sabato 29 settembre 2012

Sati: presenza mentale



Presenza mentale: che cosa significa essere presenti mentalmente? Non lo siamo sempre? No, non lo siamo sempre, o lo siamo superficialmente, distrattamente. Spesso per esempio non ci rendiamo conto che il nostro corpo soffre o ha bisogno di riposo, spesso non ci rendiamo conto di non essere presenti mentalmente, di fantasticare, di sognare, di ricordare, di sperare... e di essere altrove. La nostra mente è altrove, e con essa il nostro stesso essere. Chi fantastica molto può capire quello che dico: è come compiere un viaggio altrove, dimenticandoci di dove siamo realmente. Ecco il punto: possiamo essere fisicamente qui, ma mentalmente chissà dove, chissà in quale passato o in quale futuro, chissà con chi. Il mondo dell'immaginario è infinito.
Presenza mentale significa allora diventare coscienti del momento presente, delle condizioni attuali. Io mi trovo qui, in questo istante e in questo luogo. Non solo: mi rendo conto che la mia mente un attimo prima era assente, inseguiva pensieri, sensazioni, fantasie, ecc. Ogni tanto devo cercare di ritornare al presente, uscendo dal mondo immaginario. È come un richiamo improvviso all'attenzione, un alt! Alt, fermati, osservati esattamente in questo istante. Che cosa stai facendo, che cosa stai pensando? Fermati, ferma la mente. Ti accorgerai di quanto sei stato lontano, di quanto sei abitualmente lontano dalla realtà, di quanto ti fai trasportare dai sogni.
Ritorna al presente, osserva. Come respiri, come cammini, come stai seduto, come ti senti, che cosa senti, che cosa pensi? Ponendoti la domanda, dai automaticamente un alt a tutta questa attività fisica e mentale. In quel momento sei consapevole, in quel momento puoi vederti chiaramente per quel che sei. È come gettare una luce improvvisa in una stanza buia.
Esercitati periodicamente a vederti per quel che sei, ad essere attento e consapevole. Interrompi quel che fai e quel che pensi. Puoi eseguire l'esercizio seduto, sdraiato o in movimento. Puoi per esempio, diventare consapevole del respiro: come inspiri, come espiri? Ti accorgi della pause tra inspirazione ed espirazione e viveversa? Il tuo respiro è agitato? Con l'attenzione puoi calmarlo e, quindi, calmare la mente. Puoi osservare o percepire una qualsiasi parte del corpo: ti fa male? Perché?
Puoi esaminare le sensazioni. Sono piacevoli o spiacevoli? Perché? Puoi esaminare inoltre ogni stato della mente: che cosa stai provando? Odio, avversione, ira, amore, nostalgia, passione, attaccamento, paura..? O gioia, serenità, distacco? Osserva tutto e prendi nota. Rientra in te stesso, guardati.
È come vedersi per la prima volta o rivedersi, è come essere dei semplici osservatori di se stessi. Che cosa sei? Chi sei? Non darti una risposta. Soffermati sulla domanda, cioè sulla situazione attuale in cui ti trovi. Quello tu sei. Poi tornerai a dividerti e a frammentarti, e a recitare varie parti, ma per qualche attimo esci dal bozzolo delle interpretazioni, delle etichette, dei concetti. Quella tua consapevolezza è la parte più reale del tuo essere. Riesci a farla persistere per un po' di tempo?
Sai che questo è lo stato che può portarti al risveglio - al risveglio dal sogno della mente?

giovedì 27 settembre 2012

Migliorarsi


Un lettore mi scrive a proposito del mio post "La salita al Monte Carmelo":

"Non ci vuole uno sforzo per risvegliare la consapevolezza? Non bisogna lottare contro i propri condizionamenti, cercare di "ricordarsi di sé" per quanto ci risulti difficile, imparare a osservarsi e migliorare? Mi sembra che tutto questo percorso implichi un enorme sforzo. Potrebbe chiarirmi questo punto? Grazie..."

