giovedì 31 dicembre 2015

Il doppio volto del desiderio

Quando siamo dominati da desideri di avidità, di fama, di potere e di ricchezze, siamo in preda all’insoddisfazione e all’angoscia. Infatti, più forti sono i nostri desideri, più intensa è la nostra sofferenza.
Molto meglio avere piccoli desideri che possano essere soddisfatti.
Il buddhismo e altre tradizioni spirituali insegnano che, per uscire dalla sofferenza e dall’angoscia, è necessario uscire dalla morsa dei desideri smodati e contemplare il “momento della soddisfazione,” ossia apprezzare ciò che già abbiamo, le cose semplici ma essenziali, come il cibo, la salute, ecc.
Chi infatti non sa essere soddisfatto, sarebbe infelice anche se fosse ricco e potente.
Ma qui c’è un paradosso. Se infatti non fossimo insoddisfatti, non saremmo spinti a liberarci.

Tutto è desiderio, anche la volontà di illuminazione. Però si noti bene: la liberazione non è un desiderio egoico di fama, potere e ricchezza, ma esattamente il contrario – il disfarsi dei limiti e delle aspirazioni dell’ego.

Punti di vista: l'egocentrismo

Tutti, purtroppo, vediamo le cose dal nostro limitato e soggettivo punto di vista. Quindi, tutti sbagliamo. Questo è un dato di fatto.
Ma il problema è esserne consapevoli. Come scriveva George Eliot, "è limitata la mente che non riesce a guardare qualcosa da diversi punti di vista."
La maggior parte degli uomini non ne è consapevole e crede di vedere le cose da un punto di vista giusto. Niente di più sbagliato.
È l’egocentrismo che ci inganna. Crediamo che il nostro punto di vista sia obiettivo. Ma non può esserlo.
Innanzitutto, il nostro ego è a sua volta un’opinione, un’immagine, un fantasma, una specie di mappa generata dalla mente. E noi sappiamo che una mappa non è mai il territorio, ma una sua rappresentazione artificiale.
È per questo che, quando ci domandiamo chi siamo, non sappiamo rispondere o diamo risposte stereotipate e insoddisfacenti. Ciò che siamo veramente ci sfugge.
Crediamo che il nostro ego sia un’entità separata  e autosufficiente, mentre è esattamente il contrario: è un prodotto di una lunga evoluzione e di un’immensa rete.
Se perciò vogliamo vedere chiaramente, dobbiamo addestrarci a lasciar cadere l’ego con il suo punto di vista soggettivo.

Come diceva Dogen, studiare la via del Buddha è studiare il sé. Ma, per studiare il sé, dobbiamo lasciar cadere l’ego.

mercoledì 30 dicembre 2015

Meditare sull'interdipendenza

Non c’è soggetto senza oggetto, e viceversa. I due sono complementari e quindi interdipendenti. Se non c’è l’uno, non c’è nemmeno l’altro; se c’è l’uno, c’è anche l’altro. Vanno sempre insieme.
Ma c’è un altro aspetto dell’interdipendenza. Se prendiamo un qualunque oggetto, per esempio un tavolo, dobbiamo pensare che esiste perché è esistito un albero, un boscaiolo che lo ha tagliato, un falegname, la colla, le viti, la vernice, tutti gli operai e artigiani che hanno lavorato… tutti gli elementi della natura che lo compongono (pioggia, minerali, il sole…), e poi i venditori, gli acquirenti, i trasportatori… insomma non si finisce più.
In questo modo ci si rende conto che ogni ente non è isolato o isolabile dal contesto generale, ma è possibile proprio perché ne è una parte.
Questo vale anche per ogni essere umano: pensiamo ai prodotti, ai genitori e alle cure che sono state necessarie per generarlo e farlo crescere.
Ogni ente esiste perché esistono tanti altri enti, anzi tutti gli enti, compresi la terra, il sole, la galassia e l’intero cosmo.
È così che si medita sull’interdipendenza. Ed è così che si trova il proprio ruolo che, per quanto piccolo e insignificante possa sembrare, è invece determinante nell’economia del tutto.
Uno è tutto. Tutto è uno.
Finché non si realizza questa verità, si rimane confinati nel proprio io particolare e sfugge la visione illuminata dell’insieme.
Non domandarti che cosa ci stai a fare.
Anche se vali poco, anche se non sai fare quasi niente, anche se ti senti un incapace, tu sei un compendio del tutto, tu puntelli il tutto, tu sei tutto. Ti pare poco? Forse non sei un genio, ma il genio esiste anche perché esisti tu.

