lunedì 29 febbraio 2016

L'equanimità

Per un istinto atavico, siamo abituati ad inseguire ogni esperienza piacevole cercando di prolungarla e siamo abituati a rifuggire ogni esperienza spiacevole cercando di abbreviarla il più possibile. Anche in meditazione seguiamo, all’inizio, questo principio.
Ma noi vogliamo trascendere la comune natura umana. E quindi esaminiamo le varie esperienze come se non ci appartenessero, come se scorressero su uno schermo che non siamo noi.
Le vediamo comparire (motivate da tanti fattori), perdurare per un po’ e poi sparire.
Osserviamo questo campo di battaglia della nostra mente-schermo lasciando perdere sia il desiderio di acquisire esperienze piacevoli sia il desiderio di evitare quelle spiacevoli.
Anzi, giungiamo al punto da non preferire le une alle altre. Attrazione e avversione, infatti, sono solo i due aspetti della brama fondamentale: desiderare le cose piacevoli e desiderare di allontanare le cose spiacevoli.
In meditazione, il nostro scopo è lasciar andare l’intero meccanismo reattivo, l’intero meccanismo del desiderio. Abbiamo scoperto che piacevolezza e spiacevolezza sono le due facce di una stessa medaglia. Sono due estremi complementari: non puoi avere l’uno senza avere l’altro. Perciò, o ti becchi l’inevitabile alternanza o lasci andare l’intero funzionamento del desiderio.
Questo stato di non-coinvolgimento, di non-preferenza, è l’equanimità.
Nello stato di equanimità non vogliamo più che le cose siano diverse da come sono e trattiamo le esperienze piacevoli come le esperienze spiacevoli. Non siamo più scossi da avidità, attaccamento, avversione, amore e illusione. Scompaiono le paure, le preoccupazioni e le tensioni.

Troviamo la pace (non più umana, non più duale) della trascendenza.

Oltre la dialettica

Tutto è ambiguo, ambivalente e dialettico. Noi cerchiamo le esperienze piacevoli e cerchiamo di evitare le esperienze spiacevoli. Ma la natura duale del mondo fa sì che uno stato porti al suo opposto.
Prendiamo l’amore. Chi non desidera lo stato magico dell’innamoramento?
Ma, un istante dopo, questo amore porterà attaccamento, gelosia, paura, incertezza, delusione, odio… insomma sofferenza. E, quando questo non succede, nessuno può difenderci dal continuo disgregarsi degli stati d’animo, dal loro cambiamento.
Insomma, se vogliamo uno stato stabile di pace, non possiamo cadere nella trappola della dialettica dei sentimenti. Ma dobbiamo adottare una strategia più intelligente: trascendere gli opposti per approdare ad una condizione di equanimità.


Le voci degli altri

Noi siamo condizionati da mille fattori e da innumerevoli persone. Con l’una siamo in un certo modo e con l’altra siamo diversi. Abbiamo tante personalità o una personalità con tante sfaccettature.
In teoria, dunque, per ritrovare noi stessi, basterebbe stare soli.
“Se tu sarai solo” diceva Leonardo da Vinci, “sarai tutto tuo.”
Ma le cose non vanno così. Perché, anche quando siamo soli, continuano ad agire dentro di noi i vari condizionamenti sociali, le voci degli altri.

Per trovare la nostra vera essenza, è perciò necessaria un’opera di indagine e di spoliazione. Come una cipolla, dobbiamo togliere ad una ad una le varie personalità sovrapposte.

domenica 28 febbraio 2016

Passare a miglior vita

Non è detto che tutti passino a “miglior vita”: qualcuno passerà a “peggior vita”.

In ogni caso, se sarà vita, non sarà libera né da insoddisfazione né da sofferenza.

La grande ricerca: la via del Buddha

La via del Buddha è la più profonda contestazione delle religioni della sua epoca e, in realtà, di tutte le religioni che credono in un Dio e nell’anima.
Sostiene che non esiste nessun sé permanente e che non si raggiunge l’illuminazione finché non ci si libera sia del desiderio di rinascere in una forma materiale sia del desiderio di rinascere in una forma immateriale.
Col che si liquidano tutte le nostre fantasie paradisiache. Finché siamo avidi di vita, non abbiamo capito nulla e continueremo a trasmigrare da un mondo all’altro.
Il Buddha non nega che esistano mondi ed esseri superiori, ma ritiene che tutti siano corrosi dall’illusione, dalla sofferenza e dalla morte. Anche i nostri Iddii hanno fatto o faranno questa fine.
Per capire la sua via ci vogliono sia una grande concentrazione sia una grande consapevolezza. Dobbiamo concentrarci ed essere consapevoli di noi stessi, dei nostri condizionamenti e di come funzioni il mondo.
Quasi tutti ci attacchiamo, in modo o nell’altro, all’idea della sopravvivenza del nostro sé. Ciò che ti atterrisce di più è la prospettiva di perdere la nostra identità. Non siamo disposti ad abbandonare le nostre illusioni, i nostri attaccamenti.
Ma, se dobbiamo abbandonare tutto, che cosa rimane? Che cos’è il nirvana?
Il problema è che ciò che rimane – e qualcosa rimane – non può essere definito a parole. È qualcosa che non riusciamo a capire né a immaginare: la fine della sofferenza e dell’attaccamento egoico.
Tuttavia, anche senza raggiungere la meta finale, possiamo averne barlumi di esperienza ogni volta che sperimentiamo momenti di distensione, di sollievo, di liberazione e di pace. Quando si interrompe la tensione della vita.
Comunque sia, il Buddha non invita a credere ciecamente alla sua via, ma a provarla concretamente. “Venite a vedere!” E anche questa è una novità rispetto alle religioni teiste, che sono di tipo devozionale e invitano a credere sulla fiducia.

La via del Buddha si basa infatti in parte sull’etica, in parte su un percorso meditazionale e in parte su una visione profonda che illumina il percorso e fa capire la verità.

Paura della libertà

Chi ha passato gran parte della sua vita in una prigione finisce per aver paura della libertà.
Tutto sommato, gli paiono accettabili la regolarità e la “sicurezza” del carcere.
Non deve decidere nulla, non deve neppure pensare. Sa che cosa gli capiterà in ogni ora della giornata.