Sì, ci vuole un gran lavoro per migliorarsi, tanto che per molti di noi ci vorranno molte vite. Ma l'importante è aver incominciato. Quello che metto in dubbio, però, è l'idea che si debba combattere tutta la vita, come se si trattasse di una guerra. Non mi piace questa idea belligerante dell'esistenza, che finisce per aggravare tensione e sofferenza. Non siamo in guerra e non abbiamo in noi solo un nemico. Noi dobbiamo essere i migliori amici di noi stessi. Pur con tutti i nostri difetti, siamo venuti alla luce  e abbiamo la possibilità di essere consapevoli. Abbiamo insomma già vinto un terno al lotto. Il problema non è combattere duramente contro noi stessi, oltretutto dividendoci drammaticamente in due. Questo era l'ascetismo antico. Bisogna imparara ad apprezzarci, a mollare ogni tanto la presa e a rilassarci.
Più si desidera e si cerca accanitamente, più ci si allontana dalla meta: i racconti zen sono pieni di storie in cui il protagonista ottiene l'illuminazione proprio nel momento in cui cede a lascia andare, dopo essersi tanto impegnato. Perché l'illuminazione non è solo un accanirsi ma anche un lasciar andare, non è solo un concentrarsi ma anche un aprirsi.
È vero che talvolta la vita sembra ed è una guerra. Ma anche in una guerra ci sono periodi di tregua, di amore e di amicizia. Se no, il mondo sarebbe un inferno.
Bisogna arrivare a saper alternare saggiamente concentrazione e distensione, impegno e rilassamento. Anche il respiro ha due fasi: quella in cui si inspira l'aria e si compie dunque uno sforzo e quella in cui si espira l'aria rilassando i muscoli del torace e del diaframma. Teniamo presente che la meditazione ha più a che fare con un sentimento di calma e di serenità che con l'agitazione e la durezza.
Essere presenti, essere consapevoli è sì uno sforzo, ma ha come premio un allargamento gioioso della conoscenza e dell'essere. Rendersi conto di ciò che stiamo facendo, sentendo o pensando è un allentare la pressione. Ogni tanto, periodicamente, prendiamo coscienza del nostro stato allargando l'orizzonte, magari proprio durante un'espirazione.
In conclusione la pratica della meditazione non deve trasformarsi in una sofferenza. Non dimentichiamoci ciò che dice Thich Nhat Hanh nell'opera La meditazione camminata: "Se siete siete in pace, liberi e pieni di gioia avrete trasformato il samsara [il ciclo della vita e della morte] nella Pura Terra e non ci sarà più bisogno di andarsene via".

mercoledì 26 settembre 2012

Questioni di serietà



Da tempo vado ripetendo che la questione politica in Italia è legata alla questione morale. Il fatto è che gli italiani non hanno senso etico, sono cattolici allevati all'ombra del moralismo piccolo-borghese del cattolicesimo. In nessun altro paese europeo possono accadere le cose che capitano da noi, lo scialo del denaro pubblico. Questo dimostra che si tratta di un problema del nostro popolo - un popolo appunto privo di senso civico, un popolo privo di senso del bene comune, un popolo di approfittatori che considerano la politica un mezzo per fare soldi, per avere privilegi. L'anomalia italiana è tutta qui. Non siamo un popolo di gente seria. Basta vedere i nostri programmi televisivi: spettacoli di buffoni, anche quando si tratta di politici. Spettacoli di commedianti . Lo stesso dicasi per la religione: sacre rappresentazioni, preti e papi che fanno sfoggio dei vestiti di Armani. Senza nessuna sostanza.
Questa è la cultura italiana - tutta votata all'esteriorità. Questo è un popolo che ha bisogno di una riconversione psicologica.
Come mai non riusciamo a introdurre una legge anti-corruzione? E perché ce la facciamo imporre dall'Europa? Evidentemente da soli non ce la faremmo.
In tutte le scuole dovremmo introdurre lezioni di serietà. Un po' di interiorità per tutti. Smettere di ciarlare, smettere di apparire, fare il silenzio interiore... e sapersi guardare.