Devi esserne pienamente consapevole, non per gonfiarti di orgoglio, ma per capire l’unità del tutto.

martedì 29 dicembre 2015

La postura meditativa

Quando parliamo di meditazione, ci sembra che si tratti essenzialmente di un’operazione della mente. Ma la mente non sorge dal nulla: è in stretta connessione con il corpo. Tant’è vero che qualunque problema del corpo si riflette sulla mente, e viceversa.
Se abbiamo una forte preoccupazione, è probabile che a lungo andare il corpo ne risenta e dia luogo a disturbi, tensioni o contrazioni. Ma è anche vero il contrario: se il corpo è disteso e rilassato, anche la mente ne sarà influenzata beneficamente.
Dato che noi tendiamo a rilassare e a svuotare il più possibile la mente, lo stato e la postura del corpo hanno una loro importanza. Ecco perché, in meditazione, si parte da un controllo del corpo. La postura deve essere comoda ed equilibrata.
Non ci dimentichiamo che sul corpo pesa la forza di gravità. Se teniamo una postura curva o sbilanciata da una parte, ben presto proveremo un dolore e un senso di disagio – che si ripercuoterà anche sulla mente.
Se il corpo non è ben equilibrato, se la colonna vertebrale non è ben allineata, qualche muscolo o qualche organo sarà teso e rigido. Ma lo stesso avviene se siamo dominati da forti desideri, da avversioni o da paure: avremo come risultato tensioni muscolari.
Poiché noi siamo esseri psico-somatici, dobbiamo curare entrambi gli aspetti della nostra unità: il lato fisico e il lato mentale.
Qualunque sia la posizione prescelta (seduta a gambe incrociate, seduta con una gamba davanti all’altra, seduta su una sedia, in ginocchio, in piedi, sdraiata, ecc.), deve essere ben equilibrata. Inoltre, anche lo stato fisico generale del corpo è importante: non a caso, negli Yogasutra di Patanjali si dice che lo yoga non va bene né per chi mangia troppo né per chi mangia troppo poco.
In meditazione, curiamo insomma la postura e lo stato generale del corpo per curare lo stato della mente, e curiamo lo stato della mente per curare lo stato del corpo.

La legge generale è che ogni tensione del corpo genera inevitabilmente una tensione della mente e ogni tensione della mente (voler acquisire, avversare, temere, ecc.) genera una tensione del corpo.

lunedì 28 dicembre 2015

La dimora del silenzio

In fondo, meditare è imparare a stare in silenzio, dove per “silenzio” non si intende l’assenza di rumori esterni, ma l’assenza di rumori “mentali”.
Il rumore mentale è quello che viene prodotto dai nostri incessanti pensieri, dai nostri atti di volizione, dalle nostre intenzioni esplicite o implicite. È come se avessimo la testa invasa da mosconi di vario tipo che vanno avanti e indietro, cozzano l’uno contro l’altro e ronzano, ronzano, ronzano…
C’è silenzio quando c’è assenza di preoccupazioni, di paure, di ansie, di speranze, di ricordi, di rimuginazioni, di fantasie, di calcoli, di previsioni, di ragionamenti, ecc.
Stiamo seduti semplicemente in silenzio.
La cosa che fa più rumore è l’io che non può stare un attimo quieto, perché il silenzio lo renderebbe inutile. Il senso dell’io e del mio è come un attore che deve sempre stare sul palcoscenico a recitare qualche parte, perché, in caso contrario, si sentirebbe superfluo e come morto.
Ecco perché l’io assimila la paura del silenzio alla paura della morte.
Ma la sua morte, il suo “silenziamento”, non è affatto la morte. È la pace, la quiete, la calma, l’origine.
Silenzio significa raggiungere uno stato di calma e di tranquillità – cosa non facile dato che noi tendiamo sempre ad essere, a fare e a pensare qualcosa.
Entrare nel silenzio significa lasciar andare ogni intenzione e abbandonarsi alla saggezza e alla spontaneità del tutto.
Riuscire a stare in silenzio ci rende più sensibili e più profondi.