Mentre là fuori… 

sabato 27 febbraio 2016

La meta della felicità

Tutti i nostri processi, nella vita, sono guidati dal principio del piacere: noi desideriamo la felicità e ci sforziamo di evitare il dolore e le cose spiacevoli.
Questo avviene anche nel processo della meditazione, dove, all’inizio, veniamo guidati dalla ricerca della gioia e della felicità.
Tra gioia e felicità c’è una differenza. Se ci troviamo persi in un deserto, senza acqua e sotto un sole implacabile, e scorgiamo in lontananza un’oasi, proviamo gioia. Se poi la raggiungiamo e ci immergiamo in una fonte fresca, proviamo felicità.
In meditazione, proviamo gioia quando all’improvviso sperimentiamo un attimo di gioia perché, dopo qualche tentativo, si è allentata la tensione che di solito ci domina. È un attimo di sollievo. Nel deserto della vita, troviamo un’oasi di vitalità e questo ci fa sperimentare la gioia: allora c’è una via d’uscita!
Se riusciamo a prolungare e a rendere stabile questa gioia, sperimentiamo una vera felicità. Che sia questo il nirvana?
Purtroppo nel nostro mondo tutto è destinato a cambiare, e quindi questo stato d’animo è transitorio. Allora cerchiamo di trasferire la felicità dalle vicissitudini esteriori al centro del nostro essere.
Ma non basta: dobbiamo trasformarla. Anche la felicità è uno stato di eccitazione.
Ecco perché, nei passi successivi del processo meditativo, dobbiamo lasciarci alle spalle anche questa ricerca della felicità e trovare uno stato di quiete e di tranquillità.

La tranquillità è la maturazione più stabile della felicità, molto più vicina alla meta.

Al di là de bene e del male

Una cosa è certa: se Dio fosse un Dio del bene e del male, sarebbe un piccolissimo Dio: un Demiurgo, uno Stregone, quasi a livello umano. Sarebbe il Dio che l’uomo potrebbe immaginare – un Dio che si occuperebbe perfino dei nostri matrimoni, come un qualsiasi curato di campagna. “Quante volte figliolo..?” A questo si ridurrebbe l’infinito, l’eterno…
A differenza delle religioni del Vicino Oriente (giudaismo, cristianesimo e poi islam)  che hanno questa idea dozzinale di Dio, nel Lontano Oriente avevano capito da migliaia di anni che non solo Dio non è qualcosa di esterno a noi, ma che è anche al di là del bene e del male.
Come dice la Maitry Upanishad, quando lo spirito umano si eleva a livello del Brahman, della Matrice, allora, avendo superato il bene e il male, realizza il Supremo.
E, se lo realizza l’uomo, figuriamoci Dio.
Per giudicare del bene e del male, basta il piccolo individuo con la sua mente dualistica. Infatti , è così che si crea con le azioni il proprio destino in questo mondo della confusione e della sofferenza. Per tirare avanti questo mondo, basta la legge di causa ed effetto. Non scomodiamo Dio.


venerdì 26 febbraio 2016

Etica

Il comportamento etico non dovrebbe servire ad ubbidire a qualche comandamento divino, ma a ridurre il livello dell’agitazione e del conflitto interiore.
Questo acquieta la mente, che a poco a poco, come un’acqua torbida, si schiarisce.

La vita diventa pura nel senso che la tua vista si fa più limpida e la tua visione si fa più lucida.

Le due vie

In sostanza le religioni ti dicono: “Se sei buono, se ti comporti bene, una volta morto, ci sarà un Dio che ti premierà; se sei cattivo, se ti comporti male, lo stesso Dio che ti punirà”. Il nostro destino è affidato ad un giudizio esterno.
Tra l’altro, la cosa principale è la sottomissione e l’ubbidienza alla presunta volontà di questo Dio e alle sue varie interpretazioni umane.
Però esiste un’altra possibilità. Che Dio non sia qualcosa di esterno a te, ma la tua stessa consapevolezza, che si è in qualche modo alienata.

Nel primo caso resti sempre separato e non importa se capisci o non capisci. Nel secondo cerchi la reintegrazione con te stesso, con l’essere, da cui ti eri diviso, comprendendo l’unità del tutto.

giovedì 25 febbraio 2016

Il sogno dell'io

La prima di queste illusioni e di questi sogni da cui ci dobbiamo risvegliare è quello di essere un io separato da tutti gli altri, un individuo a sé stante. Mentre è evidente che siamo parti di un flusso in continuo divenire, di un’interdipendenza generale.
È sbagliato dividere le cose in compartimenti separati.
Anche solo prendendo un oggetto comune, una sedia, è evidente che esiste perché sono esistiti il legno, le piante, l’acqua, l’aria, il boscaiolo, l’artigiano, il venditore, ecc. In un piccolo oggetto come questo ci sono già presenti tanti altri oggetti e soggetti. Figuriamoci in un essere umano.
Comprendere questo principio è già vedere con chiarezza le cose e liberarci da paure, solitudini e presunzioni.

Guardiamo la nostra vita alla luce di questa intuizione e comprendiamo l’armonia del mondo, la complementarità delle cose.

La lucidità mentale

Non dobbiamo pensare che lo stato meditativo sia una specie di trance o di dormiveglia, in cui emergono magari materiali dell’inconscio. Né dobbiamo pensare che consista solo in una forma di quiete.
In realtà, la presenza mentale, la consapevolezza, è uno stato di grande chiarezza e lucidità.
Si parla di “risveglio” proprio per indicare che dobbiamo uscire dal sonno della coscienza abituale e che dobbiamo essere particolarmente svegli e vigili.
Ci arriviamo calmando la comune attività del cervello e del cuore e stando attenti come se camminassimo sul fatidico filo del rasoio.
Ci sono vari gradi di lucidità e vari gradi di visione e di comprensione. Ma dobbiamo comunque uscire dal tradizionale modo di vedere e di interpretare le cose.

Noi siamo addormentati perché ci accontentiamo di vivere nei sogni e nelle illusioni.

mercoledì 24 febbraio 2016

La sofferenza dei bambini

Papa Francesco dichiara: “Se potessi fare un miracolo, guarirei tutti i bambini”. E aggiunge che non capisce il perché della sofferenza di tanti piccini.
In effetti, se visitate il piano dei bambini in un ospedale oncologico o in qualunque altro ospedale, perderete ogni fede nel provvidenziale Dio dell’amore (che veglia su di noi e ci protegge) di cui parla la religione cristiana.
Non sarebbe ora di cambiare fede e paradigma religioso?

