo, più lo spazio si restringe. Sappiamo tutti che, se vogliamo saltare in alto, ci dobbiamo liberare di tutti i pesi. E, di più pesi ci liberiamo, più potremo saltare in alto.
L’ultimo degli attaccamenti è quello all’io, ciò che ci fa dire: questo sono “io”, questo è “mio”. Dobbiamo costruirci una “filosofia” che ci ricorda da vicino quella dello stoicismo. Dobbiamo continuamente tener presente che il nostro soggiorno è breve e che le cose saranno “nostre” per poco.
Le cose sono nostre solo per poco tempo; e le persone non sono mai state nostre.
Alla fine ciò che è “nostro” non sarà più nostro. Perderemo tutto, anche noi stessi. Dunque, è meglio prendere subito le distanze da tante cose inutili. Se non vorremo liberarci dalle cose, le cose ci verranno comunque strappate.
In effetti, quando sappiamo che ci rimane poco tempo da vivere (e a tutti rimane poco tempo da vivere), decidiamo a chi lasciare le cose che ci sembrano più preziose.
Dopo la nostra morte, le cose cui eravamo più attaccati andranno ad altri, che magari le disprezzeranno. Se io possiedo una casa, questa casa andrà agli eredi, che forse la venderanno, perché a loro non piace. Questa consapevolezza non ci deve abbandonare mai.

Niente è veramente nostro. Anche il corpo, anche la vita, sono in prestito. E dovranno essere prima o poi lasciati. Lasciare, almeno a livello psicologico, è la via della liberazione. Non si tratta di abbandonare tutto, così come facevano i santi di una volta. Ma di aver sempre presente che, se qualcosa ci sopravvivrà, non saranno né le proprietà né i legami affettivi, ma ciò che avremo saputo conoscere e apprendere in questa vita. 

domenica 16 luglio 2017

Dalla contemplazione del respiro

Lo yoga è una pratica antichissima che ritroviamo in tutte le religioni orientali. Il Buddha, per esempio, prende dallo yoga la tecnica del pranayama. Osservando e controllando il respiro, possiamo intervenire sull’intero organismo psicofisico.
Si è sempre saputo, infatti, che il respiro influisce sia sullo stato corporeo sia sullo stato mentale. Se respiro con calma, anche la mia mente sarà calma. E, se la mia mente è calma, sono già nella migliore posizione per meditare.
Nell’Anapanasati, il Buddha consiglia di osservare il ritmo del respiro, se è corto o lungo, se è contratto o disteso, ecc., e di renderlo sempre più calmo e sottile. Quando calmiamo, allunghiamo e rilassiamo il respiro, operiamo in modo analogo sullo stato mentale. Vedremo cioè che la mente si calma e che i suoi pensieri diminuiscono.
Diminuendo i pensieri inutili, arriviamo ad uno stato di consapevolezza che potremmo definire “meditativo”. Siamo quindi in grado di renderci conto di alcune verità.
La prima è che tutto diviene incessantemente ed è impermanente. In altri termini, non possiamo vivere a lungo in uno stato di contentezza. È chiaro che saremo insoddisfatti e infelici, se non sempre, almeno molto spesso. Non possiamo sfuggire a questa legge dell’alternanza.
Ovviamente, noi cercheremo di prolungare gli stati piacevoli e di evitare quelli spiacevoli, ma alla fine saremo investiti inevitabilmente anche da questi ultimi, se non altro perché tutti invecchiamo e tutti perdiamo continuamente qualcosa, in senso fisico e in senso affettivo.
Dobbiamo dunque approfondire il più possibile la consapevolezza della nostra condizione personale e della condizione umana in generale. Dobbiamo vedere che viviamo in un mondo di proiezioni e di illusioni. Il nostro stesso corpo, il nostro stesso io, non sono che apparenze di breve durata. E non farci spaventare da questa constatazione.
Il passo successivo non consiste nel credere in un sé immortale, come si fa in tutte le religioni (anche perché se c’è un sé immortale, c’è una sofferenza immortale). Ma nel capire che tutto quello che crediamo di essere, non lo siamo.