Silenzio è non-mente, e non-mente è veder chiaro.

Fare il vuoto mentale

Il vuoto mentale non serve a non pensare a niente, a diventare più ottusi. Ma a vedere più chiaro. Infatti, è quando non abbiamo più nessuna idea preconcetta che vediamo meglio le cose e noi stessi.
Le idee preconcette ci fanno vedere sempre le stesse cose o sempre lo stesso lato delle cose. Se per un momento ce le dimentichiamo, all’improvviso possiamo vedere lati o cose nuove.

Abituarsi a fare il vuoto mentale, ci rende più sensibili e più creativi, ci fa scoprire il lato nascosto del mondo.

domenica 27 dicembre 2015

Pensare Dio

In realtà di Dio possiamo pensare quello che vogliamo: che ci sia o che non ci sia… Non esistono al mondo metodi scientifici di accertamento in un senso o nell’altro.
Ma la cosa che possiamo verificare fin d’ora è il modo in cui lo pensiamo. Bontà, perfezione, amore, potere, giustizia…? Padre, madre…? Pace, sicurezza…? Silenzio, verbo…? O i loro contrari?
È chiaro che si tratta di concetti umani. E il modo in cui pensiamo e/o sentiamo Dio ci dice qualcosa di preciso non di Dio, ma dei nostri bisogni, delle nostre priorità, dei nostri punti deboli e punti forti… insomma di noi stessi.

Pensare Dio non è mai sperimentare Dio, ma sperimentare noi stessi.

Liberazioni naturali

Inspirazione → espirazione → liberazione…
In ogni ciclo di questo genere c’è una piccola possibilità di lasciar andare.

Quante volte al giorno?

Cerchi e circonferenze

Non siamo semplici centri, punti isolati nello spazio. Siamo come i corpi celesti nell’universo, dove ognuno influenza gli altri ed è influenzato dagli altri.
Siamo contesti più ampi di un semplice “io”, siamo dei “noi”.

Siamo circonferenze i cui margini più esterni, sempre mobili, vanno ad intersecare altre circonferenze.

La farsa del potere

Dire che questa è la società dello spettacolo è notare un dato di fatto. Tutti i leader, dai politici al Papa, stanno ogni giorno in televisione a ballare e cantare e a raccontarci balle.
Che il potere sia semplice rappresentazione, gesto e parola è più che evidente, ed è un’antica faccenda, una quasi nobile pagliacciata. Chi comanda, forse, non si rende conto dello spettacolo velleitario e penoso che offre a chi non cede alla propaganda e guarda queste scene come parte di una carnevalata. I potenti si riuniscono in vertici, prendono decisioni e soprattutto parlano parlano…
È sempre stato così. E non cambia mai niente: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri. E che ne è dei provvedimenti contro l’innalzamento delle temperature? Enzo Bianchi, priore di Bose, dice che tutti i governi sono inginocchiati al mercato. Sì, anche la Chiesa.
Però il problema è che oggi, come scrive “Critica liberale”, questa non è più la società dello spettacolo, ma dell’avanspettacolo.