Se, per esempio, ammettiamo che ogni esistenza è un flusso continuo che va avanti da tempo e che ad ogni azione corrisponde una reazione, abbiamo una spiegazione del perché il male possa colpire tanti bambini.

Ristabilire la consapevolezza

Quando veniamo assaliti da stati d’animo negativi, quando il nostro equilibrio e la nostra serenità stanno per essere travolti, quando siamo sul punto di cedere alla rabbia, all’odio, alla paura, alla depressione, al panico o a sentimenti comunque incontrollabili, si presenta per noi la necessità di ristabilire la consapevolezza o presenza mentale.
Il metodo più semplice è compiere qualche respiro profondo con l’attenzione rivolta al petto o alla pancia. Questo ci dà il tempo di creare una pausa o un’intercapedine prima dello scatenarsi della reazione.
“Sono qui e sto per subire un’aggressione!”
Ma dobbiamo aver già meditato ed essere convinti della necessità di non perdere la presenza mentale. Dobbiamo aver capito che la perdita della consapevolezza non dà mai buoni frutti.
In effetti, con la consapevolezza non si compiono errori. Se siamo consapevoli, non possiamo per esempio ubriacarci, drogarci, cadere in preda all’ira o fare del male a qualcuno. Con la consapevolezza siamo più forti.
Invece, senza consapevolezza, siamo in balia di qualsiasi ondata emotiva.

Insomma, l’esercizio della consapevolezza, iniziato sul cuscino di meditazione, prosegue in ogni momento della giornata, aiutandoci a trasformare la nostra vita e a renderci felici.

I funerali laici di Umberto Eco

In occasione dei funerali laici di Umberto Eco, Vittorio Messori, noto fondamentalista cattolico, parla della “definitiva apostasia” di Umberto Eco, il quale, in effetti, dopo esser stato in gioventù un dirigente dell’Azione cattolica, aveva abbandonato ogni fede.
Messori paragona questo abbandono all’ “interruzione di un circuito elettrico”.
È chiara l’arroganza del credente, che vede chi non crede più come un poveretto che si è perduto.
Questione di punti di vista. Si potrebbe dire, per esempio, che Umberto Eco aveva compiuto un percorso evolutivo che chi rimane ancorato a vecchie concezioni teologiche non compie mai.

L’anima di Umberto Eco potrebbe ora vedere Vittorio Messori come un poveretto che crede ancora alle favolette cristiane e non riesce a crescere.

martedì 23 febbraio 2016

Rapporti intimi

Molti pensano che i rapporti più intimi siano quelli sessuali. Ma non è così: ci sono rapporti molto più intimi.
Non è detto che unirsi sessualmente sia sentire il centro più profondo dell’altro. Spesso si possono avere rapporti sessuali rimanendo del tutto estranei, senza saper nulla dell’altro. Si può anche far sesso con qualcuno, pensando ad un altro.
La vera intimità avviene ad un altro livello – a livello delle anime.

Se per esempio stiamo mezz’ora in silenzio percependo il respiro dell’altro, possiamo raggiungere una maggiore intimità. E lo stesso avviene se lo ascoltiamo mentre ci racconta della sua infanzia o del suo passato.

Amare se stessi

Un tempo gli asceti e i mistici erano convinti che, per sviluppare doti positive, dovessero disprezzare se stessi e possibilmente punirsi, con cilici, digiuni, mortificazioni, ecc. Un’idea completamente sbagliata.
Dobbiamo amare noi stessi per poter amare gli altri, dobbiamo comprendere noi stessi per poter comprendere gli altri, dobbiamo conoscere noi stessi per poter conoscere gli altri, dobbiamo curare noi stessi per poter curare gli altri.

Anche quando vediamo i nostri difetti (egocentrismo, avidità, ecc.), dobbiamo essere gentili e compassionevoli con noi stessi. Se trattiamo noi stessi con durezza, tratteremo con durezza anche gli altri.

L'arma della rabbia

Qualche volta la rabbia o l’ira possono essere giustificate, perché si tratta di risposte energiche a ingiustizie, soprusi e violenze.

Ma, a lungo andare, se diventa un tratto permanente della personalità, diventa un’arma che, invece di colpire l’avversario, colpisce chi la prova.

Raggiungere la compostezza

Non basta raggiungere il vuoto della mente. Non basta neppure raggiungere stati elevati di consapevolezza.

Occorre anche vincere gli stati mentali negativi (odio, paura, avidità, ansia, ecc.) in modo da raggiungere, nella vita quotidiana, la serenità, la distensione, la calma, il distacco e l’equilibrio – questi sono risultati che ci trasformeranno molto di più di cento satori.

lunedì 22 febbraio 2016

Vincere la paura

Contro la paura che ci assale in certe occasioni, non possiamo fare nulla. Ma possiamo osservarla così come facciamo con tutti gli altri stati d’animo. Che arrivano, permangono per un po’ e infine spariscono.
Stando con la paura, familiarizzandoci con essa, possiamo almeno perdere la paura della paura.

Il segreto sta tutto nell’osservazione, nel trasformarci da soggetti (sottoposti che subiscono) a testimoni.

Il più forte degli attaccamenti

Il più forte degli attaccamenti? Ovviamente l’attaccamento al proprio ego. Anche il fanatico musulmano che disprezza la propria vita e si sacrifica per Allah, lo fa per salvare il proprio sé in un mondo migliore, in un bel paradiso pieno di vergini a sua disposizione.
“Che cosa farà il mondo senza di me?”
Andrà avanti come al solito.
A volte, anche cercare l’illuminazione è un modo in cui l’ego gratifica se stesso. Crede di diventare un immortale o un supereroe.

È difficile accettare l’idea che l’ego è un’illusione, un’idea della mente.

