mercoledì 30 novembre 2016

Corpo e coscienza

Noi siamo convinti che, dopo la morte del corpo e della mente, scompaia ogni traccia di coscienza. Questo nel presupposto che la coscienza sia un prodotto dell'evoluzione e quindi della materia.
         Poiché, però, non riusciamo a spiegare come dalla materia possa nascere questa nostra straordinaria consapevolezza, può darsi che sia il contrario: che il corpo e la mente nascano dalla coscienza.
         La coscienza sarebbe una specie di sostanza universale che permea tutto e dà origine al corpo-mente.
         In tal caso, alla morte, la coscienza personale, la coscienza modellata ormai in un corpo-mente, potrebbe sopravvivere e continuare a esistere o in qualche altro luogo dell'universo o in qualche altro universo o in una diversa dimensione.
Questa è la tesi di un noto scienziato, Robert Lanza, che ha scritto un libro intitolato Biocentrism: How Life and Consciousness Are the Keys to Understanding the Nature of the Universe. In realtà si tratta di idee molto antiche.

Il problema sta nel dimostrarle. Come possiamo provare che la consapevolezza venga prima e non dopo, e che possa sopravvivere alla morte? Dovremmo fare esperimenti, per esempio annullare in meditazione le sensazioni fisiche (cioè il corpo) e poi i pensieri stessi. Avete una prova che la vostra consapevolezza possa esistere anche così?

martedì 29 novembre 2016

Il potere della meditazione

La meditazione non è un passatempo psicologico o una semplice ricerca di quiete. È pur sempre una ricerca di potere, anche se di un potere speciale.
Di solito, chi cerca potere mira alla ricchezza, alla fama, al successo o al potere politico e sociale. Vuole essere più importante, vuole essere riconosciuto, vuole poter fare tante cose, vuole poter comandare. Si tratta dunque della ricerca di un potenziamento dell’ego.
Il potere della meditazione, invece, va al di là dell’ego. Anzi, meno ego c’è, più la meditazione ha avuto successo.
Se, per esempio, mi mantengo tranquillo, equilibrato, equanime e indipendente in mezzo ad una società frenetica, corrotta e violenta, piena di convenzioni, di luoghi comuni e di opinioni che vanno per la maggiore, certamente ho acquisito un potere spirituale.
Se ottengo il potere attraverso il denaro, la politica o la speculazione finanziaria, una volta che perda il denaro o la carica, perdo tutto. Ma, se mantengo la calma, l’autonomia di giudizio e la presenza mentale, il mio potere non dipende più da dati esterni, da condizionamenti e dalle opinioni altrui.

Sono diventato una forza che può essere messa al servizio del mondo.

Il non-desiderio

Tutti noi siamo sempre rosi dal desiderio di ottenere qualcosa, e siamo quindi in continua tensione, “protesi a”. Tutti, per esempio desideriamo essere felici e pensiamo che ci serva a questo scopo una serie di cose: i soldi, una bella casa, una determinata partner, una bella auto, una seconda casa…e così via.
Di conseguenza, se non otteniamo queste cose, ci sentiamo infelici. Ma, anche se le otteniamo, può darsi che non le riteniamo abbastanza o che ci deludano. In conclusione, ci manca sempre qualcosa. Se abbiamo denaro, ne desideriamo più. Se abbiamo una donna, ne desideriamo altre. Se abbiamo una macchina o un computer, ne vogliamo uno migliore, e così via.
La verità è che non siamo mai soddisfatti, perché non sappiamo dove dobbiamo fermarci. Quando è abbastanza?
Ciò che non capiamo è che la vera felicità non è desiderare, ma essere liberi dal desiderio.
Per essere liberi dal desiderio, però, è necessario fermare la mente, smettere di creare immaginari oggetti del desiderio. Dobbiamo dunque allenarci a restare presenti.

Fateci caso. Se siamo presenti, in qualunque situazione, smettiamo di desiderare e ci sentiamo più sollevati e liberi. E questa è l’autentica felicità.

lunedì 28 novembre 2016

Affrontare le avversità

Ci sono due modi per considerare le avversità che prima o poi tutti incontriamo. Il primo - quello abituale - consiste nel vederle come ostacoli, incidenti, danni, perdite irrecuperabili o maledizioni incomprensibili.
Il secondo – rivoluzionario – consiste nel vederle come opportunità sulla via, modi per trasformarsi e migliorare. In fondo, non si può diventare un buon pugile se non si lotta contro un avversario. Se non avessimo questo avversario che ci riempie di botte, non potremmo mai migliorare.
Non si tratta di sciocco ottimismo, perché si può anche soccombere, ma di un modo per trasformare la sofferenza in un propellente virtuoso, in una forza di progresso.
Certo, sarebbe meglio imparare senza prender botte. Ma il mondo è fatto così. Tanto vale farsene una ragione.
L’atteggiamento giusto dovrebbe essere il seguente: “Ecco il problema! Ecco l’ostacolo! Ecco l’avversità!...Proviamo ad utilizzarla per crescere.

Lo so, non è facile. Ma sarebbe più utile mettersi a inveire contro la sorte e auto commiserarsi?

