lunedì 29 febbraio 2016

L'equanimità

Per un istinto atavico, siamo abituati ad inseguire ogni esperienza piacevole cercando di prolungarla e siamo abituati a rifuggire ogni esperienza spiacevole cercando di abbreviarla il più possibile. Anche in meditazione seguiamo, all’inizio, questo principio.
Ma noi vogliamo trascendere la comune natura umana. E quindi esaminiamo le varie esperienze come se non ci appartenessero, come se scorressero su uno schermo che non siamo noi.
Le vediamo comparire (motivate da tanti fattori), perdurare per un po’ e poi sparire.
Osserviamo questo campo di battaglia della nostra mente-schermo lasciando perdere sia il desiderio di acquisire esperienze piacevoli sia il desiderio di evitare quelle spiacevoli.
Anzi, giungiamo al punto da non preferire le une alle altre. Attrazione e avversione, infatti, sono solo i due aspetti della brama fondamentale: desiderare le cose piacevoli e desiderare di allontanare le cose spiacevoli.
In meditazione, il nostro scopo è lasciar andare l’intero meccanismo reattivo, l’intero meccanismo del desiderio. Abbiamo scoperto che piacevolezza e spiacevolezza sono le due facce di una stessa medaglia. Sono due estremi complementari: non puoi avere l’uno senza avere l’altro. Perciò, o ti becchi l’inevitabile alternanza o lasci andare l’intero funzionamento del desiderio.
Questo stato di non-coinvolgimento, di non-preferenza, è l’equanimità.
Nello stato di equanimità non vogliamo più che le cose siano diverse da come sono e trattiamo le esperienze piacevoli come le esperienze spiacevoli. Non siamo più scossi da avidità, attaccamento, avversione, amore e illusione. Scompaiono le paure, le preoccupazioni e le tensioni.

Troviamo la pace (non più umana, non più duale) della trascendenza.

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