La religione dei sacrifici

La prima religione dell’umanità è stata quella dei sacrifici. Si pensava che a Dio o agli dei piacessero i sacrifici di animali e talvolta di uomini.
Ai tempi di Gesù, per esempio, i fedeli ebrei si recavano nel Tempio di Gerusalemme, compravano dai mercanti un animale (una colomba, un gallo, una capra, un coniglio, un maiale, ecc.) e lo facevano sgozzare ritualmente dai sacerdoti.
Si credeva che Dio apprezzasse queste vittime perché si trattava in realtà di vite immolate, vite che venivano restituite al loro Padrone. La stessa cosa avveniva nei templi pagani o in quelli dell’Oriente. Anche in India la religione dei brahmani era basata su analoghi sacrifici.
Era uno scambio commerciale: tu, Dio (il Grande Pastore), mi dai qualcosa se io ti dono qualcos’altro a cui tieni tanto e a cui tengo tanto (magari un figlio).
Questo facevano i sacerdoti per conto terzi. Tant’è vero che le parole sacro, sacrificio e sacerdote hanno la stessa etimologia.
Naturalmente, i beneficiari finali delle carni sacrificate erano gli stessi sacerdoti, che così si nutrivano e le rivendevano. Questo spiega, tra l’altro, la facilità con cui i sacerdoti si appropriano, ancora oggi, delle offerte dei fedeli.
A poco a poco, con l’evoluzione dell’economia, ci si rese conto che gli animali potevano essere sostituiti da denaro e altre ricchezze, perché queste erano diventate le cose più care agli uomini. E così chi era più ricco e poteva fare grandi offerte a Dio, era convinto di poter ottenere grandi grazie dal Signore. Non a caso, nei Vangeli, Dio viene paragonato ad un banchiere; e non a caso la religione prevalente, oggi, è quella delle banche. Siamo passati dai sacrifici di animali ai sacrifici dei patrimoni. E le Chiese, in nome del Dio Banchiere, hanno accumulato sempre più ricchezze.
Insomma è cambiato poco. Chi chiede un favore a Dio, pensa di dovergli sacrificare qualcosa di prezioso. E chi sacrifica qualche piacere, magari la propria felicità o qualcosa cui tiene tanto, pensa ancora di fare uno scambio commerciale.
A dir la verità, Gesù e altri profeti (per esempio, Osea) cercarono di far capire che Dio non gradiva tanto i sacrifici quanto le opere di carità e di misericordia. Ma da quell’orecchio gli uomini ci sentivano poco e, in ogni caso, si trattava ancora di sacrifici di denaro o di tempo.

Disdetta suprema è che nella messa quotidiana dei cristiani si ripete ancora oggi che il Cristo si è sacrificato o è stato sacrificato per la remissione dei peccati di tutti. Gesù, che non voleva una religione dei sacrifici, è diventato la vittima sacrificale per antonomasia.

domenica 21 febbraio 2016

Il caso

Vediamo con stupore la difformità dei destini e non capiamo perché l’uno si ammali e l’altro no, perché l’uno muoia presto e l’altro no.
Se crediamo in un Dio, diciamo che è la sua imperscrutabile volontà. Se non crediamo a nulla, tutto ci appare senza senso e casuale.
Ma il caso non esiste. Se prendo cento palline e le lancio sul pavimento della mia stanza, non posso prevedere dove andranno a finire. Ma, in ogni caso, andranno a finire in certe posizioni in base a rapporti di causa-effetto… in base a come sono state lanciate, a quale velocità, a quale direzione, agli ostacoli che hanno incontrato, a come si sono scontrate, ecc.
Se avessimo una mente superpotente e calcolassimo tutti i rapporti di interdipendenza, potremmo sapere dove andranno. Così è per le nostre vite.
Se, al posto delle cento palline, mettessimo cento o mille esistenze, e avessimo quella supermente, potremmo benissimo prevedere come si evolverebbero.

Il caso esiste solo agli occhi di chi non sa vedere.

Il principio del piacere

Tutti siamo guidati dal principio del piacere, che entro certi limiti è naturale e benefico. Ma, come tutte le cose di questo mondo, è ambivalente.
Fino ad un certo livello è salutare, però da quel punto in poi diventa negativo e controproducente. In effetti, diventa un attaccamento che finisce per provocare il suo contrario.
È un po’ come l’osso del cane, che, una volta spolpato, non sfama più nessuno. Oppure come una spada affilata sui cui è cosparso del miele: per leccare il miele rischiamo di tagliarci la lingua.
Dobbiamo essere così saggi da capire che il piacere è per sua natura effimero, dura poco e lascia ben presto il posto all’insoddisfazione o al dolore.

Un piacere saggiamente gustato fa bene; ma, se si tenta di replicarlo in continuazione o di prolungarlo nel tempo, diventa distruttivo.

sabato 20 febbraio 2016

Lo zero, il vuoto e il nulla

Sappiamo che i numeri che usiamo vengono dai paesi arabi. Ed è stata una fortuna, perché con i numeri romani non saremmo andati lontani.
Ma quello che pochi sanno è che lo zero ebbe origine nel Lontano Oriente, in India e in Cina. Eh sì, perché da quelle parti si era ben compreso che il nulla, lo zero e il vuoto non sono cose da poco e inconsistenti, ma ciò su cui si basa tutto.
I nostri filosofi, poveretti, erano ancora convinti che il vuoto non esistesse e non servisse, appunto, a nulla.
Ma, se lo zero non vale nulla, perché se, lo mettiamo dopo un numero, moltiplica la sua potenza?
Credete che senza il nulla, esisterebbe il tutto?

Quando, in meditazione, si invita a fare il vuoto mentale o a percepire il nulla, non procediamo in senso nichilista, ma cerchiamo la base del tutto.

Ipocrisia papale

Papa Bergoglio dichiara che lui non si immischia nella politica italiana.
Peccato che, sulla questione delle questioni civili, sia in atto una gigantesca interferenza vaticana.

D’accordo, l’hanno fatta i vescovi italiani. Ma, come si sa, in certi casi, il Capo non si sporca le mani e lascia che i lavori sporchi li facciano i suoi scagnozzi.

venerdì 19 febbraio 2016

Il principio di causa ed effetto

Le religioni tradizionali si servono dell’idea di un giudizio ultraterreno per indurre i fedeli ad un comportamento morale.
Ma non tutti credono ad un’altra vita e a una giustizia divina: perché allora dovrebbero comportarsi bene?
In realtà non c’è bisogno dello spauracchio della punizione ultraterrena.
Ciò che conta è che un comportamento corretto dona serenità e tranquillità – due beni che non hanno prezzo in questo mondo.
C’è qualcosa dentro di noi che dà già un giudizio, e, se noi proviamo disarmonia, disagio o senso di colpa, soffriamo di ansia, di paura e di infelicità.
Al di là di quel che crediamo o meno, poiché viviamo in una rete di interdipendenza e di interrelazione, ogni azione ha ripercussioni infinite, su noi stessi e sugli altri. E, se noi ci sentiamo in un certo modo, questo è già l’effetto di tante circostanze.
Ogni cosa, infatti, in un dato momento e in un dato spazio, è sia effetto sia causa. Se ci sarà un’altra vita, questa sarà l’effetto delle nostre azioni. Ma già in questa vita, tutto è effetto di azioni, nostre e altrui.