Sempre, inspirando ed espirando con calma…

sabato 15 luglio 2017

L'introspezione

Quando vi svegliate la mattina, esaminate il vostro stato d’animo generale. Come vi sentite? Siete riposati, freschi, rilassati e tranquilli, o vi sentite tesi, nervosi, stanchi, preoccupati, infelici? Prendetene coscienza attentamente.
Se vi svegliate male, allungate e rilassate il respiro, finché non ritrovate un po’ di calma. Comunque, siatene consapevoli. Se vi svegliate bene, approfittatene per respirare con scioltezza e liberamente. Molto influiranno i sogni precedenti o ciò che dovete fare in giornata.
Ma noi dobbiamo utilizzare la funzione omeostatica (riequilibratrice) del respiro che è in grado di influire sia sul corpo sia sulla mente.
Si tratta di un esercizio meditativo basilare che non ha bisogno di complicate operazioni né di una particolare comprensione intellettiva né di fedi.
Dobbiamo sfruttare questa capacità quasi istintiva per ritrovare uno stato di tranquillità, che è il primo passo sulla via della meditazione. Forse, per ora, non ci porterà lontano, ma ci farà sicuramente bene. Ci sentiremo meglio e impareremo che possiamo operare sui nostri stati d’animo e che non siamo solo soggetti passivi di sensazioni ed umori.
Possiamo intervenire su ciò che proviamo e scopriremo che durante la giornata il nostro stato d’animo può cambiare di colpo. L’importante è l’osservazione, la sensibilità, la cura di noi stessi. Perché la maggior parte di noi è così alienata che non sa che cosa prova ed è in balia di qualunque evento. Quando guardate la faccia di qualcuno, capite benissimo quale sia il suo sentimento dominante. Chi è insoddisfatto o infelice, ha espressioni caratteristiche che non sfuggono ad un occhio attento. E lo stesso per chi è rilassato e felice.

L’abitudine introspettiva ci aiuta a comprendere noi stessi e gli altri. Ci rende più intimi a noi stessi (mentre di solito siamo alienati) e ci avvicina al prossimo. Cambia l’intera prospettiva della nostra vita. E ci permette la modifica.

L'angoscia della libertà

Di solito diamo per scontato che la gente voglia la libertà; ma non sempre è così. Essere liberi comporta assumersi responsabilità, decidere con la propria testa e saper resistere ad uno stato di spaesamento. Proprio come il carcerato liberato dopo trent’anni, non siamo abituati alla libertà; ci manca qualcuno che ci dia regole, leggi e orari.
Ora che siamo liberi, che facciamo? Siamo in preda all’angoscia della scelta.
Qualcuno sostiene che in Occidente è in crisi la figura del padre-padrone, e questo sarebbe qualcosa di positivo… se non ci fosse quell’angoscia  che talvolta ci porta a rimpiangere il padre autoritario e a fuggire dalle responsabilità.
C’è naturalmente un risvolto religioso, dato che le religioni tradizionali (giudaismo, cristianesimo, islam, induismo, ecc.) propongono proprio questa immagine di un Dio Padre-eterno, le cui leggi e le cui decisioni non si devono discutere.
Lo psicoanalista Massimo Recalcati sostiene che deve subentrare un nuovo padre, non più quello autoritario, sadico e sacrificale del passato, ma quello che umanizza la Legge. E cita il caso di Gesù, il quale affermava che era giunto per portare a termine la Legge della tradizione ebraica, liberandola dalla violenza originaria.
Poveretto si era illuso. Guardate come è finito: trasformato lui in vittima sacrificale.
Non ci si può fidare di certi Padri-Padroni: il loro istinto violento e sadico resta immutato.

Non è vero che, senza la loro autorità, il mondo cada nel caos. Ma è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità, sappia guardare dentro di sé e sia capace di resistere alla vertigine della libertà.