I luoghi dell'anima

Noi non siamo separati dall’ambiente che ci circonda; al contrario ne facciamo parte. E ogni ambiente ha una sua particolare influenza, e noi a nostra volta lo influenziamo.
Ognuno ha un luogo preferito, un posto in cui si sente a proprio agio. Può essere una spiaggia, una costa rocciosa, una collina, una montagna, un lago, una campagna, un fiume, un paese, una città, un quartiere, un giardino… o un insieme di queste cose. Per lo più è il luogo della propria infanzia, se questa è stata felice.
Si tratta di ambienti magici, con un loro particolare potere di rilassarci.
Perciò, quando abbiamo problemi, quando incontriamo avversità, quando vogliamo meditare più a fondo, ci conviene tornare in quel luogo, fisicamente o mentalmente.
Questo “ritorno” ci aiuta a fermare la proliferazione dei pensieri negativi, a conciliare cuore, corpo e mente, a sentire la magia della vita, a recuperare energie e sperimentare la bellezza.
La bellezza ha sempre il potere di calmarci, di distenderci e di farci uscire dall’ordinario, dalla routine e dalle abitudini. C’è una coincidenza fra la magia di un luogo e la parte migliore e più felice di noi stessi.
Quando ritorniamo o incontriamo questo luogo, allora il mondo non ci appare più un posto ostile e triste, ma il nostro piccolo paradiso.

Per alcuni, questo “posto” magico è una persona o un gruppo di persone, dato che un ambiente – come dicevamo prima – non è mai disgiunto dalle persone che lo abitano.

domenica 27 novembre 2016

La pratica della benevolenza

La pratica buddhista della benevolenza consiste nell’augurare la felicità a tutti. Primo, si augura la felicità a se stessi. Secondo, la si augura a qualcuno cui si vuol bene. Terzo, la si augura a una persona che ci è indifferente, verso cui non si prova né un particolare interesse né una particolare antipatia. Quarto, si arriva al passo più difficile: augurare di star bene a qualcuno che si odia o che ci è antipatico. Infine, si augura la felicità a tutti gli esseri viventi.
Questo esercizio può sembrare una pratica ingenua e velleitaria, perché è illusorio pensare che si possa far felice qualcuno con un metodo così semplice.
Ma, in realtà, si tratta di un esercizio con cui creiamo in noi stessi calma e benessere.
Infatti, la rabbia, l’odio o il disprezzo che proviamo per qualcuno finiscono per rivoltarsi contro di noi, provocandoci uno stato di agitazione, di tensione e di malessere.
Visualizzando la persona prescelta, possiamo pensare o dire: “Che tu sia felice”.
Per trovare la calma, dunque, potremmo prima riportare l’attenzione al respiro e poi eseguire l’esercizio della benevolenza.


La direzione dello sguardo

Forse non ce ne accorgiamo, ma, quando guardiamo, quando mettiamo a fuoco lo sguardo, in realtà ci tendiamo, ci stressiamo; e, oltretutto, aggiungiamo a ciò che inquadriamo una nostra personale interpretazione. Infatti, nessuno sguardo è innocente, nessuno sguardo è neutro.
Ecco perché in meditazione facciamo esattamente il contrario. Nella ricerca della calma e della non-interferenza interpretativa, non fissiamo più nulla, ma lasciamo che lo sguardo rimanga non-focalizzato.

Non focalizzando lo sguardo, rilassiamo la mente. Rilassando la mente, ci calmiamo noi stessi.

sabato 26 novembre 2016

Il vero coraggio

Non c’è solo il coraggio fisico di affrontare un avversario o una situazione difficile. C’è anche quello di affrontare la voce assillante del condizionamento sociale, la capacità di vincere i preconcetti e gli schemi convenzionali della mente altrui e della mente nostra.

È più facile combattere un nemico fisico che nemici così insidiosi come il luogo comune, il pensiero e il comportamento della maggioranza, il “così fan tutti”, nonché i propri pregiudizi.

Meditazione e modernità

Per meditare non c’è affatto bisogno di ritirarsi in un monastero, tra monti innevati o a picco sugli scogli del mare. Non c’è neppure bisogno di silenzio assoluto e di un’immobilità prolungata. Tutto ciò che serve lo abbiamo già con noi.
L’unica vera necessità è essere consapevoli. E questo può avvenire anche nelle nostre città trafficate e inquinate, fra rumori e attività produttive, camminando, correndo, in auto o in autobus, in fila presso un ufficio o in una sala d’aspetto e perfino in un bar affollato. Non c’è luogo dove non si possa essere attenti.
L’importante è non staccare la spina, non mandare in soffitta il nostro atteggiamento di osservazione, la nostra presenza mentale: “Io sono qui e sto facendo…”.

Tutti gli ambienti, tutti gli eventi vanno affrontati come occasioni per esercitare la mente meditativa.

venerdì 25 novembre 2016

Il sacro orgasmo

Alla fin fine, quando vogliamo avere un’idea di cosa sia l’illuminazione, dobbiamo ricorrere all’analogia dell’orgasmo sessuale: un profondo sollievo, una grande liberazione dal peso della vita.
L’orgasmo trascende la dualità (maschio-femmina) e libera dall’opprimente senso di sé. Si allargano i confini e c’è beatitudine.
Nessun’altra esperienza è paragonabile a questa, tanto che tutti la cercano assiduamente. Chi rinuncia alla sessualità, si impoverisce e finisce per isterilirsi.
Non a caso la vecchiaia coincide con l’esaurirsi della sessualità.

Dunque, facciamo sesso e applichiamo la meditazione al processo che ci porta all’orgasmo.
Non facciamo come i pretini e le suore, che non sanno neppure lontanamente che cosa sia l'illuminazione.