Data la complessità della rete, non sempre è evidente il rapporto di causa ed effetto; ma per chi sa vedere, per chi allarga gli orizzonti mentali, c’è sempre.

La solitudine mentale

Per iniziare a meditare, dobbiamo avere a nostra disposizione un periodo di silenzio, di calma e di solitudine.
Chi è sempre in compagnia, chi non sta mai solo, chi parla in continuazione, chi è sempre attivo non può neppure incominciare a meditare.
Naturalmente non basta la quiete esterna, ambientale; ma ci vuole anche quella interiore.
Chi ha la mente piena di pensieri e di preoccupazioni, chi è dominato da avidità, possessività e attaccamento, chi ha sempre bisogno di controllare gli altri e se stesso, non può mai avere una vera solitudine interiore e perciò neppure una vera pace.

In senso tecnico, essere soli significa avere una mente libera, sgombra. E, quindi, lo stare in compagnia significa stare in una brutta compagnia, in una compagnia che non dà pace, per esempio in compagnia di pensieri e di impulsi che non danno tregua.
Ma a questo serve la meditazione: a individuare e ad eliminare i principali disturbi mentali.

giovedì 18 febbraio 2016

La ricerca della felicità

Quasi tutti crediamo che, per essere più felici, dobbiamo ottenere più cose: più proprietà, più denaro, più persone, più amori, più piaceri e così via. Ma più moltiplichiamo i desideri e gli attaccamenti, più aumentano le nostre preoccupazioni, le complicazioni della vita, le ansie e le delusioni – e la nostra felicità va a farsi benedire.
La ricerca della felicità, basata su una tale mentalità avida, approda inevitabilmente a una maggior sofferenza. E ben presto possiamo capire che è meglio condurre una vita più semplice e cercare le cose essenziali.
Per invertire questa marcia rovinosa, occorre avere una certa saggezza – la saggezza di capire che cosa conti veramente nell’esistenza. Avere una casa più grande o una macchina più potente ci dà più felicità? Fino ad un certo punto sì, ma da quel punto in poi non aggiunge più nulla e crea altra insoddisfazione.
Esiste un meccanismo perverso in base al quale una ricerca della felicità diretta male produce il suo opposto: l’infelicità.
Ma dobbiamo rendercene conto, dobbiamo sviluppare un minimo di saggezza.
Qui s’instaura un ciclo virtuoso. La saggezza iniziale ci aiuta a capire come certi nostri comportamenti siano sbagliati e il superamento dei comportamenti sbagliati ci porta ad aumentare la saggezza.
Comunque, è chiaro che l’intero processo si fonda su sulla capacità di riflessione e di meditazione, che è il vero strumento decisivo.

Chi segue certi principi etici solo perché gli vengono insegnati da un’etica religiosa o sociale, non è in grado di sviluppare una vera consapevolezza. E chi non sviluppa una consapevolezza basata sulle proprie esperienze e sulla propria saggezza, non può essere felice. Senza contare che le etiche religiose o sociali possono anche insegnare principi sbagliati.

Egocentrismo

Quando raccomandiamo di sviluppare la consapevolezza, non diciamo di diventare eccessivamente coscienti del proprio ego.
In realtà, da un certo punto di vista, invitiamo a dare meno importanza alle nostre vicende personali e ad acquisire una visione più generale. Anche questa è una forma di liberazione. L’io è fondamentale per vivere in questo mondo, ma è anche una condanna, una limitazione, una prigione.
Come sappiamo, per vedere un panorama più vasto, dobbiamo salire in un posto elevato. Da lassù il nostro sguardo può abbracciare tante più cose. Allora anche i nostri problemi personali saranno ridimensionati.

Si tratta di passare da una coscienza individuale a una consapevolezza universale.

Trappole mentali

Ognuno di noi vive immerso in un suo piccolo mondo che si è costruito a poco a poco, fatto non di dati oggettivi, ma di fantasie, ricordi, elucubrazioni, interpretazioni, rimuginii e illusioni.
Questo mondo ce lo portiamo sempre dietro, come se fosse un film che ci giriamo continuamente nella testa.
Può anche darsi che ce l’abbiamo con qualcuno che non esiste più nella realtà, che magari è morto. Ma dentro di noi continua a girare il film su quella persona.
Sono questi film o questi mondi mentali che ci separano dalla realtà e che sono all’origine della persistenza di tanta sofferenza.
È molto difficile uscire da queste trappole, e a volte ci rimaniamo invischiati per tutta la vita.
Si tratta di veri e propri inquinanti mentali, che ci allontanano dal mondo reale.
Ecco perché è così necessario rendercene conto e cercare di fare il vuoto mentale.

L’esercizio del vuoto mentale, in questi casi, è una forma di purificazione, una questione di sopravvivenza e di liberazione.

mercoledì 17 febbraio 2016

Spogliarsi

Per ritrovare l’essere originale, per svelarlo, dobbiamo compiere un’opera di decondizionamento che è un’opera di spoliazione. Prima del corpo: togliamogli i vestiti che lo coprono, la scarpe, gli anelli, le lenti, ecc., fino a renderlo completamente nudo.
Poi della mente: togliamole le idee, i concetti, le nozioni, le fedi, le preferenze, le avversioni, le fantasie, le speranze, i progetti, le abitudini, le convinzioni, le opinioni, ecc.
E infine dell’identità: togliamole l’idea di essere una certa persona, con i suoi legami e le sue relazioni.
Non è vero che, senza tutto questo armamentario, non possiamo vivere. In realtà viviamo, vediamo, pensiamo, percepiamo ed agiamo molto meglio.
Ogni cosa è nuova, fresca, interessante. Non c’è noia, non c’è stagnazione, non c’è ripetizione, non c’è possesso.
Questa esperienza può anche durare un attimo, perché, subito dopo, ritornano le abitudini, le vecchie idee, le vecchie identità, il passato, la storia, la tradizione, ecc.

Ma, intanto, abbiamo avuto un’intuizione di che cosa sia il vero essere.

Tecniche di meditazione

In teoria, per fare meditazione, per riconoscere il proprio sé o la propria natura originaria, non dovrebbe essere necessaria alcuna tecnica.
In pratica, bisogna rimuovere i veli che si sono sovrapposti da molto tempo.
Tu puoi anche vederci bene, ma, se ti entra un granello di sabbia o una pagliuzza, non riesci più a tener aperti gli occhi. Basta un minuscolo granello a bloccare un meccanismo complesso; basta una bolla d’aria a fermare un enorme impianto.
Ecco perché sono necessarie tecniche o procedure per togliere gli ostacoli.