lunedì 24 settembre 2012

L'atteggiamento meditativo


Tutti cerchiamo di evitare la sofferenza e di ottenere la felicità. D'accordo: è naturale. Ma in tal modo ci troviamo sempre in lotta contro qualcosa e in favore di qualcos'altro. Perché non sostituire questo atteggiamento con uno di più o meno serena contemplazione di tutto ciò che ci capita, indipendentemente dal fatto che sia piacevole o spiacevole? In questo modo supereremmo l'atteggiamento di evitazione, di avversione, e diminuirebbe anche la nostra infelicità.
Assumiamo un atteggiamento di curiosità, di interesse, di esplorazione. Un po' come quello di uno scienziato che osserva con interesse anche il bubbone, lo scarafaggio o lo sterco. Non sono cose belle, ma sono comunque degne di considerazione. Anzi, il fatto di osservarle con interesse ci può portare dei vantaggi in termini conoscitivi e quindi in termini di eventuale intervento.
Il problema dunque non è quello di sbarazzarci con ribrezzo di qualcosa, ma di essere consapevoli di tutto. Anziché adottare uno spirito di combattimento e di chiusura (c'è un famoso libro che s'intitola Il combattimento spirituale), adottiamo uno spirito di inclusione (non di semplice accettazione, si badi bene) e di ricerca.
In fondo non è possibile eliminare il male, l'infelicità e la sofferenza. Dovremo sempre averci a che fare. Non possiamo cambiare questo stato di cose. Non potremo tenerci sempre il lato positivo delle cose. Magari fosse possibile! La vita sarà sempre un miscuglio e un alternarsi di felicità e di infelicità, di luci e di ombre, di chiarezza e di oscuramento, di saggezza e di ignoranza. In noi, come in tutti... anche nei santi.
Diventiamo dei testimoni, degli esploratori... dello spirito. E lasciamo perdere per ora i giudizi e i preconcetti. Siamo scienziati che esaminano con il massimo interesse non solo il metabolismo e la buona salute, ma anche le loro disfunzioni.

Esperienze post mortem


Un gentile lettore mi ha scritto la seguente lettera:
Egr. sig. Lamparelli,
mi permetto di chiederle un’indicazione, dal momento che la “incontro” spesso nelle mie letture, stavolta come traduttore de “ il libro tibetano dei morti” (che già conoscevo nella proposta di Tucci, di N. Norbu...). Questa presentazione mi sembra più articolata in tutti i suoi riferimenti e redatta con un linguaggio molto più scorrevole.
Il punto comunque è il seguente: una volta apprezzata la comprensione degli stati post mortem e l’intento compassionevole volto al conseguimento della liberazione anche in extremis, quale valenza ne può trarre un occidentale che non è cresciuto nella cultura tibetana e non può certo conoscere/riconoscere il pantheon delle figure soccorritrici?
Esiste nella cultura occidentale qualche conoscenza analoga, magari libera da ogni sovrastruttura immaginifica e religiosa, che sia paragonabile a questo trattato e possa essere di aiuto sia in vita sia nel tempo del trapasso?
La ringrazio per l’attenzione e i suggerimenti che vorrà darmi.

 E io gli ho risposto:

Il problema che lei si è posto me lo sono posto anch'io. Direi di lasciar perdere i particolari folcloristici, legati alla specifica cultura tibetana, e di prendere solo l'essenziale. Ad un occidentale potrebbero presentarsi figure religiose della propria tradizione (madonne, santi e così via). Ma bisogna sempre tener presente che si tratterebbe comunque di proiezioni della propria mente. Questo lo ammette anche il Bardo Todol: tutti quegli dei sono prodotti dal mondo interiore del morto, sono immagini dell'inconscio. Allora che cosa rimane?
Rimane l'idea che la coscienza umana in qualche modo sopravvive e lavora attivamente, anche dopo la morte. E che essa si trova in uno stato di sospensione in cui deve decidere quale via imboccare, guidata non più dalla ragione superficiale, ma da ciò che ha acquisito nel profondo durante la vita e da forze cosmiche (le luci) che le presentano varie scelte. In tal senso bisogna lavorare durante l'esistenza: liberarsi delle idee più comuni e cercare collegamenti con altre realtà. La meditazione può aiutare.
In ogni caso, bisogna tener a mente questo: seguire le luci più forti e non aver paura.
Non conosco opere simili a questa. Ma le innumerevoli esperienze di gente che è stata in punto di morte e che poi si è ripresa, presentano tutte caratteristiche similari: sentirsi liberati dal corpo fisico, udire voci o suoni straordinari, avere visioni di personaggi religiosi, di spiriti o di persone care, passare attraverso una specie di tunnel, essere attirati da una forte luce o terrorizzate da altre, e provare sensazioni mai provate prima o comunque enormemente moltiplicate.
Anche le esperienze di certi mistici riferiscono racconti analoghi.
Finché si è in vita, è meglio familiarizzarsi con idee del genere, in modo da non cadere in confusione di fronte ad esperienze straordinarie. La nostra mente attuale è molto limitata. Ma, liberata dal corpo fisico, può assumere capacità ben più potenti. Siamo o non siamo pezzi di universo, particelle di infinito? Ce lo dice anche la scienza. E dunque...