Conoscere come creare

Un tempo, in epoche primordiali, la natura veniva percepita come nemica e ostile, qualcosa contro cui combattere. Oggi viene percepita come qualcosa da difendere e custodire. Cambia il nostro rapporto perché cambia la nostra consapevolezza.
Quando cambia il nostro rapporto, quando cambia la nostra conoscenza, quando scopriamo qualche nuova legge naturale, non è che “prima” fosse così (in una pura oggettività), ma è qualcosa che abbiamo creato collettivamente.
La nuova conoscenza è una creazione della mente, che, vedendo diversamente le cose, in realtà le crea,
Conoscere è creare, non scoprire qualcosa di vecchio.
Questa è la nostra responsabilità. Non siamo gettati qui come degli estranei indifesi, impotenti e irresponsabili. Siamo qui per creare una nuova realtà.
Dal nulla emerge l’essere – con il contributo di tutti.

È un po’ come il suono. Dov’è il suono? Fuori, nell’orecchio o nel cervello?
Per un sordo non esiste.
Lo stesso vale per la vista e per gli altri sensi.
Ciò che udiamo o vediamo non è né fuori né dentro, ma in una zona intermedia. Il mondo che percepiamo non è né dentro né fuori, perché noi stessi ne facciamo parte, perché noi stessi lo abbiamo creato.
Siamo dentro e siamo fuori.

Tutta la realtà è così. Dunque, ciò che conosciamo, lo abbiamo in parte creato noi stessi.

Liberarsi

Il nostro stesso sé, l’io, non è qualcosa di creato dal nulla, non è una tabula rasa, ma è il prodotto di una lunga linea filogenetica e di un’enorme rete d’interdipendenza: noi nasciamo da genitori che hanno avuto i loro genitori, che hanno avuto i loro genitori, eccetera. E poi nasciamo in un certo tempo e in un certo luogo. E poi, su queste basi, ci creiamo a nostra volta un sé, che ci sembra definito e solido.
Così questo sé è il frutto di mille condizionamenti, di cui in parte possiamo essere responsabili. Si tratta di schemi mentali, di valori, di idee convenzionali, di abitudini e di opinioni che vengono in parte da lontano e in parte da noi stessi.

La prima cosa è rendersi conto di questa eredità che ci pesa addosso nel bene e nel male e ritrovare la nostra mente vasta e spaziosa. E rimanere per un po’ lì, liberi dalle consuete dinamiche. È già una prima forma di liberazione.

giovedì 24 novembre 2016

La forza della vita

Secondo la scienza, l’universo avrebbe avuto origine da un’enorme esplosione e, da quel momento, avrebbe incominciato ad espandersi. Non si è dunque trattato di un processo né gentile né “umanitario”. Crescita, espansione, vitalizzazione – nient’altro. Non vediamo all’opera né equilibrio né un principio di giustizia. Vediamo in azione leggi fisiche, leggi chimiche e leggi biologiche, ma nessuna etica, nessuna considerazione per gli esseri viventi, che vengono trattati come carne da macello, semplici riproduttori, che nascono e muoiono ininterrottamente.
Anche la nostra esistenza segue queste leggi disumane. Si nasce violentemente e si muore violentemente, si può morire a qualunque età per motivi naturali o umani e, una volta esaurito il nostro ruolo, si invecchia senza nessun garbo, senza nessuna pietà. Veniamo buttati via.
Noi lottiamo per esistere e per resistere il più a lungo possibile, ma alla fine saremo sconfitti. Sono pochi i fortunati che invecchiano senza grandi acciacchi e muoiono placidamente, magari nel sonno. I più devono vedersi disgregare tra mille sofferenze.
Pensare che tutto ciò sia stato creato da un Dio benevolo, compassionevole e amorevole è contraddire l’esperienza. Sembra in azione un processo implacabile e impassibile, in cui veniamo gettati casualmente, senza essere padroni di nulla. Prima veniamo gettati e poi veniamo buttati via.
Ma forse questa nostra visione – di un Creatore a se stante che decide tutto e degli esseri che sono gettati in una specie di mattatoio – non è giusta. È, per l’appunto, una nostra idea, una nostra interpretazione. È come se un senso di estraniazione e di alienazione interiore si proiettasse all’esterno in un mondo incomprensibile e ingovernabile.
Forse la creatura non è così ignara e impotente. Forse è più consapevole, responsabile e potente di quanto crede.
Tutto infatti è interconnesso e ogni cosa influisce sulle altre.
In Oriente si dice che esista un processo di reincarnazione, per cui ognuno occupa il posto che si è meritato e che si è creato con le proprie azioni. Qui il singolo non si sente gettato in un mondo ostile, ma è responsabile del proprio destino.
La verità sembra essere nel mezzo tra queste due concezioni. Il mondo è esattamente come lo interpretiamo. All’inizio non c’è un Essere onnipotente che decide per tutti gli esseri, senza coinvolgerli, senza ascoltarli, ma un vero e proprio Nulla che si costituisce a poco a poco in essere e in tanti esseri. E la visione di questi esseri – il mondo percepito – è una loro creazione, una loro responsabilità, non qualcosa di casuale voluto da un Mente estranea.

Questa è una nuova rivoluzione copernicana, che lascia agli esseri uno straordinario potere – il potere di cambiare le cose attraverso un diverso modo di vederle.

mercoledì 23 novembre 2016

Momenti rivelatori

Molti pensano che l’illuminazione sia simile alla nascita di qualche idea, all’accensione di una luce nel cervello o alla soluzione improvvisa di un problema. Lo diamo anche nel linguaggio corrente: “Ho avuto un’intuizione… mi si è accesa una luce”.

Invece è più simile ad un improvviso rilassamento, ad una caduta della tensione, all’avvento della calma, a un lasciar andare, ad un orgasmo liberatorio.