venerdì 14 luglio 2017

La scommessa di Pascal

Il ragionamento di Pascal è molto semplice e temo che sia quello adottato inconsciamente da molti “credenti”, ancora oggi. Ricollegandosi ai suoi studi sul calcolo delle probabilità, Pascal sostiene: se Dio esiste e io ho puntato su di lui, ci ho guadagnato ed avrò la vita eterna; se non esiste, non ho perso nulla ed ho comunque vissuto in modo degno.
Prima obiezione, questo calcolo da biscazzieri, questa scommessa, non ha niente a che fare con la fede: è un semplice calcolo di convenienza. In tal modo non avrai mai nessuna vera fede, ma solo un atteggiamento opportunistico. Come quello di che punta, fra due contendenti, su chi tiene il probabile vincitore. Punta su di lui non perché non perché lo ami o lo stimi, ma solo perché, in vaso di vittoria, guadagnerà di più.
Più che un calcolo probabilistico, un calcolo opportunistico. Dio avrà solo dei calcolatori, non dei fedeli.
Il fatto di voler credere per gli eventuali vantaggi, non è credere. E questo temo che sia il caso di molti uomini che, pur essendo dubbiosi e sostanzialmente agnostici, puntano su Dio.
Ma la seconda obiezione è più importante. Come molte persone della sua epoca (il seicento) e in realtà di ogni epoca, Pascal è convinto che Dio o esiste o non esiste. Non c’è altra possibilità. Per lui, la fede e la religione consistono nel credere in Dio. Se Dio esiste, tutto ha un senso. Se non esiste è il caos.
Ma non è così. Il Dio in cui crede Pascal è quello inventato dagli ebrei e tramandato a cristiani e musulmani. Dunque un Dio storico, con dei limiti pesanti. Un Dio violento, geloso, egocentrico, divisivo, ingiusto, arbitrario e ben poco morale; un Dio strettamente imparentato con gli dei delle religioni pagane: un dominatore, un padrone. Un Dio che non ha mai portato alla pace nel mondo.
Come ci dimostra il buddhismo, si può essere religiosi anche senza credere in un Dio del genere, la cui fede non ha mai migliorato l’umanità. Anzi, credere in un simile idolo, porta a bloccare ogni evoluzione spirituale e a identificare il divino nei dogmi di qualche religione, certamente arbitrari.
Questo è proprio l’argomento del presente blog. Che cos’è la vera spiritualità? Credere in un Dio o sviluppare la propria consapevolezza? Dipendere dai voleri di un Dominus (che sono in realtà creazioni umane) o affrancarsi da ogni dominio esterno ed emancipare se stessi?

Chi scommette su un Padrone del mondo e si sottomette alla sua volontà incomprensibile non vive una vita degna, ma una vita da schiavo.

giovedì 13 luglio 2017

Pascal beato?

Pascal fu un gran matematico, un buon prosatore e un discreto pensatore. E sarebbe anche andato più lontano se il suo pensiero non fosse stato rimpicciolito dal cattolicesimo, al quale si arrese rinunciando ad approfondire.

Quando si riconoscono i limiti della ragione, ma ci si affida alla religione, ci si castra da soli.

Un Dio piccolo

Secondo l’Antico Testamento, Jahvè strinse un patto con l’uomo, anzi con un popolo. Ma poteva quel popolo rifiutarsi? Se non poteva, allora Dio non proponeva alleanze, ma le imponeva. Un vero patto è ben altra cosa: è un accordo liberamente accettato dalle parti.
Assurdità dell’idea di un Dio che crea il tutto e poi si accorda con una parte. Colpisce la modestia di questo Dio, che in origine era una divinità tribale.
Ma l’assurdità prosegue nel Nuovo Testamento, dove si fa riferimento a quell’antico patto, tanto che anche i cristiani (per esempio san Paolo) parlano del Dio di Abramo, di Mosè e dei profeti. Un Dio locale.
Le tre religioni maggiori si ritengono depositarie di qualche iniziativa di Dio, che sceglie una parte, un profeta, un Messia o un periodo storico creando ingiustizie. Un Dio della divisione, un Dio del prima e del dopo, un Dio che spezza la storia. Un Dio che non sa nulla di trascendenza e di distacco e che s’impiccia di continuo, ordina, si arrabbia, prova gelosia e odio… con esiti sempre deludenti.
Nell’Islam, Maometto passò gran parte della sua vita a combattere o ad essere combattuto, tanto che l’Islam è pieno di scismi e di odi secolari che giungono fino ai nostri giorni con le guerre tra sunniti e sciiti.
Ma lo stesso successe nel cristianesimo, dove si arrivò a vere e proprie guerre religiose (per esempio tra cattolici e protestanti) e ancora oggi esistono divisioni inconciliabili fra le varie correnti.
Quanto agli ebrei, non fecero altro che fare guerre con i loro vicini – guerre che continuano ancora oggi.
Insomma, religioni della divisione, religioni del conflitto (interno ed esterno), le tre religioni “abramitiche” possono promettere tutto, tranne la pace e l’unione dei popoli.