sabato 22 settembre 2012

Conflitti di civiltà


Non possiamo in Occidente rinunciare ai nostri diritti di critica e di satira solo per non irritare le masse musulmane, che, di fronte a qualche vignetta su Maometto, si danno a manifestazioni inconsulte, chiaramente pilotate dai loro capi, in cui uccidono o si fanno uccidere. E non possiamo accettare che questa gente proclami condanne a morte per scrittori, autori e umoristi. La civiltà musulmana non dà luogo a nessuna democrazia, tant'è vero che, ad eccezione della Turchia, tutti i regimi ispirati all'Islam sono in realtà dittature politico-religiose, il peggio del peggio per quanto riguarda la libertà dei cittadini. Noi non possiamo censurarci per non dispiacere a qualcuno che non rispetta i diritti civili. La civiltà occidentale, essendo avanti di cinque secoli rispetto a quella islamica ha in gran parte superato i regimi politico-religiosi, tranne in Italia dove la Chiesa spartisce il potere con uno Stato succube. E infatti anche da noi qualche fondamentalista cristiano ha approfittato dell'occasione per dire che non si può offendere una religione. Ma qui bisogna intendersi: criticare o fare satira non è offendere - è esercitare il diritto fondamentale della libertà d'espressione. Certo, cinquecento anni fa sarebbe stato diverso anche da noi e qualcuno sarebbe finito al rogo.
Tutto ciò ci conferma come fede e fanatismo siano parenti stretti e come aderire anima e corpo a una religione significhi mandare in pensione la razionalità. Ma soprattutto ci conferma che non distinguere tra Stato e religione sia la peggiore iattura che possa capitare ai popoli.

mercoledì 19 settembre 2012

Il paradosso dell'esistenza


Sì, la condizione umana è paradossale. L'uomo, che è un animale, è insoddisfatto di esserlo, e vorrebbe essere qualcosa di più: un essere divino, la discendenza di qualche dio. Questa sua insoddisfazione, questa sua ansia, è da una parte sofferenza e dall'altra parte un segno di effettiva trascendenza. È incredibile quanto l'uomo abbia lottato e sofferto per affrancarsi dalla natura e diventare il re del creato. Quale forza lo ha sostenuto? La coscienza di essere, che è la sua gloria, è anche la fonte della sua angoscia quando capisce che dovrà morire. Gli dei hanno riservato per sé la vita eterna, ma hanno escluso l'uomo. La ricerca scientifica, la ricerca religiosa, la ricerca spirituale sono sempre in fondo una ricerca di immortalità o almeno un tentativo di allungare il più possibile l'esistenza. Ma sembrano esserci limiti invalicabili. E, allora, ecco le elucubrazioni su una possibile sopravvivenza ultraterrena, su un altro mondo, su un'altra vita. Dagli uomini delle caverne agli imperatori cinesi, dagli antichi egizi agli alchimisti, tutti hanno cercato un rimedio contro la morte, l'elisir per l'immortalità. E ancora oggi è così. Si scruta nell'infinitamente grande e nell'infinitamente piccolo alla ricerca dei modi per prolungare la vita.
Ma intanto le malattie ci falcidiano, la vecchiaia non perdona nessuno e la morte è sempre lì, in attesa. Avremo un'anima? Siamo destinati al nulla? Le religioni ci parlano di paradisi e inferni, e il buddhismo, pur negando l'esistenza di un sé, ci parla di un nirvana, che non è comunque un nulla.
Viviamo sull'abisso, continuamente dilaniati da esigenze contrapposte. Dovremmo rilassarci, ma è difficile farlo dato che vivere è una tensione continua. Come uscire dalla contraddizione? Lo Zen ha ben evidenziato questa situazione nei suoi paradossi. Prendiamo il caso dell'uomo e della tigre.
Un uomo stava camminando nella foresta quando s'imbatté in una tigre. Fatto dietro-front precipitosamente, si mise a correre inseguito dalla belva. Giunse sull'orlo di un precipizio, ma per fortuna trovò da aggrapparsi al ramo sporgente di un albero.
Appeso per le braccia, guardò in basso e vide sotto di sé un'altra tigre. Come se non bastasse, arrivarono due grossi topi che incominciarono a rodere il ramo. Ancora un po' e il ramo si sarebbe spezzato.
Fu allora che l'uomo scorse un frutto maturo. Tenendosi con una mano sola, lo colse e lo mangiò.
Com'era buono!
Ecco, questa è la nostra situazione. Prima della fine o della salvezza, tra l'essere e il nulla, c'è una successione di attimi ancora da vivere. Rifiutandosi di cedere tanto allo sconforto quanto alla speranza, lasciando perdere sia il passato sia il futuro, c'è il momento presente... in cui si può - e si deve - gustare quello che ci viene offerto.
       Con tutti i nostri difetti, noi uomini siamo degli eroi.