La contemplazione della morte

Se vogliamo ribadire che la morte è inevitabile, qualcuno toccherà ferro e penserà che è un argomento lugubre, da evitare accuratamente.
Ma, poiché si tratta di una verità incontestabile, non serve a nulla cercare di non pensarci. Tanto vale, invece, portare alla luce della nostra coscienza ciò che vorremmo nascondere.
Una delle meditazioni più importanti è proprio quella sulla morte, perché dà un senso vivido alla vita. Se ci limitiamo a immaginare il nostro corpo morto o il nostro funerale, non sarà qualcosa di profondo. O concettualizziamo o fantastichiamo, ma è difficile diventarne consapevoli. Anche se tutti sappiamo di dover morire, in realtà rimane un pensiero astratto, non esperienza.
Cerchiamo di insiste: “Anche io morirò. E il mondo andrà avanti anche senza di me. Se dovessi morire domani, che cosa rimpiangerei, che cosa non ho fatto?”
Per meditare sulla morte, dobbiamo rievocare i momenti in cui abbiamo rischiato di morire. Meglio ancora, vivere l’istante in cui rischiamo. Questo, fra l’altro, è il motivo per cui cerchiamo tante attività pericolose. Sfidando la morte, vogliamo provare il senso della vita.
Inutile sfuggire. Dobbiamo meditare anche sugli aspetti spaventosi della vita e non fare come tanti che dicono: “Andrà tutto bene… Ce la farò in ogni caso…” La verità è che ci sarà sempre un momento in cui le cose andranno male e il nostro ottimismo difensivo non servirà più a niente. Allora non saremo preparati e il trauma sarà orribile.

Non dobbiamo combattere contro le verità sgradevoli, ma accoglierle, accettarle, come momenti rivelatori della vita, come esperienze di grande chiarezza. È questa chiarezza che ci trasforma da esseri spaventati ad esseri consapevoli.

martedì 22 novembre 2016

Eternalismo e nichilismo

Negli esseri umani esistono due atteggiamenti contrapposti per quel che riguarda ciò che succederà dopo la morte. Alcuni pensano che esista un’anima immortale, un nucleo stabile che è eterno. Altri credono che tutto finisca con la morte.
I due atteggiamenti hanno in comune il fatto che si tratta di semplici opinioni, del tutto astratte, dato che non c’è modo di convalidare né l’una né l’altra. Questo fatto ci dice che si tratta di teorie non realistiche, metafisiche, e che la verità sta altrove.
Ciò che è eterno è qualcosa che non possiamo pensare.
L’unica cosa certa è che tutto cambia e che niente è stabile. Come capirlo?
Il problema è che noi uomini siamo troppo fissati sul nostro io, investendolo di speranze e di paure, del tutto irreali.
Per capirlo, dobbiamo sperimentare la calma e distendere questo io. È solo così che si supera nella pratica il dualismo mentale e ci si avvicina ad una verità-realtà che non è definibile una volta per tutte a parole.
Molti credono che esista una realtà in sé, con cui dobbiamo confrontarci. Ma la cosiddetta realtà non è distinguibile da ciò che la sperimenta.

In tal senso, siamo noi che stabiliamo che cosa sia vero. E dunque siamo prigionieri della nostra mente, che si è solidificata in una data realtà.
Se vuoi cambiare la realtà, cambia la tua mente.

Le assoluzioni

Papa Francesco dice che i preti possono assolvere dal peccato di aborto. Alla buon’ora! Ma che ne è delle donne cui è stata negata l’assoluzione per secoli e che si sono sentite in colpa?
Questo significa che basta un Papa per cambiare leggi e le regole della Chiesa. Però, siccome la Chiesa è una monarchia assoluta, se un domani venisse eletto un Papa con idee diverse, potrebbe cancellare tutto o cambiare le cose ancora di più. Tutto è affidato alla volontà capricciosa del monarca e l’uomo comune non può nulla.
Insomma, all’interno del cattolicesimo non c’è nessuna certezza del diritto – conclusione inevitabile, dato che si tratta di leggi create dall’uomo e non certo da Dio.
Ma pensiamo all’enorme potere sulle coscienze e all’enorme responsabilità che si assumono i religiosi che dicono di interpretare (nientepopodimeno) le leggi di Dio. Assolvono altri uomini da peccati che essi stessi hanno stabilito.
Che presunzione! Un giorno dovranno render conto di questo arbitrio.


lunedì 21 novembre 2016

La pratica del ritiro

Sembra di parlare di una questione da monaci o da preti, del tutto al di fuori della nostra realtà laica, ma si tratta di ridurre la confusione e la dispersione, cause di tanto malessere psicologico e sociale, cause della frenesia che tormenta le nostre giornate.
Il mondo non ha bisogno di più agitazione, di un’intensificazione delle attività umane, ma di maggior calma.
Quasi tutti i nostri problemi derivano da questa erronea impostazione delle nostre vite sociali. Sembra che si debba produrre di più, guadagnare di più, muoversi di più, consumare di più. E invece è esattamente il contrario.
Per “pratica del ritiro” non si intende ritirarsi periodicamente in qualche fantastico resort da miliardari, circondati da una splendida natura e da stuoli di camerieri, per mangiar bene, dormire a lungo, fare ginnastica e starsene in panciolle. Ma si tratta di trovare momenti di riposo, fisico e mentale, per riordinare le idee, fare il punto della situazione, recuperare energie, staccare il telefono e rallentare il ritmo insensato delle nostre giornate.
Se ci dedicassimo tutti ad una pratica quotidiana di ritiro dagli impegni sociali, il mondo passerebbe di colpo dall’inferno attuale ad un luogo quasi paradisiaco.
Sembra di parlare di una cosa da ricchi e sfaccendati. Ma il ritiro non costa nulla e si addice a tutti. 

