domenica 8 febbraio 2015

Ai confini della mente

Come tutti i malati di mente, l’uomo non sospetta la propria malattia. Oggi, la mente non impone più il proprio dominio attraverso la repressione sessuale, ma attraverso l’impoverimento di senso. È il conformismo che erige muri invalicabili intorno all’individuo, il quale non ha nemmeno più le parole per aspirare a qualcosa di più. Ogni termine, infatti, è stato univocamente e nettamente definito, in modo che la mente non possa che tendere alle soluzioni duali (o/o) fornitele dal linguaggio.
Così la persona alienata dal lavoro e dalla famiglia sogna un’evasione nei termini che le sono consentiti dal linguaggio della pubblicità, della televisione e dei mass media. Sogna per esempio la casa in campagna o l’isola del Pacifico, dove però riprodurrebbe lo stesso tipo di esistenza insulsa, la stessa insoddisfazione. Non ha la possibilità di inventarsi niente di diverso: o… o… I viaggi, le vacanze, le seconde case, le ricchezze, i matrimoni fastosi, il potere… tutto ciò che sogna è già precostituito. Anche Dio, anche l’aldilà, sono già  preconfezionati con le stesse limitazioni di senso.
L’uomo non riesce ad avvicinarsi a Dio in termini di vera trascendenza: è costretto a percorrere vie già aperte per lui da millenni di storia, di cultura, di religione. Il Dio che crede di pensare è già stato pre-pensato per lui dalle grandi religioni, così come la prassi religiosa: peccati, pentimenti, espiazioni, conversioni, ricompense, punizioni…
Solo se si decondiziona, l’uomo può riuscire a dare un nuovo senso alle cose. Solo se si libera dalla prigionia del linguaggio comune.
E in che modo può farlo se non formulando continuamente la domanda di liberazione (chi sono io? Chi è Dio? Qual è il senso della vita?...) e appostandosi al confine del significato che tenderebbe a conferire alla risposta secondo la vecchia cultura?
Questo appostarsi nei pressi dell’apertura del significato, laddove sorge la domanda, è una ricerca di autenticità cui diamo il nome di meditazione. Non cogitazione, dunque, ma sforzo per far rimanere aperta la fonte di senso.
Che cosa succede al limitare di tale apertura che non deve essere chiusa da un significato convenzionale? La risposta non può certo venire da un concetto abituale, ma da un’esperienza che sospenda il nostro abituale modo di pensare, da una nuova apertura di senso che per il momento non trova parole adatte ad esprimerla, se non simboli, metafore o un linguaggio poetico.
La prima cosa da fare è decidersi, cioè separarsi dalla dittatura del sistema e dal pensiero di massa per raccogliersi. E questo può creare un senso di spaesamento e di angoscia – spaesamento e angoscia che nascono dall’essere usciti dal guscio confortevole della “cultura” dominante. Confortevole, almeno, finché non si avverte la soffocante limitazione cui ci si è assoggettati, con l’inevitabile perdita non solo della propria libertà, ma anche della propria anima.

L’angoscia, dunque, era già il sintomo da cui siamo partiti, nato dalla constatazione più o meno chiara che non eravamo padroni né di noi stessi né della nostre esistenze, che stavamo sprecando la nostra occasione. L’angoscia, la paura, erano i sistemi di chiusura del senso, e sono quindi le porte da varcare.

Nessun commento:

Posta un commento