Siamo cioè precipitati da una rappresentazione fittizia ad un’esibizione farsesca, che non solo non aiuta nessuno, ma, non decidendo nulla di significativo, fa danni.

sabato 26 dicembre 2015

La meditazione informale

Molti dicono che non riescono a trovare il tempo per meditare. Ma si tratta di un equivoco: l’idea che la meditazione sia un’attività separata dalla vita quotidiana.
Per essere consapevoli non c’è bisogno di un tempo specifico, così come non c’è bisogno di un tempo specifico per respirare.
Se respirate, avete con voi lo strumento fondamentale e il tempo.
Se respirate, se vivete, avete con voi tutto ciò che vi serve per meditare.
Se un periodo di tempo dedicato può essere utile per marcare la differenza tra le due attività e i due tempi, ad un certo punto la pratica coincide con la vita.
Se poi volete dire che non avete tempo per essere consapevoli, be’ allora la cosa è grave. Dato che questo è il vostro scopo nella vita.
Come dire che non avete tempo per vivere.
Se vivete, dovete aver tempo per essere consapevoli, perché questo è il vostro mestiere di uomini.

Qualunque momento è un buon momento. E, se avete tanto da fare, se siete agitati, se siete tesi, se state correndo, se siete senza fiato, se siete distrutti, questo è il momento perfetto.

venerdì 25 dicembre 2015

L'usurpatore

Io respiro, io sento, io penso… così crediamo.
Ma osserviamo per esempio il respiro: siamo noi che respiriamo o c’è una respirazione di cui noi ci illudiamo di essere i soggetti?
D’accordo, possiamo trattenere per un po’ il respiro o farlo accelerare, ma poi il respiro va da solo, senza la nostra volontà.
Lo stesso vale per le sensazioni e i pensieri. Sono io che sento? Sono io che penso?
Siamo noi che agiamo o siamo agiti dall’insieme di ciò che ci circonda?
La verità è che i respiri, le sensazioni e i pensieri si producono da soli in un campo cui partecipano vari attori.
D’accordo, possiamo cercare di sentire o di pensare qualcosa di particolare, ma poi le sensazioni e i pensieri si susseguiranno autonomamente, senza la nostra volontà. Noi ci limitiamo a subirli, ad etichettarli e ad illuderci di esserne i padroni.
In realtà non siamo i soggetti di tutte queste attività. Tutt’al più ne siamo gli oggetti, gli strumenti, i destinatari, i testimoni.
Per la maggior parte del tempo e delle esperienze non siamo noi i soggetti.
E chi sono i veri soggetti? Sono tanti, non un io. Sono tanti processi che s’intrecciano.

Ma l’io è un usurpatore, uno che si crede illusoriamente un autore, mentre è solo un attore, uno dei tanti.

La visione profonda

In meditazione, i problemi non vengono risolti, ma dissolti. Anche perché sono impostati in maniera sbagliata.
La loro comprensione intellettuale non può andare oltre certi limiti, dovuti al linguaggio di cui disponiamo. Ci vuole qualcosa di più: una penetrazione profonda, che non utilizzi categorie mentali duali.
Questa visione profonda, questo assumere in sé, è ciò che chiamiamo “pratica meditativa.”
In fondo, il fatto di isolarsi, di staccarsi dalla quotidianità, di sedere in silenzio e di sospendere tutte le più comuni attività e anche la attività mentali, ha questo scopo: permettere di entrare in comunicazione profonda e intima con il problema stesso.
Non pensare al problema, ma viverlo dal di dentro.
Alla fine, il problema sarà sparito.

Nella quiete e nella calma interiore, non c’è più nessun io… con tutti i suoi problemi.

giovedì 24 dicembre 2015

La società dello spreco

Tutti vedono come si è ridotta quella che dovrebbe essere una festa religiosa, dal sapore pauperistico. È diventata la festa dei commercianti, dei negozi, della cucina prelibata e delle mangiate. E, siccome per far questo, è necessario muoversi e andare a comprare, ecco che è diventata la festa dell’inquinamento.
Noi non sappiamo più che cosa sia la sobrietà, la semplicità, l’essenzialità.

Il messaggio di Gesù, privo di una pratica di disinquinamento mentale, non poteva che contribuire a produrre altri veleni, altri inquinamenti.

