sabato 28 febbraio 2015

La belva jihadista

Temo che, dietro il successo del ijhadismo e dell’accorrere di europei, ci sia un fenomeno di regressione alle origini – quando si risolveva tutto non con il ragionamento ma con la violenza, quando le donne erano schiave e oggetti di commercio, quando le altre culture venivano disprezzate e possibilmente distrutte, quando chi comandava era semplicemente il più violento o il più armato, quando le società erano dominate da principi religiosi e non laici.
Un rifiuto della civiltà. Che alberga nel fondo della belva che è in noi.
Vivere nella civiltà non è facile. C'è da pagare un costo in termini di auto-controllo, che non tutti sopportano.
Tutto sommato, un ritorno alla natura ferina.

L'io autentico

Le idee non sono nostre, i pensieri non sono nostri, le parole non sono nostre: tutto è stato preconfezionato da chi ci ha preceduti. Perfino i sentimenti non sono nostri, ma rientrano nel gioco della natura, della specie e della società. Sono pochissimi coloro che hanno un’idea nuova (per esempio, individui come Einstein), sono pochi coloro che sono capaci di creare qualcosa di nuovo (per esempio, gli artisti), una parola nuova o una musica nuova. Ma sono ancora di meno coloro che hanno un sentimento nuovo, rispetto a tutti gli altri uomini.
Quando mi innamoro penso che quel sentimento sia esclusivamente mio, ma poi mi accorgo che mi sono innamorato di quella persona non per una mia libera scelta, ma perché rigidamente condizionato a farlo dalle mie precedenti esperienze (prima di tutto, da quelle con mia madre o mio padre). Dunque i gesti e i sentimenti che provo rientrano in ciò che mi è stato precostituito dalla natura o dalla società.
Che cosa è veramente mio?
Forse il mio io?
Ma ciò che chiamo “io” è già stato precostituito dall’incontro fra i miei e genitori e dai loro patrimoni genetici. L'idea di un'autenticità dell'io è una contraddizione in termini. Io che cosa ho scelto?
Ciò che dico, ciò che penso, ciò che provo è già tutto previsto e vissuto. È come cercare di pensare una parola nuova e poi accorgersi che tutte le parole sono già contenute nel vocabolario. Siamo replicanti, interpreti, traduttori, ma non creiamo niente, niente di autenticamente originale. E vorremmo essere immortali?
Non possiamo esprimerci senza utilizzare vecchi schemi. Anche i creatori partono da esperienze precedenti.
Allora, il nostro autentico io, il nostro sé originale e unico dov’è?
È più in ciò che non è che in ciò che è. In ciò che non esprimo che in ciò che esprimo. Nel silenzio che nelle parole. Nel non essere-me-stesso che nell’essere ciò che sono.
Essere significa essere determinati.
Non ne avete abbastanza di essere ciò che siete? Fermatevi almeno prima di parlare, di pensare e di sentire. Fermatevi un attimo prima e osservate un possibile panorama diverso.



venerdì 27 febbraio 2015

I barbari

I fanatici islamici distruggono le statue e i templi antichi?
Sapeste quanti ne hanno distrutti i cristiani!
I fanatici islamici torturano e uccidono, tagliano la testa?
Sapeste quanti uomini furono seviziati e uccisi dai tribunali dell’Inquisizione!
In Sicilia, durante la dominazione spagnola, tra il 1606 e il 1782 (non così lontano nel tempo), migliaia di persone “ribelli” (tra cui artisti e scienziati) furono imprigionate, torturate, arse vive e uccise. Dopo grandiose cerimonie e processioni religiosi, le teste mozzate delle vittime venivano lanciate alla folla che ci giocava a palla.
Leggete i testi di Sciascia, di Bufalino, di Consolo. Visitate i graffiti dei condannati a Palazzo Steri a Palermo.

Le “sante” Chiese, le “sante” religioni, la “santa” Inquisizione… si comportavano come i jiahdisti di oggi.

La coscienza infelice

Noi non possiamo conoscere che dividendo, isolando, inquadrando, frammentando e contrapponendo, e ciò fa della coscienza una coscienza dilacerata, infelice. L’apertura della coscienza è inevitabilmente accompagnata da sofferenza, da un senso di tensione sempre inappagato e da una nostalgia di una riunificazione impossibile.
Ma questa sofferenza, che è segno distintivo dell’uomo, non è solo un’eredità negativa. È in realtà il segno di un’esigenza di ulteriorità, e dunque una patente di nobiltà, la prova che l’uomo non si accontenta – come gli altri animali – del già dato.
L’uomo è proteso oltre, tende alla trascendenza – almeno finché non la definisce “Dio” e crede di aver trovato qualcosa.
La tensione, l’insoddisfazione, il dukkha buddhista, è la spinta che controbilancia la chiusura di senso data dal sapere acquisito, dal dogma, dalla convenzione, dalla regola, ecc.  È spinta a progredire, ad andare oltre.