Per parafrasare san Paolo, sì, Dio è stato diviso e reso piccolo piccolo.

mercoledì 12 luglio 2017

Il Buddha e lo stato buddhico

Se il Buddha fu un uomo fisico, un individuo storico, il buddhismo non deve consistere nell’adorazione della sua persona divinizzata. Il Buddha non lo dice mai; anzi dice esattamente il contrario:

“No fate di me un Dio, non adoratemi, ma guardate dentro di voi. C’è uno stato divino dentro di voi e questo stato divino vi proteggerà”.

Aggiunse che era un uomo che si era illuminato, non un Dio sceso sulla Terra.
Purtroppo, anche lui fu adorato proprio come un Dio, perché questo è l’istinto degli uomini che non vogliono fare fatica, che non vogliono lavorare su di sé, che non vogliono approfondire, che non vogliono assumersi la responsabilità della propria evoluzione, che si aspettano tutto dall’alto, come un dono.
Che cosa deve dunque rappresentare il Buddha per noi?
Nient’altro che lo stato della mente contrassegnato da saggezza, equilibrio, distacco, pacatezza, chiarezza e tranquillità.
Se adoriamo il Buddha (e chiunque altro) come un Dio, manchiamo del tutto l’obiettivo. Se ricreiamo in noi lo stato buddhico di saggezza, equilibrio, distacco, tranquillità e chiarezza, lo centriamo in pieno.
Ora, l’obiettivo, il nirvana, l’illuminazione, la liberazione, ecc., non è il paradiso, ma è l’acquietamento. Perché questo significa nirvana: l’acquietamento, l’uscire dalla tensione del mondo, dei sensi e dei pensieri.
Non è poi così difficile sperimentarlo, dato che, oltre all’acquietamento definitivo, esistono le nostre esperienze di acquietamento. Sono temporanee e durano più o meno a lungo, ma sono altamente istruttive e significative. Sono assaggi della via.
Noi siamo per lo più agitati, tesi e confusi. E meditare è imparare a distendersi, a prendere le distanze, a disintossicarsi, a lasciar andare, a non soffrire.

Una simile distensione è il principio della liberazione che cerchiamo.

martedì 11 luglio 2017

Le previsioni

Se credete di essere individui separati dal tutto che ci circonda e ci include, guardate che cosa sta succedendo adesso. Con il cambiamento climatico, con il surriscaldamento della Terra, l’Africa ci porta non solo i suoi venti caldi ma anche le immigrazioni delle sue popolazioni.
Chi lo ha deciso? Il clima o l’uomo?
È un po’ come la storia dell’uovo e della gallina: in realtà l’uno dipende dall’altro. È l’interrelazione che comanda.
In fondo il clima è sempre cambiato, anche quando l’uomo non era ancora influente. Glaciazioni, riscaldamenti…
Ora l’uomo, con le sue attività, diventa preponderante. Ma cos’è l’uomo, se non un pezzo di natura che agisce in interrelazione col tutto?
È il clima che si surriscalda o è l’uomo che lo surriscalda? Comunque sia, la natura comanda.

Questo non deve portarci ad essere fatalisti. Non ci affidiamo alle previsioni del tempo, che a lungo andare non sono possibili. Anche noi possiamo fare la differenza.