lunedì 17 settembre 2012

Buddha e Gesù


Buddhismo e cristianesimo non hanno niente in comune: l'uno mira alla liberazione dell'uomo da ogni istanza metafisica, l'altro invita alla sottomissione ad presunto Signore dell'universo. Ma i fondatori di queste due religioni condividono una caratteristica: la polemica contro la casta sacerdotale e la religione dei culti, del formalismo e dei sacrifici. Ai tempi del Buddha esisteva una precisa casta sacerdotale, quella dei brahmani, che si arrogavano il privilegio di fare da mediatori tra gli uomini e gli dei. In sostanza, solo i brahmani potevano celebrare le cerimonie religiose e solo i loro rituali erano considerati validi. La loro presunzione era tale che essi sostenevano che perfino gli dei dipendessero dai sacrifici celebrati e che le loro formule fosseroin grado di assoggettare la volontà dei celesti. Il cuore della loro religione era dunque una serie di riti, pubblici e privati, che dovevano accompagnare ogni avvenimento dell'esistenza. In un rituale si potevano infatti sacrificare centinaia di tori, buoi, vacche, capre, cavalli, ecc. Ma proprio contro questo tipo di religiosità predicava il Buddha che in varie occasioni sconsigliò qualcuno di eseguire sacrifici propiziatori e in parecchi testi sostiene che il vero brahmano è colui che vive attento e concentrato, evitando passioni, attaccamenti e violenze, colui che è capace di meditare, e non di certo l'uomo che compie esercizi ascetici o che sacrifica animali agli dei.
Cinquecento anni dopo, anche Gesù fu fautore di una religione non più basata sui sacrifici di animali, ma sulla misericordia. Citava la frase di Osea: "Misericordia, voglio; non sacrifici". Ai suoi tempi, il tempio di Gerusalemme era un enorme mattatoio in cui venivano sacrificati gli animali. Per lui, riti e cerimonie «sacre» hanno ben scarso valore. Insieme con i profeti precedenti, ripete che il culto voluto da Dio non è fatto di sacrifici e di liturgie, ma di azioni pratiche, di carità verso il prossimo, per esempio dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, ospitare i forestieri, vestire gli ignudi, visitare i malati e i carcerati, e aiutare in genere chiunque soffra. È per questo che il «laico» samaritano, soccorrendo il ferito della parabola, risulta più religioso di un sacerdote e di un levita che certo avranno osservato ogni «iota» della Legge.
Tuttavia, non basta nemmeno tale attività caritativa per meritarsi il regno dei cieli. Già nel giudaismo si praticavano opere assistenziali, per le quali si costituivano particolari associazioni. Quando Gesù ci parla di elemosine, orazioni e digiuni, segue regole preesistenti che anche i migliori farisei osservavano. Per un ricco, non è difficile fare un po' di beneficenza. Ma basta fare qualche offerta per assicurarsi la salvezza?
Il culto che egli propugnava non era qualcosa di precostituito e di esteriore, qualcosa di formalizzato una volta per tutte, qualcosa che si sarebbe inevitabilmente burocratizzato, ma un rapporto intimo e profondo fra la creatura e il Padre celeste. E nessuno può «amare» Dio e gli uomini sulla base di regolamentazioni, di riti e di prescrizioni fiscali.
Gesù si era battuto contro la pretesa che qualche gruppo potesse erigersi a casta religiosa «separata» (questo è il senso del termine «fariseo»).
Egli mirava a far sì che gli uomini ricuperassero un rapporto diretto, immediato, con il Creatore, identificato – non a caso – con la figura familiare del Padre; e trovava proprio nella casta sacerdotale e nella setta farisaica – con le loro pretese di mediazione fra l'uomo e Dio – il maggior ostacolo.
«Si avvicinava la festa ebraica della Pasqua e Gesù salì a Gerusalemme. Nel cortile del Tempio trovò gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti ai loro banchi.
«Costruita allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti dal Tempio, con le pecore e i buoi; rovesciò anche i banchi dei cambiavalute spargendo a terra il loro denaro. Poi disse ai venditori di colombe: "Portate via queste cose e non fate mercato della casa di mio Padre!'» (Gv 2, 13-16).
Nella scena della cacciata dal Tempio, Gesù non se la prende solo con quei commercianti di colombe e di altri animali da sacrificio. La sua reazione è rivolta innanzitutto contro i responsabili del Tempio (sadducei, sacerdoti e leviti), che fanno del culto una forma di mercanteggiamento con Dio. Costoro capirono perfettamente che l'attacco era rivolto contro di loro, tanto che – come scrive Luca – «i sommi sacerdoti, gli scribi e gli altri notabili del popolo cercavano il modo di farlo morire» (Lc 19, 47). Il suo atteggiamento «antiecclesiastico» è dunque più che evidente. Non solo predice la rovina del Tempio ma, ogni volta che nomina le sinagoghe, le considera luoghi in cui i suoi seguaci saranno torturati:

