lunedì 17 settembre 2012

Buddha e Gesù


Buddhismo e cristianesimo non hanno niente in comune: l'uno mira alla liberazione dell'uomo da ogni istanza metafisica, l'altro invita alla sottomissione ad presunto Signore dell'universo. Ma i fondatori di queste due religioni condividono una caratteristica: la polemica contro la casta sacerdotale e la religione dei culti, del formalismo e dei sacrifici. Ai tempi del Buddha esisteva una precisa casta sacerdotale, quella dei brahmani, che si arrogavano il privilegio di fare da mediatori tra gli uomini e gli dei. In sostanza, solo i brahmani potevano celebrare le cerimonie religiose e solo i loro rituali erano considerati validi. La loro presunzione era tale che essi sostenevano che perfino gli dei dipendessero dai sacrifici celebrati e che le loro formule fosseroin grado di assoggettare la volontà dei celesti. Il cuore della loro religione era dunque una serie di riti, pubblici e privati, che dovevano accompagnare ogni avvenimento dell'esistenza. In un rituale si potevano infatti sacrificare centinaia di tori, buoi, vacche, capre, cavalli, ecc. Ma proprio contro questo tipo di religiosità predicava il Buddha che in varie occasioni sconsigliò qualcuno di eseguire sacrifici propiziatori e in parecchi testi sostiene che il vero brahmano è colui che vive attento e concentrato, evitando passioni, attaccamenti e violenze, colui che è capace di meditare, e non di certo l'uomo che compie esercizi ascetici o che sacrifica animali agli dei.
Cinquecento anni dopo, anche Gesù fu fautore di una religione non più basata sui sacrifici di animali, ma sulla misericordia. Citava la frase di Osea: "Misericordia, voglio; non sacrifici". Ai suoi tempi, il tempio di Gerusalemme era un enorme mattatoio in cui venivano sacrificati gli animali. Per lui, riti e cerimonie «sacre» hanno ben scarso valore. Insieme con i profeti precedenti, ripete che il culto voluto da Dio non è fatto di sacrifici e di liturgie, ma di azioni pratiche, di carità verso il prossimo, per esempio dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, ospitare i forestieri, vestire gli ignudi, visitare i malati e i carcerati, e aiutare in genere chiunque soffra. È per questo che il «laico» samaritano, soccorrendo il ferito della parabola, risulta più religioso di un sacerdote e di un levita che certo avranno osservato ogni «iota» della Legge.
Tuttavia, non basta nemmeno tale attività caritativa per meritarsi il regno dei cieli. Già nel giudaismo si praticavano opere assistenziali, per le quali si costituivano particolari associazioni. Quando Gesù ci parla di elemosine, orazioni e digiuni, segue regole preesistenti che anche i migliori farisei osservavano. Per un ricco, non è difficile fare un po' di beneficenza. Ma basta fare qualche offerta per assicurarsi la salvezza?
Il culto che egli propugnava non era qualcosa di precostituito e di esteriore, qualcosa di formalizzato una volta per tutte, qualcosa che si sarebbe inevitabilmente burocratizzato, ma un rapporto intimo e profondo fra la creatura e il Padre celeste. E nessuno può «amare» Dio e gli uomini sulla base di regolamentazioni, di riti e di prescrizioni fiscali.
Gesù si era battuto contro la pretesa che qualche gruppo potesse erigersi a casta religiosa «separata» (questo è il senso del termine «fariseo»).
Egli mirava a far sì che gli uomini ricuperassero un rapporto diretto, immediato, con il Creatore, identificato – non a caso – con la figura familiare del Padre; e trovava proprio nella casta sacerdotale e nella setta farisaica – con le loro pretese di mediazione fra l'uomo e Dio – il maggior ostacolo.
«Si avvicinava la festa ebraica della Pasqua e Gesù salì a Gerusalemme. Nel cortile del Tempio trovò gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti ai loro banchi.
«Costruita allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti dal Tempio, con le pecore e i buoi; rovesciò anche i banchi dei cambiavalute spargendo a terra il loro denaro. Poi disse ai venditori di colombe: "Portate via queste cose e non fate mercato della casa di mio Padre!'» (Gv 2, 13-16).
Nella scena della cacciata dal Tempio, Gesù non se la prende solo con quei commercianti di colombe e di altri animali da sacrificio. La sua reazione è rivolta innanzitutto contro i responsabili del Tempio (sadducei, sacerdoti e leviti), che fanno del culto una forma di mercanteggiamento con Dio. Costoro capirono perfettamente che l'attacco era rivolto contro di loro, tanto che – come scrive Luca – «i sommi sacerdoti, gli scribi e gli altri notabili del popolo cercavano il modo di farlo morire» (Lc 19, 47). Il suo atteggiamento «antiecclesiastico» è dunque più che evidente. Non solo predice la rovina del Tempio ma, ogni volta che nomina le sinagoghe, le considera luoghi in cui i suoi seguaci saranno torturati:

Ma se Buddha e Gesù sono accomunati da questa polemica contro la casta sacerdotale e contro la religione dei rituali, l'esito storico sarà diverso. Mentre infatti Gesù, privo di senso pratico, finirà per essere fatto fuori dalla casta che criticava, Buddha, proveniente da una classe sociale elevata e dotato di senso politico, riuscirà a campare fino a tarda età. Il fatto è Gesù, benché parli di amare i nemici, si contrapponeva irosamente ad essi; invece nel DNA del Buddha c'era proprio la non-contesa, il non-odio, la non-ira.

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