Se fossimo soddisfatti di ciò che abbiamo, se non cercassimo altro e oltre, se non soffrissimo le limitazioni della natura e del sapere codificato, saremmo ancora delle scimmie, non di più.

Il vero ateo

In fondo chi crede e chi non crede sono sullo stesso piano: hanno una loro fede.

Il vero ateo è l’indifferente.

Il diritto di non soffrire

I medici, i preti e i politici che non vogliono sentir parlare di eutanasia sono come Ponzio Pilato – si lavano le mani del problema del fine vita. Utilizzano l’ideologia o la religione per non far niente, per mascherare la loro indifferenza. Gli ipocriti, coloro che non vogliono vedere, sono sostanzialmente disumani.

I medici sono fatti per curare, non per uccidere – dicono. Ma, se uno muore – e, prima o poi, tutti muoiono – perché non aiutarlo a non soffrire? Il dovere di non far soffrire non è entrato nella testa di molti. Loro credono che la sofferenza serva a redimere. E invece, nella maggior parte dei casi, quando è dolore fisico, abbruttisce. 

giovedì 26 febbraio 2015

L'uomo del futuro

Il fatto è che l’uomo è un essere ancora da realizzare. L’uomo è un compito che non è stato ancora del tutto svolto. E che non sarà mai, sperabilmente, del tutto svolto.
Il cammino sarà lungo e irto di pericoli… pericoli di autodistruzione.

Alla nostra psiche può succedere ciò che abbiamo fatto al mondo: esplorandolo tutto, conoscendolo tutto, lo abbiamo cambiato, lo abbiamo irrimediabilmente deformato.

Lasciar essere

Lasciar essere le cose nel loro accadere, senza un io che le voglia e una ragione che le ordini. Ma osservarle. Osservarle senza interferire - ammesso che sia possibile, ammesso che il semplice atto dell’osservarle non le cambi definitivamente.

Il fondo abissale dell'anima

Se potessimo cogliere il sé nella sua totalità, se potessimo non lasciar fuori niente, allora il mondo non avrebbe più un senso nuovo e tutto sarebbe così abituale e prevedibile che diventerebbe monotono e ripetitivo.
Deve quindi rimanere una sorgente sempre nascosta e inafferrabile, una fonte di nuovi sensi e di nuovi concetti, un Oriente che si sottrae sempre alla ricerca di senso.
Voler inseguire questa sorgente è come voler inseguire la propria ombra. È il fondo abissale che non può essere dispiegato razionalmente se non si vuole uccidere ogni novità, che non può essere illuminato se non si vuole che diventi sterile. Questo fondo noi lo abitiamo senza mai poterlo conoscere del tutto, perché è la fonte della conoscenza.
L’essenza dell’uomo, la sua anima, l’anemos mobile come il vento, è questo darsi che si sottrae. Si dà quando si sottrae e si sottrae quando si dà.
Non possiamo conoscere il Fondo abissale perché la luce della ragione lo sconvolgerebbe, facendo dissolvere anche l’io. Ma possiamo abitarlo, o meglio farci abitare da esso, lasciandoci aperti a nuove irruzioni di senso, a rivelazioni, a illuminazioni. E possiamo conoscerne qualcosa.
Non siamo noi che gettiamo un fascio di luce (il che proietterebbe le categorie della ragione), ma è qualcosa che emerge dal buio, un po’ come un pianeta che finora era rimasto nascosto.
È chiaro che per far questo (fin dove possiamo) dobbiamo rallentare l’abituale attività conoscitiva, riflessiva ed ermeneutica.
Comunque, questo nostro atteggiamento, pur escludendo domande, è una forma indiretta di interrogazione. L’attesa cui ci predisponiamo è una forma di ricerca o di agguato. È come andare a caccia: quando metto una trappola, non so quale animale ci cadrà, ma qualcosa sarà intrappolato. Ed è la mia trappola che trasforma un animale libero e spontaneo in un prigioniero chiuso in una gabbia. Sono io che provoco l’evento. Anche le reazioni che provoco nell’animale saranno state decise dalla mia trappola.
Non è dunque facile conoscere se stessi e non è nemmeno del tutto auspicabile. Quando avremo ridotto ogni luogo del pianeta ad una specie di luna park senza più misteri, ci toccherà trasferirci su qualche altro pianeta.

Dunque, dobbiamo avanzare in una terra inesplorata, cercando di non portarci dietro tutte le nostre abitudini, i nostri interessi e i nostri schemi di pensiero. Dobbiamo guardarla, e lasciarla lì indisturbata, come una riserva di senso.

mercoledì 25 febbraio 2015

Problemi di connessione

Certo, ormai siamo connessi ventiquatt’ore al giorno con gli altri.
Ma siamo connessi con noi stessi? O siamo le uniche persone con cui non riusciamo a connetterci?