Ma se Buddha e Gesù sono accomunati da questa polemica contro la casta sacerdotale e contro la religione dei rituali, l'esito storico sarà diverso. Mentre infatti Gesù, privo di senso pratico, finirà per essere fatto fuori dalla casta che criticava, Buddha, proveniente da una classe sociale elevata e dotato di senso politico, riuscirà a campare fino a tarda età. Il fatto è Gesù, benché parli di amare i nemici, si contrapponeva irosamente ad essi; invece nel DNA del Buddha c'era proprio la non-contesa, il non-odio, la non-ira.

lunedì 10 settembre 2012

Lo spirito del rilassamento


Come mai il rilassamento, la calma e il silenzio mentale vengono caldeggiati dal Buddhismo e in generale dalla spiritualità della meditazione, ma non dalle altre religioni? Come mai nelle altre religioni non troviamo mai un invito a rimanere tranquilli o a stare seduti senza fare nulla? Come mai troviamo invece appelli alla guerra contro il male, alle crociate, all'impegno ascetico, allo sforzo, alla lotta, eccetera? Sì, talvolta troviamo inviti alla pace... ma lasciati cadere distrattamente, quasi senza crederci veramente. In Gesù troviamo perfino frasi come: "Non sono venuto a portare la pace, ma una spada!". Il risultato sono le nostre società (cristiane, musulmane, ebraiche, indù, ecc.), dominate dalla guerra interna ed esterna, dalla lotta, dalla competizione e soprattutto dal rumore continuo. Tutte ci dicono che dobbiamo lottare... per conquistare il bene, s'intende: ma, intanto, è guerra.
Il problema è molto profondo. E non si tratta di qualcosa di esteriore o di ambientale. Il fatto è che l'uomo è prima di tutto in guerra con se stesso. Mentre un gatto è un gatto e non aspira ad essere altro; mentre un platano è un platano e non vuole essere un ciliegio o chissà che altro, l'uomo aspira sempre ad essere altro da sé. O vorrebbe essere come certi modelli irraggiungibili (gli attori, i ricchi, i potenti, i famosi, ecc.) o vorrebbe essere più bello, più forte, più intelligente, più virtuoso, ecc. Anche in campo religioso, è accesa la gara ad essere ciò che non si è: devi migliorarti, devi lottare contro il male, contro le cattive tendenze, devi essere più buono, devi essere perfetto come lo è Dio, ecc. Insomma, ti senti un essere inferiore e devi impegnarti a fare meglio. Da qui la gara continua a fare di più, ad essere migliore... a non essere ciò che sei. Da qui la febbre mentale che fa stare male tutti, l'irrequietezza senza tregua, l'invidia, l'ira, l'avversione verso gli altri e verso te stesso. Questo è il punto: nessuno ti dice che vai bene così come sei... e che, anzi, stai male proprio perché non ti accetti.
Nessuno ti dice di stare calmo, di rilassarti, di stare in silenzio, di restare fermo. Nessuno ti dice di accettare te stesso e gli altri, coloro che sono diversi da te. Nessuno ti dice che, restando quello che sei, sei già perfetto... qualunque cosa tu sia. Sei perfetto, così come lo il gatto o il platano. Credi forse che Dio abbia fatto le cose sbagliate? Sì, lo credi. Lo credi al punto che credi anche nel Diavolo. Ma nota come il prefisso -di di Dio e Diavolo, di antica origine indo-europea, già stia a indicare la divisione. Tutto è diviso nel nostro mondo, dall'io a Dio. Tutto è in dissidio e in competizione.