domenica 20 novembre 2016

Nemesi storiche

Nel secolo scorso, furono gli americani a intervenire in Europa per combattere fascismo e nazismo.
Adesso dovrebbe toccare a noi europei: sbarcare in America per combattere il fascismo statunitense.
Ma, siccome non abbiamo armi ed eserciti potenti, ci toccherà aspettare che intervenga l’altra metà dell’America, quella che reagirà al razzismo, al suprematismo, all’isolazionismo, al militarismo, all’autoritarismo, al fondamentalismo cristiano, al Ku Klux Klan e compagnia bella.

Corsi e ricorsi della storia.

Essere generosi

Quando ci attacchiamo a qualcosa e siamo avari di quel qualcosa, in realtà irrigidiamo il nostro ego. Ci dividiamo dagli altri e ci chiudiamo in una gabbia.
Del resto, l’ego serve a questo: è una piccola fortezza che ci difende dagli altri, dall’invasione degli altri, nel bene e nel male.
Al contrario, la generosità è un modo per aprire la gabbia e sciogliere la rigidità dell’ego.
Non bisogna però pensare che essere generosi significhi soltanto fare la carità a tutti i mendicanti che incontriamo o a impegnarsi in donazioni e nel volontariato.
Certo, tutte queste cose aiutano, ma la più importante è essere pienamente presenti con le persone che hanno bisogno di attenzione.

Viviamo in tempi bui e, per aiutare gli altri, la prima cosa da fare è portare un po’ di luce… dopo averla accesa in noi stessi.

sabato 19 novembre 2016

Illusione e delusione

Una delusione nasce quando c’è una precedente illusione. Ma perché noi ci illudiamo? Perché abbiamo quelle aspettative?
Il problema è sempre lo stesso: pretendere di inquadrare il futuro, volere che le cose si svolgano in un certo modo, avere modelli ideali di come il mondo dovrebbe essere.
Dunque, sono le esigenze mentali che ci predispongono alla delusione e al fallimento.
Noi ci chiudiamo in una speranza precostituita, convenzionale, anziché tenere la mente e il cuore aperti.

Per evitare le delusioni dobbiamo mantenerci aperti e fluidi, pronti al cambiamento e alla sorpresa, non solidificare l’io in una gabbia rigida.

Il Padre eterno

Lo psicoanalista Massimo Recalcati, commentando il film di Paolo Sorrentino The Young Pope, mette in evidenza come la fede assoluta e teocentrica, gelida e anti-umanistica, di questo giovane Papa immaginario sia da mettere in relazione con la sua infanzia da orfano, con il suo abbandono da parte dei genitori.
In sostanza, certe fedi integraliste e rigide, che mettono Dio al di sopra di tutto, proiettano nell’immagine di Dio il genitore che non si è avuto.
Dal punto di vista psicologico, si proietta in cielo ciò che non si è avuto in terra. La nostra immagine di Dio nasce dunque dalle nostre esperienze infantili.
Ma sorge subito una domanda. Tutte queste proiezioni che nascono dalle nostre mancanze che cos’hanno  a che fare con l’eventuale Dio della realtà?
Evidentemente, nulla.
“Come uno è, così è il suo Dio” diceva Goethe.
Per capire Dio o la trascendenza, dobbiamo innanzitutto liberarci dalla nostra psicologia. “Dio non è umano” diceva il Tao Te Ching.
Tutto sommato, Dio, come l’immaginiamo noi, è proprio un prodotto dell’infanzia dell’uomo. E solo l’ateo, colui che si considera ateo, ha incominciato a liberarsi del pensiero infantile. Come diceva Meister Eckhart, “preghiamo Dio di liberarci di ogni idea di Dio”.

Crescere è raggiungere l’età del disincanto.

venerdì 18 novembre 2016

L'altruismo nella meditazione

Quasi tutti ci avviciniamo alla meditazione per risolvere problemi personali: ansia, stress, insoddisfazione, controllo di stati d’animo, volontà di realizzazione, sincronizzazione di mente e corpo, ricerca di calma e di lucidità, tentare di dare una dimensione spirituale alla nostra esistenza, ecc.
Ma il problema dei problemi è che siamo troppo centrati su noi stessi, sulla difesa o sul potenziamento del nostro ego. E questo non va tanto bene, perché ci chiude in un bozzolo ristretto e separativo. In fondo tra gli scopi della meditazione c’è la comprensione dell’interdipendenza generale e la messa in atto di iniziative per migliorarlo stato dell’umanità.
Dobbiamo in fondo renderci conto che non lavoriamo solo per noi stessi, ma per far progredire la consapevolezza di tutti. Questo è l’aiuto fondamentale che possiamo dare: studiare e cambiare noi stessi per studiare e cambiare il mondo.
Per far questo non c’è bisogno di essere degli illuminati. Se cerchiamo di carpire un po’ di luce, ne abbiamo già catturato un po’ dentro di noi.
Se cambio me stesso, cambio il mondo. Se sono più consapevole io, è il mondo che diventa più consapevole.