Lì non c’è cellulare che funzioni.

Il tutto della vita

La vita, il tempo, lo spazio - sono un tutt’uno.
La coscienza, la vita, il tempo e lo spazio – sono un tutt’uno.
Il sistema immunitario, la coscienza, la vita, il tempo e lo spazio – sono un tutt’uno.
Il sentimento, l’emozione, la percezione, il pensiero, il sistema immunitario, la coscienza, la vita, il tempo e lo spazio – sono un tutt’uno.
Inferno e paradiso, salvezza e perdizione, illuminazione e inganno, il sentimento, l’emozione, la percezione, il pensiero, il sistema immunitario, la coscienza, la vita, la morte, il tempo e lo spazio – sono un tutt’uno.
Ogni cosa è un tutt’uno.
D’altronde, non siamo interessati a una vita che non sia tutto.

E basta poco per arrivare al tutto: basta rinunciare a se stessi.

La grazia divina

Abituati alla teologia teista, crediamo che, per essere illuminati, ci debba scendere dall’alto una specie di grazia.
Ma che bisogno c’è di una grazia del genere? Dio ha già fatto la sua parte.

Ora tocca a noi.

Essere e pensare

Alcuni secoli fa Cartesio disse: “Penso, dunque sono”.
Ma, se non penso, non sono?

O sono meglio?

Tutto è scambio

Crediamo di essere degli individui isolati. Ma già quando respiriamo o mangiamo, l’universo entra in noi. Tutto è scambio. E noi come potremmo nascere se non da uno scambio?
Ogni cosa è connessione cosmica, compenetrazione reciproca.
Noi crediamo di realizzarci da soli. Ma in realtà siamo realizzati da una miriade di cose e fattori.
In ogni cosa ci sono tutte le cose. Più che esistere, inter-siamo.

Lo so, la spiegazione è difficile, ma la pratica è semplice.

martedì 24 febbraio 2015

Seguire il respiro

Se la parola “anima” viene dal greco anemos che significa “vento”, la parola “respiro”viene dal latino spirare, che significa “soffiare”. Fin dall’etimologia, dunque, si stabilisce un rapporto tra l’anima e il respiro e si precisa che la natura di entrambi non è qualcosa di fisso, ma qualcosa di variabile e di mobile. Non a caso, nel Vangelo di Giovanni si paragona lo spirito al vento “che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va…”
Per la stessa ragione, in meditazione, la prima pratica che si impara è seguire il respiro. C’è un intero discorso del Buddha, il Satipatthana Sutta, in cui si descrive questo esercizio. Per prima cosa bisogna rendersi conto che il ritmo del respiro è molto variabile e dipende spesso dai nostri stessi d’animo. Se siamo tesi, stressati o arrabbiati, il respiro sarà più veloce e contratto. Se siamo tranquilli, sarà più calmo, lento, disteso e naturale. Conoscere il respiro significa perciò conoscere la nostra mente.
Se ci sediamo in meditazione per calmare il respiro, acquieteremo anche i nostri stati d’animo, che potranno diventare più calmi e sereni. Calmare il respiro è calmare la mente. E può essere fatto in ogni momento della giornata, con benefici fisici e psichici.
Ma una seconda funzione di questa pratica del seguire il respiro è acuire l’attenzione al presente. Noi infatti tendiamo a divagare, a distrarci: i nostri pensieri si perdono spesso nel passato e nel futuro; e quindi non sono mai presenti. Il respiro invece non è mai né del passato né del futuro, ma è sempre il respiro di questo attimo.
Seguire il respiro ci permette perciò di essere più presenti e più consapevoli. E da questa attenzione, da questa concentrazione, nascono chiarezza e pace – due obiettivi non da poco.
Quando moriamo, quando “spiriamo”, è proprio la fine della vita che conosciamo. Nel coma, il nostro respiro assume un ritmo che è caratteristico, rapido e contratto. L’organismo e l’anima hanno una fame d’aria che non riescono a placare.

Finché possiamo respirare, dunque, posiamo la mente su un bel respiro, calmo e naturale – e godiamoci la fortuna di poterlo fare.

Reincarnazioni

In India e in Tibet si dice che un grande maestro è la reincarnazione di qualche eminente figura del passato.
Ma, a ben vedere, siamo tutti reincarnazioni di una ininterrotta linea di discendenza che parte dai primi ominidi e arriva proprio a ciascuno di noi.