Moksha: la liberazione

Fateci caso: la gioia viene sempre dalla liberazione da qualcosa – da qualcosa che ci restringe, ci limita e ci opprime. Anche in campo spirituale.
E la sofferenza viene sempre dall’essere costretti, prigionieri, obbligati, schiavi.
Chi è più felice dell’uomo che esce da una prigione?
Ora, il corpo, la mente e il senso dell’io ci permettono di esistere per qualche decennio, ma, nello stesso tempo, ci confinano in limiti ben precisi. Non possiamo essere altro, non possiamo davvero scegliere chi essere. Siamo in prigione.
Eppure abbiamo paura che tutto questo finisca, proprio come il prigioniero che teme il mondo libero, il mondo che sta al di là delle mura che lo chiudono.
Ma che cosa rimane? ci domandiamo angosciati.
Che cosa dovrebbe rimanere? Una identità sola, un nucleo solido di senso dell’io?
Non era proprio questo il peso, l’origine di ogni sofferenza?
Comunque vada, saremo liberi… se non ci saremo troppo attaccati a questa provvisoria identità.


Anatta

Parlare di anatta (non-sé) è quasi impossibile. Tutti sentono di essere presenti e vivi, e di essere un io preciso. Non accettano l’idea che questo sé in realtà non esista.
Eppure, non c’è niente nella nostra esperienza che sia fisso, immobile e stabile. Tutto cambia, perfino l’Universo –figuriamoci un essere umano. Durerà qualche decina di anni e poi scomparirà. Ma, finché dura, noi pensiamo, è reale.
Ed è reale, più o meno come tutto – come un sogno o una fantasia. Ma, proprio come un sogno o una fantasia, in che cosa consiste veramente? Una serie di impulsi elettromagnetici? Una serie di formazioni mentali? Una serie di nascite e di morti?
A parte il corpo, che finirà in polvere, c’è ben poco per dire che questo io sia consistente, abbia un nucleo solido.
Sembra un notizia ferale per chi ambisce ad esistere in eterno, ad avere un’anima immortale.
Ma, a pensarci bene, è una grande liberazione. Non abbiamo niente di cui sopportare il peso, niente di cui essere responsabili, niente da difendere, niente da mantenere. Siamo liberi come il vento.
La buona novella è questa: siamo liberi, non siamo legati né a un corpo né a una mente né ad un io preciso. Per il momento abbiamo questi abiti. Ma alla fine ce ne libereremo e ne indosseremo degli altri.
Ma, certo, meglio ancora sarebbe lasciar cadere ogni vestito, ogni falsa identità, e liberarsi di ogni abito.
Uomini liberi, uomini nudi.