Liberarsi

L’acqua racchiusa in un vaso non è libera, in due sensi: primo, non è libera di andarsene o di spostarsi; secondo, deve assumere la forma del vaso.
Quell’acqua sarà libera solo se si rompe il vaso. Quando il vaso si rompe, l’acqua non sarà più prigioniera e potrà assumere altre forme o nessuna.
Se il vaso è il nostro corpo e il nostro sé, cioè il nostro essere in un certo modo, allora solo quando il corpo si romperà, ossia sarà morto, l’acqua che vi è contenuta – l’essere – potrà assumere altre forme o nessuna. Se assume altre forme, sarà ancora prigioniera. Solo se non assume nessuna forma, potrà essere veramente libera. Ma non sarà più se stessa, non assumerà mai più un sé, per quanto bello, nobile ed elevato.
Le religioni ci dicono che, dopo la morte, otterremo un’altra vita, un altro sé. Però saremo comunque congelati in una forma, e quindi non saremo liberi.
Per essere liberi, dobbiamo in realtà scioglierci da qualsiasi forma, da qualsiasi sé, per quanto elevato possa essere. Anche un Dio, se ha una forma, non sarà comunque libero e dovrà a sua volta morire, ossia subire un’ulteriore trasformazione. Diceva a tal proposito Hobbes: “Libertas nihil aliud est quam absentia impedimentorum motus”.
Ora c’è un unico stato in cui vi è “assenza di impedimenti”: quello della vacuità, intesa non come annientamento di tutto, ma come fondamento libero di tutto. Al contrario, ogni stato di essere o di non-essere è condizionato.
Ma ciò che è al di là tanto dell’essere quanto del non-essere non può essere né pensato né compreso. Ci ai potrà tutt’al più avvicinare sottraendo a poco a poco limiti e forme, fino al punto di sottrarre anche il pensiero, per giungere a ciò che la teologia negativa, e l’Oriente, chiamerebbero non-conoscenza.

Chi crede invece di conoscere, non conosce.

lunedì 10 luglio 2017

Il controllo del respiro

Tutti possono praticare la meditazione, al di là delle loro religioni, in quanto si tratta di una pratica che permette di vivere meglio. Per esempio, il solo controllo del respiro è un mezzo potente per intervenire sugli stati d’animo e sulle emozioni negative.
Se siamo irritati, tesi, contratti, preoccupati, ansiosi o stressati, per prima cosa calmiamo e allunghiamo il respiro. Facciamo ogni tanto ampie e profonde respirazioni, lavorando in particolare sull’addome e sulle narici. Allunghiamo e approfondiamo il respiro finché si sblocca e ci permette di distenderci.
Quando ci accorgiamo che possiamo agire sugli stati d’animo negativi, proveremo un senso di sollievo e di soddisfazione. Finalmente scopriamo che non siamo più individui condizionati dall’esterno.
Le emozioni negative possono essere disinnescate, dominate e trasformate in un stato di calma. Le cose spiacevoli esistono ancora, ma noi non siamo più sugheri sballottati dalle onde.
Abbiamo un certo controllo su noi stessi. E questa esperienza genera un senso di gioia, qualunque realtà ci sia. Non è vero che siamo soltanto soggetti passivi degli stati d’animo prodotti dagli altri e degli eventi che accadono. Abbiamo il modo di cambiare la nostra ricezione di questa stati d’animo.
Possiamo distaccarci, rilassarci, raccoglierci e rasserenarci lavorando semplicemente sul e con il respiro, che è l’interfaccia tra corpo e spirito.
Il senso di sollievo che si prova in questa fase è il primo passo sulla via della liberazione. Perché la liberazione è essenzialmente affrancamento dai meccanismi condizionati della natura e della società che ci riducono ad automi eterodiretti.
Non appena possiamo, sblocchiamo il petto e il respiro. E, poi, quando siamo sotto attacco, applichiamo questo metodo. È un metodo che richiede pochi minuti e che può essere applicato in qualunque ambiente, in qualunque situazione e in qualunque posizione.

I grandi torturatori

Quando moriamo, vediamo una grande luce che ci attira e veniamo invasi da un sentimento di amore. Vediamo venirci incontro le persone care che erano morte e tutti ci riuniamo in letizia, accolti dal Dio Padre e da Gesù, con cui saremo eternamente felici.
Morire dovrebbe essere la cosa migliore, una grande liberazione.
Questa è la fede cristiana: perché allora i cristiani fanno di tutto per tenere inchiodati nei loro letti di dolore malati senza più coscienza e col cervello distrutto, magari intubati e tenuti in “vita” da una macchina? Evidentemente non sanno che questi poveri malati soffrono terribilmente. Evidentemente non hanno una vera fede, non credono in ciò che dicono.
La verità è proprio questa. Prevalgono l’attaccamento al morente e l’egoismo. Si preferisce tenere in vita una spoglia corporea piuttosto che lasciar andare l’anima.