Ci si pensi quando ci si sente depressi o inutili. Almeno una funzione… ce l’abbiamo. Siamo gli ultimi anelli di una catena lunghissima.

lunedì 23 febbraio 2015

La vacuità: l'importanza del vuoto

Per noi occidentali è difficile capire concetti orientali come insostanzialità o vacuità. Ci sembrano concetti negativi, se non nichilisti.
Ma per comprendere, per esempio, l’importanza – e l’insostituibile utilità – della vacuità, citerò una frase del Tao Te Ching:

Noi con l’argilla fabbrichiamo un vaso,
ma è il vuoto all’interno che ci permette
di dare al vaso la sua funzione”.

È il vuoto che sta al fondamento delle cose, che permette il loro funzionamento, la loro utilità. Che cosa ve ne fareste di un bicchiere pieno?
Non è un caso che dalle particelle più piccole ai pianeti e alle stelle ci sia tanto vuoto. È quel vuoto che fa essere le cose così come sono. Al momento della nascita del cosmo, fu il vuoto a interporsi e a frammentare la compatta unità del tutto. E da lì, dall’azione del vuoto, nacquero tutte le cose, anche quelle che vi sembrano piene.
Diceva Leonardo da Vinci: “Tra le grandi cose che debbono fra noi trovarsi, l’essere del nulla è la massima”.
E una massima zen recita. “Anche una buona cosa non è altrettanto buona del nulla”.
Tutto funziona in base al vuoto o al nulla. Non è negli intervalli tra le note che risiede la musica? Provate a toglierli e vedrete.
Nella matematica, è lo zero che potenzia enormemente i numeri – e non a caso fu inventato in India. Preferiste un euro o diecimila euro? Eppure la differenza sta solo in tre zeri. Dite ancora che gli zeri non contano nulla?
La discontinuità, basata sul vuoto, è presente anche nel ritmo vita-morte e in tutti i ritmi del mondo. Se non ci fosse il vuoto, cioè il nulla, non ci sarebbe nemmeno la vita.
Il vuoto è la matrice della vita. Se non ci fosse la vuota matrice della femmina, come potrebbero nascere i bambini?
E il tempo? Se non ci fosse una discontinuità tra gli istanti, come potrebbe procedere?
Anche i nostri pensieri e le nostre emozioni funzionano sulla discontinuità, che è un nulla o un silenzio. Ecco perché è importante meditare sul vuoto – per esempio tra due pensieri. Lì sta il fondamento del tutto.


"Dio ha creato ogni cosa dal nulla.
Ma il nulla traspare"
                                           Paul Valéry


domenica 22 febbraio 2015

L'anima inquieta

La parola “anima “ viene da anemos, “vento”, perché instabile e irrequieta come il vento. In effetti, come diceva Plotino, l’anima è “un potere senza pace”.
La mobilità dell’anima si esprime nella sua disponibilità a trovare molteplici significati alle cose, a non esaurirsi in significati solidi e irrigiditi.
Il senso originale delle parole non si esplicita mai in un senso rigido all’interno della contrapposizione soggetto-oggetto. Soggetto e oggetto non stanno l’uno contro l’altro, ma sono fin dall’origine coappartenenti.

Esistere non significa soltanto essere, ma trarsi fuori (ek-sistere) dall’essere attraverso l’interrogazione, la ricerca di senso. L’uomo vive contemporaneamente nel mondo e fuori dal mondo: questa è la sua natura.

La nostalgia

Se il pensiero fosse soltanto il pensare di un soggetto ch produce pensiero, esso non avrebbe nessuna esigenza di trascendenza, né insoddisfazione o angoscia.
Il fatto è che il pensiero è il riflesso di qualcosa che sta oltre il pensiero e lo richiama di continuo. Da qui la nostalgia per un mondo perduto, per altri sensi o per possibilità imprevedibili.

Nostalgia, álgos + nóstos: il dolore del ritorno.

Abitare il pensiero

C’è un altro modo di pensare oltre a quello che divide, contrappone e definisce. È passare dalla cosa ai suoi richiami.
L’oggetto della meditazione non è ciò che si pensa, ma ciò per cui e da cui si pensa, è ricollegarsi alla fonte del pensiero.
Però, per raggiungere questa regione inesplorata è necessario volgere lo sguardo indietro, compiere il cammino inverso rispetto all’abituale modo di pensare.
Né si può passare da un io che produce pensieri ad un io che li osserva. Bisogna in realtà abitare il pensare.

Installarsi nel pensiero, essere pensiero. Né soggetto che pensa, né oggetto che è pensato.