mercoledì 23 dicembre 2015

Il protocollo meditativo

In un buon percorso meditativo ci dovrebbero essere determinate fasi. La prima è la ricerca di uno stato di tranquillità: samadhi o shamata. Di solito ci si arriva concentrandosi sul respiro e in genere sul corpo.
Si registra lo stato fisico-emozionale: agitato, nervoso, reattivo, rabbioso, pauroso, ecc., cercando di rilassare i punti e gli organi del corpo che appaiono tesi. Calmando il respiro, si cerca di distendere questi punti.
Tranquillità, calma, distensione sono i fondamenti della pratica, prima a livello fisico e poi psichico. Uno dei metodi più usati per ottenere il rilassamento è seguire il respiro, in modo da osservarne le caratteristiche (lungo, corto, affrettato, lento, veloce, agitato, ecc.) e riportandolo ad uno stato di pace. Naturalmente esistono vari altri metodi, che devono essere scelti in base alle preferenze individuali. Ciò che conta è che l’organismo fisico sia del tutto calmo e distaccato.
Dobbiamo arrivare al punto in cui ci sia solo la respirazione, ma non un soggetto che respira.
Si possono anche seguire lezioni registrate che ci aiutino a rilassarci. Per esempio, https://www.youtube.com/watch?v=Fx4qxH6NiVQ .
La seconda fase consiste nel portare alla calma anche le sensazioni, i pensieri e in genere tutti gli stati mentali. A questo scopo occorre sviluppare l’osservazione di ciò che ci passa nella mente e considerarlo quasi staccato da noi. I pensieri, le sensazioni e le formazioni mentali transitano in un flusso continuo su cui abbiamo uno scarso controllo. Ma la cosa importante non è tanto interromperle ed arrestarle quanto prenderne le distanze. In altri termini, non dobbiamo identificarci con tutto ciò che ci passa per la mente: noi non siamo i nostri pensieri.
Le formazioni mentali, nelle loro varie configurazioni (sensazioni, desideri, recriminazioni, speranze, emozioni, fantasie, ricordi, ecc.) sfilano davanti a noi come in una parata militare o in uno spettacolo teatrale, ma noi non ci attacchiamo a nessuna di esse. Non ci attacchiamo neppure all’idea che abbiamo di noi stessi, del nostro io, perché si tratta di una semplice idea o di un’etichetta.
In realtà, quanto più osserviamo distaccati e portiamo tutto il flusso mentale alla calma, tanto meno ci identifichiamo con un soggetto. Come prima arrivavamo ad essere un tutt’uno con il respiro, dimenticandoci di “chi” conducesse il respiro, così ora ci rendiamo conto che noi siamo coscienza, non un io che è cosciente.
C’è il respiro, ma dov’è il soggetto del respiro?
C’è la consapevolezza, ma dov’è l’io che è consapevole?
Risvegliarsi è proprio questo: scoprire che i nostri problemi nascevano tutti da una falsa identificazione con un io. Vivevamo in un sogno ad occhi aperti. Attribuivamo ad un’immagine un nucleo sostanziale, restringendo le nostre esperienze a piccole cose.
Mentre ora scopriamo uno spazio e una profondità che neppure sospettavamo.

La liberazione è esattamente questo. Non un’identificazione, una chiusura tra le pareti di un io, ma il suo contrario: l'abbattimento delle barriere.

martedì 22 dicembre 2015

Vivere con leggerezza

Quando il Buddha afferma che esiste una via per uscire dalla sofferenza non intende dire che c’è un modo per essere sempre contenti, soddisfatti e felici, perché il dolore fisico e il deterioramento non possono essere eliminati; ma intende dire che è possibile non aggiungere al dolore fisico anche la sofferenza mentale.
La sofferenza mentale è “un di più” che noi aggiungiamo.
Se inciampo e cado, mi faccio male. Ma se inciampo, cado e mi do dell’imbecille perché non sono stato attento, aggiungo un tormento. E così soffrirò due volte: per il dolore fisico e per il dolore mentale.
Dobbiamo addestrarci a distinguere le due cose e, più in generale, a vedere come ciò che chiamiamo “mente” sia in realtà un palcoscenico su cui passano le più diverse formazioni mentali.
Noi ci identifichiamo con queste formazioni mentali, facendoci trascinare da emozioni contrastanti. Ma queste formazioni sono come nuvole che passano in cielo, oscurando per un po’ il sole e poi andandosene. Pur essendo inconsistenti, hanno un bel potere.
La soluzione è la posizione del testimone, da conservare sempre nella vita. Se non possiamo cambiare gli eventi né dominare ciò che ci passa per la mente, possiamo però prenderne le distanze.
Possiamo guardarle come si assiste a uno spettacolo di luci e di ombre.
Niente è davvero reale. Tutto è sogno e rappresentazione, compresi noi, le nostre vicende e il nostro mondo. Perfino ciò che riteniamo il nostro io non è che un personaggio di scena.

La vita, senza il peso dell’io, può essere affrontata con più leggerezza.