Se predicassimo la calma, invece dello sforzo, e se stigmatizzassimo chi è agitato, nervoso e irascibile, basterebbe questo a trasformare il mondo. Ma i nostri valori sono altri. E si vede. Siamo in guerra dalla mattina alla sera, contro gli altri e contro noi stessi.
Ma prova a rilassarti, a stare seduto senza fare niente, a fare silenzio nella tua mente. Prova a smettere di aspirare ad essere diverso da ciò che sei. Prova a smettere di desiderare il perfezionismo. Prova a smettere di desiderare che non ci siano aspetti negativi in te o negli altri. Male e bene sono dappertutto e in tutti. E allora datti una calmata, rilassati. Rilassati in ciò che sei. Non importa come sei. Comunque tu sia, con tutti i tuoi difetti, vai già bene, sei autentico. Tu sei fortunato ad essere nato... ad essere. Tra milioni di spermatozoi hai già vinto tu. Hai già vinto alla lotteria. Renditene conto. Hai aperto gli occhi sull'essere... e dunque sei. Che altro vuoi?
D'accordo, non sei perfetto. Ma nessuno lo è, nemmeno Dio. Dunque, rilassati. Assapora ciò che sei, il fatto di essere. Non devi essere diverso, non devi essere un altro, non devi essere migliore, non devi alienarti. Così come sei, con tutti i tuoi pregi e i difetti, sei autentico. E il tuo compito nella vita è essere te stesso, è essere autentico. E questo lo puoi essere semplicemente... rilassandoti.
Ecco come il rilassamento, la calma e il silenzio interiore diventano spiritualità. Sembrava niente rilassarsi, sembrava un fatto fisico, un problema di stress. No, è il tuo problema, è il problema fondamentali degli esseri umani.
Appena puoi, rilassati. Cerca di essere te stesso. Accettati. Così farai felice, oltre a te stesso, anche l'universo.
Riappacificarsi con se stessi per riappacificarsi con il mondo - questo è il senso profondo del rilassamento.

domenica 9 settembre 2012

La salita al Monte Carmelo


Sembra che la via debba essere un'aspra e lunga salita, che ci si debba allenare sempre di più, che ci siano da superare tanti ostacoli, che si debba essere sempre più vitruosi e buoni... ma non è così. Non c'è veramente un'ascensione, un progressivo miglioramento, un continuo perfezionamento. Perché la meta non sta in alto. E perché tu non devi affatto migliorare.
La meta è già in tuo possesso, sei tu, è la consapevolezza che si accende. La meta è già in te, anzi è dietro di te. È ciò che è consapevole in te. È lo sguardo che guarda. Non è davanti a te, non è sopra di te. Quindi in realtà non c'è nessuna meta. Sei già nella meta, non ti sei mai allontanato da essa. Ce l'hai dentro di te, è te.
Le pratiche ascetiche, le buone azioni, il perfezionamento spirituale, i rituali, la lotta contro il male... tutte sciocchezze di una religiosità deteriore.
La meta è un attimo di consapevolezza, è scoprire che non ti eri mai mosso dalla meta. È un rinunciare a protendersi. È scoprire ciò che hai sempre avuto, ciò che sei sempre stato. Non devi tanto perfezionarti, perché ciò che hai e sei va già bene così com'è. on devi salire su una montagna. Devi smettere di sforzarti. E ritrovare il tuo essere essenziale, originale.