Il Dio selvaggio

Quanto ci dà fastidio che la natura non segua regole logiche, che per esempio la primavera non si affermi una volta per tutte e che abbia ritorni di inverno. Vorremmo che tutto rientrasse nella regole della ragione, che non ci fossero contraddizioni, che non ci fossero ambiguità, che ogni processo fosse chiaro e definito, che il bene trionfasse sempre sul male e che la pace e la giustizia vincessero definitivamente.
Ma realtà è fatta su altre basi di quelle razionali, non ha significati e svolgimenti univoci. È rozza, imprecisa, violenta, contraddittoria, spietata e può distruggere in un attimo qualunque ordinata costruzione.
Vorremmo che la natura fosse etica e rispettasse i più deboli. Ma non è così: i deboli vengono sconfitti e divorati dai più forti. E anche questa è una logica, ma non quella che vorremmo. Nella realtà l’individuo conta per quel tanto che serve alla riproduzione della specie; poi viene distrutto con indifferenza.
Vorremmo che l’amore fosse un discorso ordinato e morale, e invece sgretola famiglie e individui. Vorremmo che il sesso fosse meno primitivo, che rientrasse nelle regole della buona creanza. E invece se ne frega.

Insomma, questo ci dice che il mondo è stato creato con regole che sono ben diverse dalle nostre. Dio è un selvaggio.

sabato 21 febbraio 2015

Il risveglio

Qualunque esperienza di superamento del dualismo è trascendenza.
Può essere eros, un’emozione potente o essere pienamente presenti in qualcosa. È così che trascendi la mente dualistica.

Ma se continui a pensare in termini di bene e di male, di soggetto e di oggetto, di virtù e peccato, di inizio e di fine… non puoi uscire dal labirinto mentale.

Il senso delle cose

C’è un’unica cosa che, come Dio, non ha fondamento, non ha causa, non ha motivo, non ha spiegazione, non ha ragione – il senso.
Le cose hanno un senso non perché questo abbia una motivazione, un precedente o una finalità.
Il senso delle cose non è né soltanto nelle cose né soltanto nel soggetto. Ma è dato dal rapporto tra le cose e l’interpretazione del soggetto. Da qui nasce il senso delle cose e dello stesso io. Però non esiste un senso in sé.
Il senso delle cose è perché è. È come una fluttuazione quantica, sorgente dal nulla e del tutto imprevedibile. È il nostro piccolo miracolo quotidiano – dare un senso alle cose, che non hanno un senso o chissà quale senso hanno.
Inutilmente invochiamo il rapporto di causa-effetto. Il fatto che questa rosa abbia un senso è una creazione.

C’è una visione di una rosa. Ma siamo sicuri che debba esserci un io che vede?

Eros

Eros come capacità di oltrepassare i confini dell’io. Non solo in rapporto con l’altro, ma anche in rapporto con le altre parti di noi stessi – sia quelle rimosse sia quelle trascendenti.

Esploratori del passato

Noi ricordiamo e con questo crediamo di rievocare il passato. Ma non è così. La memoria falsifica e trasforma.
Ciò che ricordiamo è qualcosa che si è trasformato con noi, che si è intrecciato con tutto ciò che abbiamo vissuto.
Il passato non esiste più – così come è stato. E forse non è mai avvenuto. È stata un’esperienza del passato o è comunque un’esperienza del presente che si inventa il passato?

Pensate che tutto ciò che credete di aver vissuto nel passato, lo state inventando ora – e che non vi siete mai mossi da qui e da ora. È un attimo eterno.

La barchetta dell'io

Contrasto fra desiderio di sopravvivenza individuale e desiderio di fusione nell’antica unità, nella totalità dell’essere.
Che la totalità sia pressoché immortale ne siamo tutti convinti. Ma abbiamo tutti paura di perdere l’io cui siamo aggrappati. Eppure l’esperienza sessuale, con la sua piccola morte, ci dice che per avere la fusione estatica dobbiamo oltrepassare il piccolo ego.
Siamo aggrappati all’ego come ad una barchetta in mezzo al mare. Ma, volenti o nolenti, dovremo lasciar la presa e vedere se sappiamo nuotare.

Meditare è anche imparare a nuotare, cioè abbandonare la barchetta dell’io per vedere se riusciamo a galleggiare da soli, affidati solo alle forze della natura.

Il senso del senso

Perché cercare la via attraverso la concentrazione e il raccoglimento, anziché fuori di noi?
In realtà ciò che noi cerchiamo non è un senso oggettivo e neppure una nostra semplice interpretazione, ma un senso che sia anteriore alla riduzione-trasformazione operata dalla mente. Questo è il “volto originale”. E per questo dobbiamo ricorrere alla non-mente, che non è il contrario della mente, ma l’oltre, l’aldilà di essa.
Il senso non è tanto una percezione-sensazione quanto una via, un atteggiamento dell’essere. Meditare è un atteggiarsi in un certo modo di fronte alla realtà, un appostarsi in una maniera del tutto diversa.
Innanzitutto ci si pone al limite del senso, là dove si apre l’orizzonte di senso. In secondo luogo non si dà per scontato che qui ci sia un io che osserva e là una realtà che è osservata. Questa osservazione dev’essere la più impersonale e distaccata possibile.
L’io dismette la pretesa di essere il soggetto della conoscenza per diventare uno spettatore (ma non di uno spettacolo oggettivo).