Tra il dire e il fare: la misericordia

Adesso è di gran moda la parola “misericordia”. Alla radio e alla televisione non si parla di altro: è la nuova parola d’ordine di una cultura priva di senso critico e pronta a intrupparsi, per mancanza di idee, dietro le bandiere clericali.
Tanti bei discorsi sulla misericordia, ma poi, in questo paese, per colpa di una religiosità bigotta e ignorante, quando un malato terminale vuole interrompere la sofferenza e scegliere consapevolmente di morire, è costretto a compiere viaggi in Svizzera e a spendere migliaia di euro. E non ci dimentichiamo i casi di Emanuela Englaro e di Welby… tutti da addebitare alla misericordia cattolica.
Una religione che nega questo diritto naturale, ha un carattere sadico ed è nemica dell’autodeterminazione degli uomini. Per questi nostri cristiani di facciata, i nuovi farisei, Dio resta il padrone che non vuole la libertà delle sue creature e La Chiesa resta quella che è sempre stata: una corrotta organizzazione per la sottomissione degli esseri umani ad un sistema autoritario.

C’è misericordia per tutti, ma non per i moribondi; chissà perché.

lunedì 21 dicembre 2015

L'impermanenza

Tutti sappiamo che le cose cambiano e si deteriorano di continuo. Tutti sappiamo che anche il nostro corpo e la nostra mente vanno incontro al decadimento.
Lo vediamo, ma con la coda dell’occhio.
La meditazione sull’impermanenza è un’altra cosa. Non è una conoscenza filosofica, ma è un guardare in modo diretto e totale, senza paura.

La saggezza è esattamente questo: un guardare come con un raggio laser che si concentri su un punto… fino a bruciarne la parte malata.

La vera gioia

Ovviamente non esiste solo l’attaccamento all’amore, ma a qualunque sensazione piacevole, che vorremmo prolungare il più possibile. Tuttavia, la struttura dialettica del reale non ce lo permette.
Dunque, la via migliore non è cercare di moltiplicare e prolungare le sensazioni piacevoli, ma porre il proprio centro di osservazione (il proprio sé) al di là di esse. In pratica, si tratta di coltivare il distacco.
Se le lasciamo essere e passare, senza cercare di trattenerle, è perché abbiamo capito finalmente che il nostro obiettivo non è tanto il piacere quanto la liberazione (da tutte le coppie di opposti).

Una qualunque sensazione di piacere dà attaccamento e, di conseguenza, delusione e nuova sofferenza. Invece, il porsi aldilà, il liberarsi, il non trattenere, il lasciar andare, ci portano in una dimensione di gioia che non ha più niente di sensoriale.

domenica 20 dicembre 2015

Amore e attaccamento

È possibile amare una persona senza attaccamento? Probabilmente no: si tratta di un ideale, cioè di un’idea astratta della mente.

Ma porsi la domanda è importante. Ci aiuta a capire quale sia la parte dell’amore e la parte dell’attaccamento. E a puntare sulla parte più luminosa.

Gli ideali di perfezione

Quando ci dicono che per raggiungere la liberazione è necessario non attaccarsi a nulla, subito pensiamo alle persone, al sesso, all’amore, ai beni, ai soldi, alla posizione sociale, ecc.
Ma esiste anche una forma che è ancora più subdola, pervasiva e distruttiva: l’attaccamento alle idee. Essere convinti che le cose o le persone possono essere solo in un modo o non in un altro, spesso è solo una forma di fideismo e di chiusura mentale.
Tra le idee più pericolose ci sono gli ideali, ossia le immagini di come dovrebbero essere le cose se fossero perfette.
Ma niente è perfetto, né in questo mondo né in nessun altro mondo.
Neppure Dio, se dovessimo giudicare dal suo creato.

Dunque, non ci fidiamo degli ideali, delle ideologie: sperimentiamo tutto.