giovedì 6 settembre 2012

L'insoddisfatto

"Il più piccolo dei felini è una capolavoro della natura" scriveva Leonardo da Vinci riferendosi al gatto. In realtà, quasi tutti gli animali sono organismi perfetti: lo squalo, il cefalo, il cavallo, il ragno, il gabbiano, le formiche, ecc. Ognuno svolge perfettamente il suo compito, ognuno è soddisfatto di ciò che è, ognuno è una meraviglia della natura. Tutti, tranne l'uomo. L'uomo non è soddisfatto, ha desideri che superano le sue possibilità, ha comportamenti del tutto innaturali, è in parte in preda all'istinto e in parte no. Come diceva Nietzsche, "l'uomo è l'animale malato". È un animale che non si rassegna ad esserlo e che sporge dai suoi stessi limiti. Un po' animale e un po' no. Ma proprio questa è la sua grandezza. Non sappiamo quale sia il suo destino, non sappiamo a che cosa darà origine, non sappiamo se durerà a lungo, non sappiamo se questa sua eccedenza di senso sia un difetto che lo perderà. Però ci rendiamo conto che la sua insoddisfazione non è solo una dannazione, ma un desiderio di trascendenza.

L'Anticristo

Non è un caso che all'origine del cristianesimo come religione organizzata ci sia quel Pietro che aveva tradito Gesù. In realtà il cristianesimo nasce proprio come tradimento del messaggio del suo ispiratore. "Misericordia voglio, non sacrifici" ripeteva il Nazareno citando un profeta dell'Antico Testamento, Osea. E intendeva dire che voleva fatti concreti, aiuti dati agli uomini, e non rituali, non libri sacri, non chiese, non sacerdoti di professione. Ma immediatamente fu tradito, non solo da Pietro che, essendo lento di comprendonio, non aveva capito il suo messaggio, non solo da Paolo che non l'aveva mai conosciuto, ma anche dalla religione nascente, che falsificò i Vangeli mettendo in bocca al Nazareno frasi che non aveva mai pronunciato. Insomma l'Anticristo di cui si favoleggia in alcuni testi del Nuovo Testamento era già presente poco dopo la morte del Cristo, aveva già preso forma nel desiderio dei suoi seguaci di creare un culto organizzato.

domenica 2 settembre 2012

La morte del cardinal Martini


E così il Cardinal Martini è morto con dignità, rifiutando l'accanimento terapeutico, quell'alimentazione forzata e quel sondino che i bigotti nostrani volevano imporre a tutti con una legge sul testamento biologico. D'altronde aveva scritto Martini: "Le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona".
Questione di buon senso, quel buon senso che manca ai clericali nostrani che vorrebbero impedire all'individuo ogni possibilità di scelta.
Lui ha potuto scegliere, ma Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro no.
E il padre di Eluana Englaro ha commentato: «L'eutanasia non c'entra, la sua è stata autodeterminazione. È il diritto di ognuno di poter dire: "non mi impedite di morire"».
Se però al cardinale fossero state inseriti sondini o macchine per la respirazione, si sarebbe trovato nella stessa situazione di Piergiorgio Welby o di Eluana Englaro.
L'insegnamento che ci viene da questa vicenda è sempre lo stesso: chi è importante, potente o ricco può scegliere, magari andando in qualche clinica Svizzera. Gli altri no. Pura ipocrisia.
Martini lascia un buon ricordo perché era un uomo capace di ascoltare e di rispettare le idee altrui, cose che i gli altri cardinali, vescovi e papi si sono dimenticati di fare, intenti solo a imporre le loro idee. Non per nulla, era stato emarginato in senso alla Chiesa.

De-situarsi


In una intervista radiofonica, Umberto Galimberti dice che le vacanze sono il periodo migliore per "de-situarsi", ossia per interrompere le proprie abitudini e cercare uscire dal ruolo che ci siamo attribuiti nella vita quotidiana. Noi questo lo diciamo in continuazione, e consigliamo la pratica della meditazione per "de-situarsi" non solo una volta l'anno, ma tutto l'anno, tutti i giorni. È necessario riuscire a riconoscerci al di là dei ruoli che svolgiamo abitualmente: quelli professionali, quelli sociali, quelli relazionali, quelli culturali, quelli religiosi, e così via. Quanto più ci identifichiamo con questi ruoli, tanto più ci alieniamo da noi stessi, diventiamo delle maschere, dei pupazzi. Tutto ciò che diciamo e pensiamo deriva dal ruolo, non da ciò che siamo veramente, e così perdiamo noi stessi.
Per ricuperare il nostro sé originale, per ritrovare ciò che siamo veramente, al di là delle maschere che la società ci impone o che ci imponiamo noi stessi, dobbiamo ogni giorno ricordarci che c'è un altro sé, che c'è un'altra identità, più profonda e più autentica. E dobbiamo ritrovare il contatto con essa.