Più che un io che vede c’è una visione, più che un io che sente una sensazione. 

La nevrosi dell'essere

L’io? La nevrosi dell’essere.

Dopo essersi ristretto in un io, l’essere conosce l’attaccamento e la paura. Come se potesse perdersi. Come se il mare, dopo essersi ristretto in una goccia, avesse paura di perdersi. Ma si è perso, ha smarrito se stesso proprio perché si è ristretto.

Viaggiatori dello spazio

Il fisico Stephen Hawkin afferma che l’unica speranza di salvezza per l’umanità è colonizzare qualche altro pianeta. Se infatti stabilissimo colonie in altri pianeti, quando l’umanità si distruggerà  per epidemie, armi di istruzione di massa o crisi ecologica - qualcuno potrà continuare a vivere.
In effetti, per chi conosca l’uomo e rifletta un po’, è difficile credere che questa umanità abbia un futuro. Il  problema è l’aggressività che è nel nostro DNA e che non riusciamo a far diminuire. Siamo come le formiche rosse che prima distruggono tutte le altre specie di formiche e poi distruggono se stesse.
Nessuno riesca a fermare questo istinto auto-distruttivo. Nessuna religione, nessuna scienza, nessuna psicologia è mai riuscita a cambiare l’uomo. L’uomo deve continuare a combattere, e, anche quando non ha un vero motivo per farlo, se lo inventa. Tutte queste crisi politiche, tutte queste guerre, da dove nascono, se non da un’aggressività naturale, se non da un desiderio di conquista, di predominio, che non hanno una vera ragione di esistere? Potremmo vivere pacificamente, perché ci sono risorse per tutti… ma noi dobbiamo farci la guerra. Non possiamo fermarci. Siamo spinti da una libidine di potere, da un impulso che non è inferiore a quello sessuale.
Oltretutto, la guerra è dappertutto nelle nostre società, nella competizione, nella lotta politica, nella guerra dei ricchi contro i poveri, nello sport – e perfino dentro noi stessi. Siamo tutti in guerra, sempre e comunque. Ecco l’uomo è esattamente questo: un animale che ha guerra nel sangue.
La stragrande maggioranza delle guerre storiche e di quelle attuali aveva motivazioni ideologiche, cioè mentali, non obiettive. Noi ci facciamo la guerra perché ne abbiamo bisogno, un bisogno fisico. Quando non c’è una guerra, incominciamo a star male e a covare guerre intestine.
Quello che Hawkin non vede è che, anche se ci trasferissimo in altri pianeti, niente ci impedirebbe di continuare a combatterci anche lì. Perché nessuno può cambiare il DNA natura dell’uomo. Anche su Marte ci faremmo la guerra.

È dunque evidente che ciò di cui c’è veramente bisogno non è trovare altri pianeti e nuove ideologie, ma cambiare nel profondo la natura umana. O si cambia o si muore.

venerdì 20 febbraio 2015

Le invasioni barbariche

Finalmente nel nostro paese è stata ripristinata la legalità! Sì, sono state cancellate le trascrizioni dei matrimoni gay nei nostri Comuni. L’ordine era partito direttamente da Angelino Alfano, il peggior ministro dell’interno della nostra storia, il quale si trova in quel posto non per meriti, ma per logiche di coalizioni politiche. Tutti i suoi interventi sono stati sbagliati, ma non importa: è inamovibile.
Per suo merito, infine regna l’ordine in Italia!
Peccato che, nel frattempo, poche centinaia di tifosi olandesi, si permettessero di mettere a ferra e fuoco il centro di Roma. E i prefetti? Erano troppo impegnati a cancellare i matrimoni gay. Che grande merito! Con i barbari che ci invadono dal sud e i barbari che scendono dal nord, i nostri ministri e i nostri prefetti si occupano di salvaguardare la famiglia tradizionale, che appare sempre più in crisi.
Ma, anche se eliminassimo tutti gli omosessuali, siamo sicuri che le famiglie non si sfascerebbero?

Dai barbari che vengono dall’esterno, possiamo salvarci. Ma da quelli che vengono dall’interno chi ci salverà?

Trasgressione e trascendenza

Se trionfasse il bene nell’animo degli uomini, se trionfassero l’amore e l’altruismo… uno per tutti e tutti per uno… Il fatto è che questa società perfette già esistono e sono quelle, per esempio, delle formiche e delle api. Nessuno trasgredisce.
Ma, poiché nessuno trasgredisce, nessuno andrà mai oltre, e formiche e api continueranno a fare le stesse cose fino alla fine dei tempi.
Per crescere, per progredire, per trasformarsi, occorre avere la capacità (l’imput) di trasgredire. Ecco perché tra gli uomini non ci saranno mai società perfette.