Ciò che si oppone ad una chiara visione è ben poca cosa: ha la consistenza di un’inezia, di un’illusione, di un miraggio, di un gioco di luci e di ombre, ma è sufficiente a distorcere ogni cosa.

Il gioco cosmico

Ma perché dobbiamo praticare e sforzarci per raggiungere quella che è già la nostra natura più profonda?
Perché ad essa si è sovrapposta una specie di seconda natura, fittizia.
Il lavoro consiste dunque nel togliere questo velo, nello svelare.
Ma chi conduce un simile gioco?

Ovviamente l’essere stesso, che si vela e si svela. Fa come certe donne che si vestono lasciando intravvedere qualcosa; si vestono quel tanto da non presentarsi nude, ma anche da non nascondere tutto. E, in effetti, si tratta di un gioco di seduzione = condurre a sé. È il sé che vuole ricondurci a sé.

martedì 16 febbraio 2016

Esterno e interno

Parlando di meditazione, possiamo dare l’impressione di essere degli introversi che non amano e non consigliano l’azione. Non è così.
L’introspezione è necessaria per trovare il proprio centro e il centro di tutto.
Lo scopo, però, della meditazione non è rimanere sempre fermi e concentrati su di sé (l’ego).
Lo scopo è utilizzare la scoperta del proprio centro interiore (il sé) per potere agire con più scioltezza, fluidità, ispirazione, creatività.
Seguiamo il nostro istinto, il nostro ritmo naturale.
Quando abbiamo bisogno di isolarci e raccoglierci, isoliamoci e raccogliamoci. Ma, quando abbiamo bisogno di correre e di saltare, corriamo e saltiamo… con una nuova leggerezza.

La vita è una danza. L’importante è il ritmo, non la fissità.

Temporali dell'anima

Quando arrivano certi stati d’animo (rabbia, disperazione, odio, ecc.) è come l’arrivo di un temporale. Si presenta una forza cui non possiamo resistere, che ci sovrasta e che ci spaventa.
Un gran rumore, uno sbattere di cose, raffiche di vento, scrosci di pioggia, grandine, lampi, tuoni… poi, raggiunto il culmine, il temporale diminuisce d’intensità, si calma e infine se ne va.
Ritorna di nuovo il cielo limpido, il sereno, il silenzio, la pace.
Così sono gli stati d’animo più intensi: sbucano da uno sfondo buio e minaccioso, scoppiano con violenza, producono un gran sconquasso… e poi se ne vanno.
Che cosa rimane?
Di nuovo il silenzio e la calma.
Lo stesso è la vita. Un gran rumore, strepiti, urla, gioie, delusioni, dolori, continue tensioni… e poi tutto se ne va. E che cosa rimane?
Di nuovo il silenzio. Guardate il volto di un morto. Non c’è più la tensione che lo aveva animato. E che cosa rimane? La distensione, il riposo, la pace, il silenzio.
Ma anche da vivi possiamo ritrovare questo silenzio, questa pace. È il nostro sé più profondo, quello che è al di là delle agitazioni dell’esistenza. C’è prima e ci sarà dopo.
È come lo sfondo su cui si svolgono le nostre vicende. Le cose vanno e vengono, gli stati d’animo si avvicendano, tutto cambia.

Ma non lo sfondo, che è silenzio e calma.

L'uomo-Dio

Il mito cristiano di Gesù che è uomo e Dio si applica in realtà a tutti noi.
Siamo uomini perché abbiamo gli istinti, i pregi e i difetti di tutti gli uomini; e siamo anche divini in quanto possiamo essere testimoni consapevoli di tutto ciò che avviene, dentro e fuori di noi.

Quando ci identifichiamo con la nostra individualità, siamo uomini comuni. Quando ci identifichiamo con il testimone consapevole, con il contenitore vuoto e limpido della stessa coscienza, siamo Dio.

lunedì 15 febbraio 2016

Come meditare

Per meditare, osserva il mondo e te stesso come se si trattasse di un film.
C’è un film che appare nella tua mente, ci sei tu che osservi il film e c’è ciò che è testimone di entrambe le cose, ovvero la consapevolezza (o sé o essere) che riposa in un vasto spazio vuoto.
Abituati a vedere queste tre cose: le manifestazioni esteriori, te stesso come persona e mente, e lo spazio in cui appaiono le prime due.

La terza non puoi osservarla, ma soltanto esserla, perché è il Testimone ( e il Proiettore) di tutto.

La follia umana

Che cos’è un pazzo?
Uno che crede per esempio di essere Napoleone. La sua malattia consiste proprio in questo: credere di essere quello che non è e, viceversa, non sapere più chi è.
Ecco, questa è esattamente la malattia mentale dell’umanità. Un problema di identità.

Ritorna in te stesso. E poi trascendi anche questo te stesso.

La nube della non-conoscenza

La pretesa di conoscere Dio senza conoscere se stessi. L’errore di credere di trovarlo un giorno davanti a sé, anziché in sé.
“In sé” significa dentro di te e in ciò che è indipendentemente da te. È l’ “in sé.”
Tutto ciò che credi di sapere di Dio, stai sicuro che non è Dio.
Devi dunque negare la tua presunta conoscenza, metterla – come dice un testo mistico inglese del 14° secolo – sotto una nube di non-conoscenza.

Devi rifiutare anche ciò che credi di credere. E avventurarti, così nudo, sulla via dell’ “in sé”, dell’essere.

Il luogo dell'essere

La verità non è un concetto. Per questo non può essere espressa a parole.
È più simile a un luogo. Ecco perché si parla di via.
Ci si incammina su una via per raggiungere un luogo. Ma quest’ultimo non è un luogo fisico. Dove si trova allora? Non certo nelle chiese, nei templi, nelle teologie o nelle scritture sacre.
Si trova nel nucleo più profondo del tuo essere.

E per “raggiungerlo”, devi stare in silenzio e guardarti dentro.

I cristiani nemici di Gesù

La Regione Lombardia, governata dai leghisti di Maroni e Salvini, ha escluso dal bonus bebè le famiglie che hanno adottato i figli. Perché mai? E, naturalmente, farà di tutto per boicottare le unioni di fatto, le unioni omosessuali e le adozioni di questi ultimi.
Forse per un altro rigurgito di quel cattolicesimo materialista che vuole solo legami di sangue e che adora i cadaveri di santi ricostruiti con il silicone?
Ma il messaggio di Gesù non era esattamente il contrario? Non i legami di sangue, ma i legami basati sull’amore.