C’è sempre un intento altruistico nella meditazione.

giovedì 17 novembre 2016

Essere presenti

Ci sono meditazioni che si possono fare da seduti, in modo formale, e meditazioni che si possono svolgere in ogni momento della giornata. La presenza mentale è una di queste ultime, e consiste nell’essere presenti esattamente in ciò che facciamo e siamo.
Anziché pensare da una parte e fare dall’altra, in modo dissociato, esercitiamoci ad essere presenti in tutto ciò che facciamo. Va bene qualsiasi attività, dal lavarsi la faccia all’aspettare l’autobus, dal preparare da mangiare a fare la fila in qualche ufficio.
In queste situazioni, per essere presenti e per reagire al meglio, possiamo ritornare a percepire il respiro oppure possiamo semplicemente realizzare: “Sono qui e faccio questo”.
Questo tipo di meditazione ci permette di uscire dalla gabbia delle fantasie mentali e ci riporta alla realtà.
L’uomo è l’unico animale che può pensare una cosa e pensarne un’altra, dividendosi in due. Mentre nella sua mente scorrono tanti film, lui si trova altrove.
La meditazione della presenza mentale ci aiuta a ritrovare l’unità psicofisica.
Tutti conosciamo la differenza tra bere un bicchier d’acqua gustando l’acqua e bere lo stesso bicchiere pensando ad altro. Nel primo caso siamo perfettamente presenti in ciò che facciamo e possiamo apprezzare dei particolari che nel secondo caso ci sfuggono..
Di solito, poi, quando la situazione è dolorosa, noi facciamo di tutto per evitarla e per pensare ad altro. Ci sembra una via di fuga efficace. Ci alieniamo per sfuggire alla sofferenza. Ma non è così: dalla sofferenza non si può sfuggire.
La presenza mentale ci permette di essere presenti in ogni situazione, piacevole, spiacevole e ordinaria. Se è piacevole od ordinaria, possiamo apprezzarla di più; se è spiacevole, possiamo con più efficacia affrontare il dolore e superarlo.

In ogni caso saremo aderenti a ciò che facciamo e viviamo, senza bisogno di trovare vie di fuga. La nostra mente non vagherà altrove e sarà in grado di essere chiara e vitale. Quindi anche la nostra azione sarà più efficace.

mercoledì 16 novembre 2016

Esperienze trasformative

In meditazione, le emozioni come i pensieri sembrano essere ostacoli, perché ci travolgono, perché trascinano la nostra attenzione come fiumi in piena.
Ma noi abbiamo un metodo semplice per fermarle: rendercene conto, esserne consapevoli.
La presa di coscienza ci riporta dall’essere agiti all’essere i testimoni o gli osservatori di questo meccanismo di asservimento.
Etichettiamo dunque gli stati d’animo disturbanti, magari dicendo: “Questo è un pensiero… questo è un ricordo… questa è una fantasia… questo è un desiderio… questa è rabbia… questo è odio, ecc.
Etichettando ci stacchiamo. E, staccandoci, possiamo utilizzare a nostro vantaggiose energie suscitate da questi stati d’animo.
Si può imparare molto da una simile osservazione, dal contenimento delle fiammate emotive.


Demoni mentali

Tutti noi abbiamo immagini ideali di qualche persona, di qualche figura religiosa o di noi stessi: ciò che dovremmo essere…
Questo non va affatto bene.
Dobbiamo imparare a stare con la realtà delle cose, non con le immagini delle cose.

Le immagini idealizzate non sono meno dannose dei demoni mentali. Si tratta comunque di scostamenti dalla realtà.

martedì 15 novembre 2016

Eterni dilemmi

Se fossimo stati creati da un Dio, da un Essere a se stante e autogeno, non saremmo padroni della nostra vita. Se poi questo Dio dovesse anche giudicarci, non saremmo che schiavi, poco più che animali da allevamento.
Solo se ci fossimo creati da soli, e quindi fossimo noi stessi il flusso del Divino, potremmo essere ritenuti responsabili. Ma anche questa ipotesi si scontra con la realtà dei nostri limiti.
Solo in prospettiva, alla fine dell’evoluzione, potremmo dirlo. Il che significherebbe che il Divino non si è ancora compiuto e cerca faticosamente di consolidarsi.
Però, può darsi che questa contrapposizione sia uno dei tanti schemi mentali e che la verità sia altrove.

Il problema è che noi, anziché fare esperienza, facciamo filosofia e quindi ci perdiamo nelle aporie della mente.

Essere saggi

Abbiamo un bel filosofare, studiare ed essere religiosi. Ma la vera saggezza viene dall’intimo.
Ed è solo lì, raccogliendoci e riesaminando i fatti della vita, che possiamo cogliere brandelli di verità.

Tutto il resto è destinato a scivolarci via come sabbia fra le dita.

L'insoddisfazione

C’è un’infelicità che è connaturata all’essere pericolosamente vivi; e su questa non possiamo niente, se non attrezzandoci alla resilienza.
E c’è un’infelicità che nasce dai nostri condizionamenti mentali, dal desiderare ciò che non abbiamo – e che non avremo mai.

Sì, perché, una volta ottenuto ciò che desideravamo, subito ricomincia l’insoddisfazione, l’infelicità e una nuova ricerca affannosa – e così via per tutta la vita. A meno che non si fermi la mente desiderante alle cose veramente essenziali. Ma qui ci vuole saggezza.

Illuminazione

Crediamo che l’illuminazione sia una specie di paradiso o di nirvana, con esperienze straordinarie.

Invece, per ora, non è che la realtà depurata dalla nostre interpretazioni e dai nostri schemi mentali.

lunedì 14 novembre 2016

Essere se stessi

Noi siamo noi stessi. Ma lo siamo quando non ci pensiamo.