Non sono queste persone i grandi torturatori, non solo loro i grandi atei che non credono né nell’anima, né in Dio, né nell’aldilà?

domenica 9 luglio 2017

In un mondo di ladri

Potremmo dire che siamo tutti dei ladri, perché ci appropriamo di cose che non ci appartengono – ma che fanno parte della più ampia natura. Così, infatti, vengono formati il corpo e l’io: qualcosa viene separato dal resto.
Ma l’errore è credere che questa appropriazione sia permanente. Prima o poi dobbiamo restituire il maltolto.
L’io si illude di poter durare a lungo per tenersi  il bottino. Si crede un proprietario, mentre è un affittuario. Ecco perché è così attaccato alle cose, alle persone, alle opinioni, alle usanze e a se stesso. Dentro di sé sente che dovrà restituire tutto, ma oppone la più strenua resistenza.
Osserviamo i nostri attaccamenti e vedremo che siamo dominati dalla paura di perderli. Sappiamo che ci siamo impadroniti di cose che appartengono alla natura.
La via prevede di sciogliere questi attaccamenti. E non è facile, ci vuole tempo. Ci vogliono vari lavaggi per attenuare il colore di un tessuto.
Giorno per giorno dobbiamo contemplare l’impermanenza del tutto e allentare i legami, fino a far scomparire le bramosie sensuali e sessuali, l’odio, la rivalità, l’ambizione, la gelosia, il rimpianto, il timore, l’ansia, ecc. Fino a lasciare una mente immota e silenziosa.
Del resto, questo è il percorso dell’esistenza. Perché, se no, esisterebbe la vecchiaia, in cui bisogna perdere giorno per giorno tutto? Cari amici ladri, dovremo lasciare tutto ciò di cui ci siamo appropriati, compreso quel delirante senso di sé.




sabato 8 luglio 2017

L'amore per la guerra

È incredibile la gran quantità di film e spettacoli sulla guerra: c’è tra gli uomini – figli di un Dio esplosivo - il gusto della sparatoria, dell’esplosione, del bombardamento, della distruzione, del fracasso, delle torture, delle ferite, del sangue e dei morti ammazzati.
Può darsi che simili spettacoli siano catartici. Ma è più probabile che siano l’espressione profonda dell’animo umano, che ama la competizione, il confronto, lo scontro, il combattimento, i vinti e i vincitori. Del resto, le nostre società sono violente anche in pace e devono comunque competere e confrontarsi, se non altro nello sport o nella rivalità politica e sociale.
C’è sempre una guerra da condurre, magari quella contro i criminali o quella promossa dal desiderio di arricchimento. C’è sempre qualcuno che vuole prevalere, sconfiggere, vincere, essere più degli altri.
Stando così le cose, è difficile prevedere che sulla Terra possa scendere un giorno la pace, il silenzio, l’armonia, la tranquillità e la quieta contemplazione. C’è guerra dappertutto, anche tra i sessi, anche nella famiglie, anche nelle religioni.
È questa la grande maledizione umana: l’aggressività, costruttiva e distruttiva. Provate a mettere un po’ di pace negli animi degli uomini e subito vi troverete contro i sistemi educativi, gli Stati e le religioni.
Ma, se siamo fatti così, è perché l’evoluzione è una grande guerra – una guerra che si svolge anche a livello cellulare e genetico. Ognuno è in guerra perfino contro se stesso.
Tutto è un guerra, “tutto è in fiamme”.
Le fiamme che ci bruciano sono quelle del desiderio, della volontà di conquista, della bramosia di possesso, del sesso, dell’amore, dell’ “io” e del “mio”.

Come ridurre tale incendio? Ovviamente bisogna innanzitutto che gli interessati se ne rendano conto. Ma questo sembra essere uno sforzo di pochi. I più amano la guerra.

Cambiare i fondamenti

Se tutto è interrelato in vita, tutto è interrelato anche in morte. Esiste dunque un Destino comune a questa umanità, i cui individui non sono in grado di liberarsi singolarmente. Solo se tutti si liberassero insieme e nello stesso tempo, l’umanità potrebbe cambiare.