Non era Gesù che diceva: “Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?” a indicare che ciò che conta sono i legami spirituali e non quelli materiali?

domenica 14 febbraio 2016

Conoscere Dio

Non puoi presentarti a Dio con il tuo ego e con i tuoi pensieri. Non puoi “conoscerlo” in questo modo: avresti il pensiero di Dio e Dio sarebbe per te un concetto, un oggetto.
Devi dismettere la testa o non lo incontrerai mai.
Non puoi “conoscere” Dio – puoi solo esserlo!

Come diceva Wallace Stevens, “Dio è in me, oppure non c’è proprio nulla.”

L'apprendista stregone

Come ci spiegano i fisici, se la nascita del cosmo fosse stata perfetta e tutto avesse funzionato a dovere, sarebbe durata solo una frazione di secondo e noi non saremmo qui a parlarne. Ma, poiché nei momenti iniziali si sono rotte alcune simmetrie, si è potuto sviluppare questo tipo di universo, con le nostre vite.
Dunque, neppure a Dio tutte le ciambelle riescono col buco, neppure Dio è perfetto e qualcosa gli va storto.

Non è vero, come sosteneva Goethe, che la regola del cielo sia la perfezione. Anche Dio ha i suoi errori, le sue defaillances.

Il coinvolgimento

La differenza tra uno che ha raggiunto la comprensione e uno che brancola ancora nel buio e nella confusione è che il primo è sempre consapevole di ciò che è, nel bene e nel male, anche quando è coinvolto, mentre il secondo è sempre coinvolto senza rendersene conto.

Il teatrino dell'ego

Per capire la realtà, dobbiamo smontare il modo in cui ci raccontiamo le storie e, prima di tutte, quella della nostra messinscena come individui.

Un esercito eroico

L’umanità è come un esercito che finora ha perso tutte le sue battaglie, ma che non si arrende. Benché ogni volta i suoi combattenti perdano la vita, va avanti a combattere. Eroismo o stupidità?
Ma qual è lo scopo di questa guerra? Non vincere la morte, come sosteneva san Paolo, ma controllare il passaggio da una vita all’altra. Come quello di una pupa che si trasforma in una farfalla.

Trasbordare l’esercito da un mondo all’altro, anziché subire ogni volta una disfatta rovinosa.

Il Dio della debolezza

A proposito della scoperta delle onde gravitazionali, l’astrofisico Giovanni Bignami scrive che “l’affascinante paradosso dell’Universo è che è tenuto insieme, anzi dominato, dalla forza più debole che ci sia, la gravità” (La Repubblica 12-02-2016).
Ma non è un paradosso: siamo noi che abbiamo identificato Dio nel potere, tanto da chiamarlo l’Onnipotente.
L’introspezione non rivela niente di questa smargiassata mentale. Andando a ritroso verso l’Origine, si trova una Forza talmente debole che basta un pensiero o un fremito di foglie ad occultarla.

Lao-tzu, che aveva capito in anticipo tutto questo, paragonava il Tao all’acqua, che non ha forma, è molle e debole, allo spirito della valle, ad un principio femminile che sta in basso ed è umile, ma che, all’occasione, è capace di abbattere qualsiasi ponte.

sabato 13 febbraio 2016

Il non-coinvolgimento

Non si tratta di staccarsi dalla vita, di rinunciare a vivere. La vita è un bene prezioso.
Si tratta, però, di vivere sempre consapevoli che si tratta di un’illusione.

Si tratta di assumere continuamente la posizione del Testimone, che osserva tutto senza esserne influenzato, senza farsi coinvolgere, in pace.

IL prezzo del dualismo

Quanto più siamo dentro la vita, completamente identificati con essa, attaccati all’io, tanto più soffriamo e gioiamo. Proprio perché cerchiamo il piacere e la felicità, sperimentiamo la sofferenza.

Quando la sofferenza è più acuta e ci toglie la gioia di vivere, allora può essere usata come la spinta necessaria per uscire dall’orbita terrestre e lanciarci nel vuoto, nel silenzio, nel distacco e nella pace.

Trovare la via

La via è spostare l’attenzione dall’esperienza della vita – incentrata sull’io, sui desideri e sulla dinamica dualistica – alla sorgente di tutto ciò, il sé, il Testimone.
Questo stato sembra inconoscibile. Ma ha alcune caratteristiche che sono altrettanti indizi: il silenzio, la calma, la consapevolezza, il distacco, la fermezza, la limpidezza.
Quando siamo toccati da simili sensazioni, siamo sulla strada giusta.

Ma il sé è Dio?
In un certo senso. È il Dio che si è messo in gioco nel mondo.
Non è però il Dio che se ne sta lassù. Ma un Dio che è dentro di noi, che siamo noi. “Tu sei quello!”

Come diceva san Giovanni della Croce, Dio non è che il punto più profondo dell’anima, della nostra anima.

Un altro mondo

Al colmo dell’ottimismo, sogniamo, dopo la morte, un’altra vita, un altro mondo.

Non ci rendiamo conto che avrebbe comunque forme e confini. E che sarebbe ancora un’illusione.

Il gioco illusionistico

Diamo talvolta l’impressione che meditare sia una questione di postura, di respirazione, di concentrazione o uno smettere di pensare. In realtà, si tratta di uno spostamento dell’attenzione.
In questo momento siamo tutti presi dalla nostra esperienza nel mondo.
Ma dobbiamo fare un passo indietro, verso il Testimone di questa attività. E non una sola volta, ma in continuazione.
È come se fossimo al cinema, immersi nello spettacolo e, ad un certo punto, spostassimo lo sguardo dallo schermo alla sala, al fascio di luce, alla platea, al proiettore, al proiezionista e all’intero gioco illusionistico che sta avvenendo e a cui partecipiamo.

Quando diventiamo consapevoli del gioco, l’illusione scompare e rimane la realtà.