Quando ci pensiamo, ricadiamo nella trappola dei concetti e dei pensieri. E non lo siamo più.

La nuda presenza

Nelle tradizioni meditative esiste il problema di che cosa fare con i pensieri (e gli altri stati mentali) che sorgono apparentemente da solo, che ci portano lontano dalla pura contemplazione e che ci fanno rientrare in un’attività mentale chiassosa, continua e confusa. In altri termini, i pensieri ci portano via dalla chiara presenza mentale che è lo scopo della meditazione.
Di solito si consiglia di assumere l’atteggiamento del semplice testimone distaccato e di osservare i pensieri come nuvole che passano sul cielo terso della consapevolezza.
Tuttavia, anche solo osservando i pensieri, è facile venirne catturati e passare dallo stato di osservatori a quello di mente fantasticante.
Dobbiamo allora compiere un ulteriore passo. Uscire anche dalla posizione del testimone, ma rimanere nello spazio di osservazione o di consapevolezza dove non c’è neppure più l’osservatore.
Non osservare i pensieri, rimanere nello spazio di osservazione. Provate a notare la differenza. Passate dalla posizione del testimone a quella in cui svanisce anche l’osservatore, il senso dell’io.
C’è solo la nuda presenza mentale.
La sfida è rimanere il più spesso possibile e il più a lungo possibile in questo spazio vuoto senza farsi coinvolgere dai pensieri.

Il momento migliore per eseguire questo esercizio è la mattina appena svegli, quando la mente è meno attiva e l’attenzione è più chiara, senza interferenze.

domenica 13 novembre 2016

La meditazione della marmotta

Qualche volta, nelle traversie della vita, utilizziamo la meditazione per trovare uno stato di quiete, per uscire da una condizione di agitazione. Niente di male, perché la tranquillità dell’animo è un bene incalcolabile. E, in ogni caso, la calma è il fondamento di tutto.
Ma non dobbiamo usare la meditazione per ripiegarci su noi stessi e per andare in letargo, così come fanno le marmotte in inverno.
La vera meditazione ha più a che fare con la vitalità che con il torpore. Non dobbiamo né cercare stati di trance, né cadere nell’apatia – due pericoli che si trovano sempre dietro l’angolo.
Quando cadiamo in questi stati, in realtà lo sappiamo, perché la meditazione non si sviluppa più e noi proviamo un senso di insoddisfazione. Non abbiamo ottenuto ciò che cercavamo, ci siamo fermati ad una tappa intermedia.
Chiediamoci allora chi è che prova questa insoddisfazione. Cerchiamo di identificare chi non si sente realizzato. E ripartiamo da lì.

Il nostro obiettivo è capire e vedere le cose.

sabato 12 novembre 2016

Ritornare al corpo

Per incominciare a meditare, chiediti semplicemente: “Che cosa provo in questo istante? Sto bene, sto male?”
Ma non rispondere con la mente. Senti con chiarezza lo stato del corpo.
Che cosa sente il tuo corpo?
Non cercare la trascendenza, percepisci ciò che senti fisicamente. Esci dalla gabbia dei concetti.
Questo è quanto. Questo è reale.
Ecco una maniera per essere veramente presenti qui e ora.

E, se non ce la fai a uscire dalla gabbia mentale, datti un pizzicotto. Ritorna alla realtà.

Figli di Dio: vuoti a perdere

Questo mondo non è che un immenso fondale teatrale, dietro il quale non c’è quasi niente, dietro il quale si scopre l’inganno, il gioco illusionistico, il vuoto.
E noi siamo i figli di questo Dio del nulla – vuoti e inconsistenti come lui.
Ma, proprio perché siamo vuoti e inconsistenti, spetta a noi assumere la forma che vogliamo.

Che tremenda responsabilità!

Trump il barbaro

Razzismo, limitazioni all’aborto, armi per tutti, cacciata degli stranieri, protezionismo, machismo, antifemminismo, lotta contro la sanità pubblica, megalomania, intolleranza, ammirazione per le dittature… se credevate che i barbari che i barbari arrivassero solo dall’Africa o dal Medio Oriente, ora dovete ricredervi: arrivano dagli Stati Uniti d’America.
Come sempre, quando l’Occidente che si dice cristiano si scatena, è il più feroce di tutti.

Il faro del mondo ogni tanto si spegne e incomincia l’oscurantismo.

La responsabilità

“Io sono diventato laico anche perché ho scelto di non liberarmi delle mie responsabilità individuali” ha scritto l’oncologo Umberto Veronesi nel suo libro autobiografico L’ombra e la luce. La mia lotta contro il male (Einaudi 2008).
In effetti, molti credenti si rifugiano nella presunta volontà divina (sotto cui si nasconde una chiara volontà della Chiesa) per non pensare e per non decidere personalmente.
La responsabilità non può che essere individuale.
È comodo non pensare con la propria testa e affidarsi alle direttive di un gruppo di uomini di potere. Ma così si rinuncia ad essere se stessi e a scoprire personalmente che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato.

Si rinuncia alla parte più autentica di se stessi. Si rimane eterni bambini.

venerdì 11 novembre 2016

Oltre le antinomie

Siamo abituati a pensare che là dove c’è la vita non c’è la morte e viceversa.
Ma, questa antinomia – difficile crederlo – è un prodotto della mente.
Dunque, c’è uno stato che va al di là di entrambe, una vastità in cui queste differenze spariscono.
Né vita né morte: un’altra realtà.
È verso questa che siamo indirizzati.