Il confine tra trasgressione e trascendenza è sottile come la lama di un rasoio, e l’uomo deve continuamente correre su quella lama. Perfino nel mito biblico, il mondo nasce da un “peccato”, ossia da una trasgressione. Non poteva che essere così. Se l’uomo fosse stato come una formica o un’ape, non avrebbe trasgredito – e quindi non sarebbe mai cresciuto, non avrebbe mai intuito che cosa sia la trascendenza.

La nascita della coscienza

È perché Dio, l’Origine, non sa mantenere una propria identità che si differenzia nel mondo. Non per un atto di amore o di volontà.
Non riesce ad avere una propria identità  perché, per farlo, dev’essere cosciente di sé, cioè differenziarsi. Dio diventa cosciente di sé differenziandosi. All’inizio è un magma indifferenziato. Né differenza né identità.

Dunque, tutto nasce da un processo di coscientizzazione. Ecco perché la coscienza è al fondo di tutto, dall’aminoacido alla cellula, dall’elettrone al cervello umano. Alza una pietra e anche lì troverai coscienza.
Probabilmente gli scienziati un giorno scopriranno che al fondo delle più piccole particelle non ci sono che quantum di coscienza.

giovedì 19 febbraio 2015

La preghiera e la meditazione

Nella preghiera ci rivolgiamo – crediamo di rivolgerci – ad un Altro.
Nella meditazione ci rivolgiamo al sé.
Di fatto, anche la preghiera mette in azione un processo di meditazione, a livello più rozzo. Perché l’Altro è solo un’idea della mente che poi rimanda al sé. Il processo è così più contorto e meno efficace. Anziché colpire direttamente il boccino, si colpisce una palla che colpisca il boccino.

E il boccino è la Fonte del potere che non è né fuori né dentro (perché "dentro" e "fuori" sono solo concetti umani).

Il bisogno di fede

Quanto bisogno di fede c’è nel mondo!
Il che significa che c’è un’enorme disperazione. E un’enorme impotenza.

Tutti cercano un aiuto, cioè di fatto il potere.

Il limite dell'altruismo

D’accordo, l’uomo è un animale sociale. Ma questo non significa che sia altruista al cento per cento. Di solito il raggio d’azione della sua socialità si limita alla famiglia, al gruppo, al branco, alla setta, alla propria nazione, alla propria religione, ecc. Ma poi c’è sempre un “io” che si contrappone al “tu” e un “noi” che si contrappone al “voi”.

Pochi riescono a pensare e a reagire in termini impersonali e a beneficio di tutti. I più pensano solo al proprio interesse, e non vanno oltre.

Il problema degli illuminati

Il problema degli illuminati, di coloro che arrivano a vedere più chiaramente o a capire più verità, è che, poi, devono vivere in un mondo di gente dominata dall’illusione, dall’ignoranza e dalla superstizione. Ed è sconfortante.
È sconfortante vedere fanatici religiosi che non si rendono conto della loro violenza e della loro superficialità. È sconfortante vedere gente che crede ancora agli idoli e ad un Dio che in realtà è soltanto un loro costrutto mentale. È sconfortante vedere come non ci sia un briciolo di autoconsapevolezza. È sconfortante vedere come  non si voglia ragionare e ci si affidi al primo imbonitore.

È sconfortante constatare che queste persone avranno bisogno di secoli o di millenni, e di chissà quante altre vite, per capire qualcosa. Purtroppo non tutti gli uomini sono allo stesso livello evolutivo. Ma per chi è più avanti è una tortura.