Le interferenze dei vescovi

Cambiano i Papi, ma le interferenze della Chiesa sulla politica italiana non cambiano mai, anzi si intensificano.
Ormai, i vescovi non solo ci dicono che cosa il Parlamento italiano dovrebbe votare, ma anche come dovrebbe votare - per esempio col voto segreto, in modo che i clericali di ogni partito possano tradire nell’ombra lo Stato italiano per seguire le direttive dello Stato del Vaticano.
Una Chiesa che ha sempre protetto i preti pedofili, una Chiesa in cui ogni giorno si scoprono preti, vescovi e cardinali che sfruttano le offerte per far denaro personalmente e per darsi alla bella vita, una Chiesa che propone all’adorazione delle folle santi imbalsamati col silicone, questa Chiesa vorrebbe insegnarci che cosa è bene e che cosa è male, vorrebbe ergersi a maestra di moralità.
Nel film Il caso Spotlight, si racconta come negli Stati Uniti per decenni molti sacerdoti compirono abusi sessuali e “spirituali” su minori, all’interno di un sistema di pedofilia seriale.
Fu l’arcivescovo Bernard Francis Law a insabbiare le inchieste su più di 70 sacerdoti pedofili. Alla fine si dimise. Ma dove finì?
A Roma, arciprete dal 2004 al 2011 della Basilica di Santa Maria Maggiore.
Come sappiamo, questi casi di pedofilia si ripeterono uguali in vari paesi del mondo, a riprova che non si trattava di qualche mela marcia, ma di un sistema protetto e ben consolidato.

E, quanto ai preti che si appropriano dei beni dati in beneficenza, basta leggere le cronache di questi giorni. C’è solo l’imbarazzo della scelta.

venerdì 12 febbraio 2016

La natura della verità.

La verità non è cristiana, musulmana, induista, ebraica o buddhista.
La verità è al di fuori delle nostre ideologie, dei nostri schemi mentali. Altrimenti, sarebbe un’interpretazione.
La verità è.

Non dobbiamo compiere sforzi per trovarla.
Non appena facciamo uno sforzo, ce ne allontaniamo consolidando la mente interprete.


La verità non è un concetto. È uno stato dell’essere, un assetto che dobbiamo trovare.

Cercare la verità

Cerchiamo la verità?
Ma se lo siamo già!
Siamo come il tizio che cerca gli occhiali che ha già sul naso.

Siamo confusi, siamo smemorati.
Cerchiamo di ricordare!

La ricerca del sé

Crediamo di dover andare chissà dove e di trovare chissà che cosa per cercare la verità, Dio, l’illuminazione o il sé.
In realtà siamo sempre stati qui, come testimoni di ultima istanza.

Occorre dunque fare un passo indietro, volgerci a ciò che viene sempre prima, fino ad esserlo, fino a perdere la vecchia identificazione con l’ego e a trovare la nuova e antica identità.

giovedì 11 febbraio 2016

La gabbia e la libertà

Non siamo abituati alla libertà. Siamo come cani senza padrone. Assomigliamo a quel pappagallo cui il padrone aveva insegnato a ripetere: “Voglio essere libero! Voglio essere libero!”
Un giorno qualcuno, passando da lì e sentendo quella frase, pensò di esaudire il desiderio del pappagallo e gli aprì la gabbia.
Ma il pappagallo era così intento a gridare: “Voglio essere libero! Voglio essere libero!” che non si accorse che lo sportello della gabbia era aperto.

O forse se ne era accorto, ma si era così assuefatto a stare in prigione che non ebbe il coraggio di volare via.

La dimensione del silenzio

Dobbiamo essere distaccati, calmi, privi di tensione, trasparenti… per permettere al silenzio di manifestarsi.
Dobbiamo esercitare un’attenzione delicata, non reattiva, non giudicante, per consentire al suono del silenzio di venire in primo piano.

Questo suono, questa dimensione, è quella del sé.

Ritrovare il sé

Ognuno di noi si sente di essere un individuo, una determinata persona, e questa “sensazione” fondamentale occupa l’intera scena della nostra coscienza – portando spesso con sé un senso di sofferenza o di disagio. I confini dell’io, infatti, sono contrassegnati per lo più da malessere. In sostanza, siamo tanto più coscienti di essere quanto più ci sentiamo male o anche solo tesi. Essere è spesso mal-essere.
Ora proviamo a fare un passo indietro – cerchiamo cioè di renderci conto di questa sensazione di essere. Come ci sentiamo? Qual è la sensazione che ci domina?
E qual è la mente che ne è consapevole? Nel far questo, ci spostiamo in una spazialità più vasta e più profonda.
È come passare dalla visione di un film alla visione del proiettore.
Questo significa fare un passo indietro dalla visione dell’io alla visione del sé.
Il sé è colui che osserva, il testimone. E, a differenza dell’io, è distaccato dalle sensazioni che questo ultimo prova.
Eseguiamo questo esercizio di spostamento varie volte nel corso della giornata, in modo da essere consapevoli di come ci “sentiamo essere”, del nostro stato d’animo di base.

Lo scopo è posizionarci in una condizione di calma e di trasparenza. Mentre l’io è sempre coinvolto, e prova sentimenti che vanno dal piacere alla sofferenza, la nuova posizione ci permette di guardare questi sentimenti con distacco, come se appartenessero ad un film che viviamo ma che è solo una rappresentazione, un’illusione, un sogno, uno spettacolo illusionistico.

mercoledì 10 febbraio 2016

Trasparenza

Quando parliamo tutto il giorno, è poi difficile trovare lo spazio per restare in silenzio.
Quando pensiamo tutto il giorno, è poi difficile andare al di là del pensiero, verso la quiete mentale.

Per la mente umana, è impossibile concepire una vera trasparenza. C’è sempre una cortina opaca che le si frappone nei confronti della realtà.

Religione e liberazione

Noi cerchiamo la libertà, la spontaneità, non l’autorità.
Come possiamo liberarci se accettiamo dogmi, credenze, fedi o religioni?
La religione, come indica la sua etimologia (res – ligare), è qualcosa che ti lega, non qualcosa che ti libera.
C’è una religione che ti lega e una che ti libera.

Ma, se parti da una religione della tradizione, parti condizionato.

La natura originale

Non puoi pretendere che la tua natura originale abbia una condizione oggettiva. Neanche fosse un oggetto.
Già devi escludere la soggettività, perché non è una persona.
Non c’è nessuno che faccia piani e decida. Tutto accade spontaneamente.
Essendo la natura originale, fa tutto naturalmente, senza premeditazione. È libertà e spontaneità.
All’origine non c’è un pianificatore incallito.
C’è trasparenza, presenza, silenzio, fluida leggerezza e creatività.

Per la mente, è vuoto. Ma per sé è espressione di sé.