Aguzzare la vista

Quando siamo nel buio e dobbiamo muoverci, andiamo avanti a tentoni, allarghiamo le braccia, tocchiamo gli oggetti, sbattiamo qua e là, cerchiamo di tastare le superfici… ma soprattutto aguzziamo la vista. Stringiamo gli occhi, tratteniamo il respiro e teniamo tutti i sensi all’erta.
Anche quando, per l’età o per la distanza, non vediamo bene qualcosa, aguzziamo la vista.
Così constatiamo che le cose sono sempre al loro posto. Siamo noi che non riusciamo a vederle, perché manca la luce, perché sono distanti o perché non prestiamo loro attenzione.
Ma, se aguzziamo la vista, esse appaiono, come apparendo dal nulla.

“Aguzzare la vista” è un sinonimo di “meditare”. Si tratta comunque di fare più attenzione a ciò che è sempre lì, ma che non vediamo per la mancanza di qualcosa.

La necessità del sonno

Gli uomini si avvicinano alla morte come i bambini che non vogliono andare a dormire. Fanno le bizze.
È difficile lasciar andare quando si è infervorati in un gioco.

Ma dormire si deve.

giovedì 10 novembre 2016

I gradi di visione

Se entriamo in una stanza semi-buia, riusciamo a scorgere solo pochi dettagli. Ma, se aumentiamo gradualmente la luce, scorgiamo sempre più particolari.
In ogni caso, quelle cose erano sempre state lì. Ciò che è cambiato è la nostra capacità di vederle grazie all’aumento della luce.
Ciò che vediamo era sempre stato lì, era sempre stato potenzialmente visibile, ma noi siamo stati in grado di vederlo a poco a poco.
E non è finita. Se uno scienziato esaminasse quelle cose con una lente di ingrandimento o con un microscopio, potrebbe vedere ancora di più.
Che cosa concludere?
Che esistono vari livelli o piani di visione e che il mondo che vediamo dipende dalla nostra capacità di visione. A parità di ambiente, possiamo vedere più o meno cose.
In campo spirituale, il risveglio viene chiamato non a caso “illuminazione”. Non si tratta di una luce che venga dall’esterno (come nell’esempio iniziale), ma è la nostra stessa capacità di visione che viene aumentata grazie al nostro addestramento ad essere più attenti e consapevoli.
Il mondo è sempre lì, ma ci sono mille modi, mille gradi, di vederlo.


La meditazione della morte

È incredibile quanta consapevolezza possa avere l’uomo della propria morte. Che in un medico, per esempio, diventa certezza. “Questa è la fine, avrò poche ore o pochi gorni…” Un attimo è lì che predispone il testamento e un attimo dopo è morto. Può anche farci delle battute di spirito e decidere che cosa farà del suo corpo.
Nessun altro essere vivente ha questa consapevolezza. E non si sa se è un vantaggio o no. Resta il fatto che questo è il prezzo da pagare all’evoluzione: una paura, un’angoscia che non dipendono da pericoli transitori, ma proprio dal possesso della consapevolezza della morte.
Ora, il problema per noi uomini è come convivere con una consapevolezza che, essendo più elevata di quella degli altri animali, deve fare i conti con un’angoscia più forte.
In meditazione usiamo sia la presenza mentale (ogni momento, ogni ente muore e passa) sia la consapevolezza della morte finale per uscire dalle nostre illusioni e dalle nostre elaborazioni mentali e per avvicinarci il più possibile alla realtà.
Un tempo, i buddhisti mandavano i loro giovani a meditare nei cimiteri e nei campi di cremazione. Ma non c’è bisogno di ricorrere a questi estremi. La morte, nostra o altrui, ci sfiora di continuo ed è sempre possibile riflettere su di essa.
Noi di solito facciamo il contrario: cerchiamo di non pensarci. Ma non è una buona politica, in quanto, così facendo, ingigantiamo la paura inconscia.
Pensare e abituarsi alla morte è un addestramento che dura tutta la vita. Si tratta di una meditazione che non deve spaventarci, ma serve a toglierci inutili illusioni e ambizioni e a darci quindi le giuste dimensioni della vita e del nostro io. Platone sosteneva che lo scopo della filosofia era far sì che si potesse morire con serenità.

Per noi, la meditazione sulla morte è un modo sicuro per uscire dalle nebbie della mente e mantenerci in rapporto con il mondo reale, senza venirne terrorizzati.

mercoledì 9 novembre 2016

Salti evolutivi

Crescendo e uscendo dallo stato fusionale con la madre, ognuno di noi si considera un essere separato dal mondo, e in un certo senso è vero: si delinea un individuo che sembra essere a se stante.
Ma noi non siamo affatto esseri separati dal mondo. Ne siamo parte, ne siamo un’escrescenza. E questa escrescenza non può separarsi: è un prodotto della natura.
Noi non possiamo non seguire le leggi della natura. Anche le nostre scoperte e le nostre illuminazioni nascono in un contesto condizionato e comune.
C’è però sempre una piccola possibilità di non coincidenza, di differenziazione. L’uomo che medita può saltar fuori da se stesso e osservarsi come se si trovasse all’esterno. Anche se il prezzo da pagare è una certa divisione, da questa  esperienza possiamo trovare l’ispirazione e la forza per vincere la forza d’attrazione della natura indifferenziata ed aprirci una nuova via.
In fondo c’è sempre stato un momento in cui il pesce è uscito dal mare ed è diventato prima un anfibio e poi un animale terrestre o un volatile.

Se rendiamo sempre più chiara la nostra consapevolezza, giorno dopo giorno, senza stancarci mai, abbiamo comunque in mano lo strumento dell’evoluzione.