mercoledì 18 febbraio 2015

La coscienza infelice

Non tutti i risvegli sono piacevoli. L’uomo che un bel giorno apre gli occhi sulla propria condizione, scopre una situazione sconcertante. Non è padrone della propria vita: anziché vivere, viene vissuto.
I pensieri con cui pensa sono stati concepiti molto prima che egli nascesse, il codice dei sentimenti è inscritto nella specie cui appartiene ed è il frutto di una rigida programmazione. La lingua che usa l’ha dovuta imparare ex-novo, come se si fosse recato in un paese straniero e non è certo sua più di quanto non lo sia il paesaggio che lo circonda.
Tutto ciò che ha, in realtà lo ha trovato: qualcuno lo ha predisposto per lui. Perfino la sua identità non è autentica, ma è costituita da pezzi di identità precedenti, amalgamati dalla genetica, dalla società e dall’educazione. Crede di essere qualcuno, e invece è abitato da qualcuno che gli è estraneo, come tutti.
Qualcuno, sì, lo ha messo al mondo, ma non è stato lui a deciderlo, né a decidere il sesso, il tempo, la famiglia e il luogo. E poi la scuola, lo Stato, la religione, la famiglia, la società e la cultura si sono premurati di dargli quei valori e quelle identità per cui dovrà battersi senza averli mai potuti scegliere. Ogni scelta gli è stata anticipata. Anche se dice: “Questo sono io, questo è mio”, niente è veramente suo, nemmeno il proprio io.
Dovrà limitarsi a imboccare, ai vari bivi, l’una o l‘altra strada, ma dovrà comunque seguire percorsi obbligati. Che cos’ha di veramente suo? Può davvero dire: “Io sono me stesso?”
Quell’io che crede di essere è qualcosa che si è costruito da solo, o è una maschera che gli è stata imposta? E anche quando se la toglie, trova un essere autentico o solo un’altra maschera, come nelle scatole cinesi?
Sì, l’unica cosa veramente sua è la propria consapevolezza. Ma, se è un uomo integrato, anche questa consapevolezza seguirà i canoni che il sistema gli ha predisposto. E, se non è integrato, sarà una consapevolezza di mancanza, di vuoto.
L’uomo che apre dolorosamente gli occhi scopre che non ha niente di autentico, che non ha scelto niente nella propria esistenza, che è un semplice numero o un mattone di un edificio di cui gli sfugge il progetto. Nessuno gli ha chiesto il permesso, nessuno gli ha chiesto un parere. E, quando sarà morto, dopo poco tempo nessuno si ricorderà di lui. Sarà uno dei tanti uomini che sono passati su questa terra e che non hanno lasciato traccia.
Questo sentimento di sostanziale insostanzialità ed estraneità al mondo in cui ci troviamo gettati non è un’esperienza dell’uomo moderno, anche se oggi è accentuato dalla società si massa, dove l’uomo è agito da mille poteri, più o meno occulti, che gli impongono come comportarsi dalla culla al funerale, e che stabiliscono che cosa dovrà decidere, che cosa dovrà pensare e sentire, quali beni dovrà comprare, e quanto e come potrà amare.
Se è stato condizionato da qualche religione, i preti gli diranno che è stato creato da un Dio che resta il padrone della sua vita e della sua morte, e che poi, per di più, lo giudicherà. Se si conformerà e ubbidirà a questo Potere, sarà ricompensato; se si ribellerà, sarà punito- proprio come succede su questa terra. Anche in questo caso, dunque, non sarà libero, ma dovrà scegliere ciò che è già stato deciso per lui. Aut…aut.
Quando ci si trova in un ambiente chiuso (per esempio una prigione) in cui le regole sono già state stabilite altrove, si può reagire in due modi: adattarsi cercando di trarne il meglio e dimenticandosi delle mura, oppure cercando di ricordarsi che si è imprigionati e non rinunciando mai alla speranza di varcare quei confini.
La società fa di tutto per far dimenticare all’individuo il proprio stato di costrizione, il fatto di non essere veramente libero e di muoversi come una marionetta i cui fili sono tirati da qualcuno. La famiglia, la scuola, lo Stato, la religione, ecc. creano regolamenti, identità, funzioni, desideri, finalità e maschere in cui l’individuo deve impegnare tutto il tempo e le energie a sua disposizione, in modo che non debba mai fermarsi a pensare a sé - al suo vero sé, al sé libero che può autodeterminarsi e scegliersi.

Ma comunque l’uomo ha a disposizione la propria consapevolezza, la propria insoddisfazione, che gli permette di pensare a tutto questo e a capire che esiste un’altra strada, un altro mondo, un altro modo di essere vivo. Tutto parte da lì, dalla sua coscienza infelice.

martedì 17 febbraio 2015

La strada giusta

Da cosa scopriamo che siamo sulla strada giusta e che non stiamo sprecando il nostro tempo?
Lo scopriamo dalla diminuzione della sofferenza e dalla conquista di una certa pace. Lo scopriamo dal fatto che ci sentiamo più liberi.

Quella è la via.

La vacuità

La vacuità di cui si parla in Oriente non è tanto assenza o mancanza, quanto un’apertura, una spaziosità una vastità.
Scoprire la vacuità significa scoprire che ci eravamo imprigionati in confini e limiti in parte imposti dagli altri e in parte autoimposti. Credevamo a sostanze che in realtà sono inconsistenti, ad enti che sono illusori (compreso il nostro stesso ego), a schemi che sono semplici abitudini. Credevamo a fantasmi, a cose vuote, a valori fasulli. Era la nostra mente che non aveva saputo vedere la loro falsità. Ma ora possiamo oltrepassare, stupiti ma gioiosi, quei limiti.
È come se uno si fosse rinchiuso in una piccola stanza da cui non usciva mai e che un giorno scopre che nessuno lo ha imprigionato. A quel punto può uscire nello spazio aperto e incominciare una nuova vita. Esce dallo spazio vuoto della stanza  per aprirsi al mondo.