In alternativa, ci vuole un singolo che riesca a entrare nella Coscienza deposito collettiva (Alaya) per modificarne i fondamenti.

venerdì 7 luglio 2017

Il corpo glorioso

Si dice che l’anima sia l’essenza dell’uomo. E il corpo no? Non è il corpo il nostro veicolo qui? E allora anche il corpo appartiene all’essenza dell’uomo. Per questo in Oriente si parla di un corpo astrale (e causale) e il cristianesimo parla della “resurrezione dei corpi”. Noi speriamo in un corpo trasfigurato, forse solo energetico, ma pur sempre un corpo.
In realtà il concetto di anima nasce proprio quando ci accorgiamo che il corpo fisico, che ci permette di stare al mondo, si trasforma in un limite e in un ostacolo alle nostre ambizioni, ai nostri propositi, ai nostri sogni.

Questa esperienza di limite ed ostacolo è sofferenza. Quando il corpo-materia non è più il nostro meraviglioso veicolo del divenire, ma un ostacolo invalicabile, e si deteriora irreparabilmente, quando diventa un mezzo inadatto, ecco che siamo pronti ad uscire dal bozzolo e a trasformarci in un altro corpo per un’altra vita.

giovedì 6 luglio 2017

Il respiro della vita

Poiché viviamo in un periodo storico di preoccupazioni e di ansie, la meditazione si pone anche come un metodo di rasserenamento. La prima cosa che si deve sapere è che ogni preoccupazione, ogni ansia, ogni angoscia, ogni stress, si ripercuote sul respiro. È molto facile trovare un rapporto tra stati mentali e ansia, e le tecniche di meditazione hanno sempre lavorato su questa corrispondenza.
In linea generale, gli stati di preoccupazione si riflettono in un respiro corto, affannato, irregolare e su una stretta dei muscoli della respirazione, come se fossimo legati e impediti a respirare liberamente. Invece gli stati di calma, di serenità e di distensione sono caratterizzati da un respiro lungo, profondo, fluido e dalla mancanza di un senso di costrizione al petto. Possiamo espandere il torace e allungare la respirazione.
Ma se gli stati di ansia, si riflettono sul respiro, è vero anche il contrario: il respiro può influenzare gli stati d’animo. Di qui tutte le tecniche volte ad allungare il respiro e a liberare il petto e i polmoni, in modo da poter inspirare più aria.
Calmare il respiro ha effetti molto potenti: riporta tranquillità, rilassamento e una sensazione di piacere e di liberazione.
Riuscire a respirare liberamente, ad espandere i polmoni, è la base di questo addestramento alla pace mentale. Il metodo più semplice è contare la durata dell’inspirazione e dell’espirazione. Se arriviamo solo a due o tre, lo stato d’animo e il respiro sono certamente contratti. Bisogna dunque lavorare per arrivare al quattro, al cinque o più. Se ci riusciamo, vedremo che anche il nostro stato d’animo si distenderà.

Il senso di tranquillità che ne deriva non è solo una questione psicofisica, ma anche una questione spirituale. È infatti proprio questo stato che ci permette ad accedere alle fasi preliminari del samadhi, ossia della condizione di liberazione, caratterizzata prima di tutto da una sensazione di soddisfazione, di quiete e di gioia.

mercoledì 5 luglio 2017

Il nostro futuro cosmico

Chi pensa che il nostro futuro cosmico si decida solo in questa breve vita e che l’aldilà sia eterno e immutabile, non tiene contro che ognuno di noi viene da un lontano passato ed ha attraversato innumerevoli esistenze e forme di vita. Come avevano già capito l’Oriente ed Empedocle,

Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare”.

Perché mai questa dovrebbe essere l’ultima trasformazione? E perché mai dovrebbe esserlo la prossima? Credere a paradiso e inferno, non comporta che siano stadi ultimi e immutabili.

L’evoluzione prosegue anche oltre.

Ridimensionare i problemi

Ridimensionare i problemi, sdrammatizzare, significa vedere come un problema che sembra enorme e tragico non è in realtà così grosso e importante.
Ma non si possono sdrammatizzare i problemi se non si ridimensiona e non si relativizza il proprio sé.
In fondo, il peggio che ci possa capitare è morire. Ma se non c’è nulla, non può accaderci nulla di male. E se c’è qualcosa, l’avventura continua.

Tutto sommato, il male può sussistere solo nel secondo caso. Ma non sarà né solo né eterno. Tutto passa, tutto si trasforma, tutto diviene e cambia.