I veleni della mente

Se osserviamo i nostri stati mentali, ossia come ci sentiamo in un dato momento, ci accorgiamo che la mente si trova in uno dei seguenti modi fondamentali. Nel primo, desidera, aspira, ama, vuole, mira a; nel secondo, avversa, odia, respinge, rifiuta, contrasta; nel terzo, si illude ed confusa; e nel quarto, è ottusa, svuotata, arida, infelice.
In realtà, in tutti i quattro stati la mente sta male e soffre.
I primi due atteggiamenti sono chiaramente l’uno l’opposto e il complementare dell’altro. Se vogliamo qualcosa, è perché non vogliamo qualcos’altro, e viceversa.
Ma anche il terzo atteggiamento è collegato ai primi due, perché essere in preda al desiderio o all’avversione significa essere in preda ad un’illusione – l’illusione che ottenendo o respingendo qualcosa, si possa ottenere uno stato duraturo di soddisfazione.
Il quarto atteggiamento, poi, entra in campo quando siamo svuotati di ogni tensione, di ogni illusione, e non sappiamo più che fare per trovare un po’ di felicità.
Ma esiste un metodo per trovare di nuovo un centro di gravità che esca dagli stati condizionati e avvelenati e per recuperare la gioia di essere. È la meditazione.
In primo luogo, ci si deve mettere in una posizione di osservazione e stabilire quale sia lo stato mentale prevalente, che può essere anche un misto dei quattro. In secondo luogo, ci si deve concentrare o sul respiro o sul centro del nostro essere, in modo da staccarsi da tutti gli altri stati mentali. E in terzo luogo, si deve cercare lo stato di calma che si trova in questa operazione, sotto gli altri quattro stati mentali.
È questo stato mentale di calma, di chiarezza e di pace che dobbiamo alimentare nella meditazione. Come metodi, possiamo ricorrere alla distensione psico-fisica e alla concentrazione.

Se non sappiamo come rilassarci, possiamo ricorrere anche a lezioni guidate, reperibili per esempio su Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=Fx4qxH6NiVQ

sabato 19 dicembre 2015

La natura del desiderio

Poiché il desiderio rivela una mancanza, smaschera una sofferenza.
Se desidero qualcosa è perché sento dolorosamente che ne avrei bisogno per essere felice.
Ma nessun desiderio soddisfatto dona a lungo la felicità. Subito dopo ritorna il vuoto e quindi la necessità di riempirlo.
In fondo il desiderio è autoreferenziale: è desiderio di desiderio.
C’è un vuoto di desideri che è benedetto, perché fa capire l’autosufficienza di chi non desidera più nulla; ed un vuoto che è maledetto, perché non fa che aumentare la ruota del desiderio e della conseguente sofferenza.

Sta a noi capire la differenza.

La violenza religiosa

Ha ragione lo scrittore algerino Bouasalem Sansal quando dichiara (in una intervista su Micromega): “C’è troppo rispetto ovunque per la religione. Non dirlo è un segno della civiltà che muore, che si proibisce da sola di dire quello che pensa”.

Proprio così: dobbiamo gridare dappertutto che quella volontà, comune a tutte le religioni teiste, di imporre al mondo intero la propria fede infondata non è che desiderio di potere, volontà di potenza, violenza barbarica.

Carità cristiana

All’ingresso di Pontoglio (Brescia) è stato posto il cartello: “Paese a cultura occidentale e di profonda tradizione cristiana. Chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene”.
Tipico esempio di carità cristiana…
Ma Gesù non era quello che predicava di sfamare gli affamati, dissetare gli assetati, fare la carità ai poveri e compagnia bella?
Ci sarà qualche prete o qualche Papa che, tra tanti discorsi buonisti e scontati, dirà: “Not in my name!” Eppure quel cartello presume di parlare a nome di una “profonda cultura cristiana.”

Oppure, dobbiamo concludere che Cristo si è fermato a Pontoglio e in tutti quei paesi del nord governati da gente xenofoba?

venerdì 18 dicembre 2015

Guardare con attenzione

Siamo fatti così: cerchiamo la soluzione ai nostri problemi dappertutto nel mondo, in ogni luogo e in ogni persona. Non la cerchiamo mai nell’unico posto da cui hanno origine: dentro di noi.
Siamo come un uomo che cerca un tesoro in ogni luogo, perché si è dimenticato che l’aveva seppellito a casa sua.
Anche nella meditazione, crediamo che la soluzione stia nello star fermi per mezz’ora o due ore a gambe incrociate, immobili e concentrati, con la mente vuota. Mentre consiste nel prestare attenzione a ciò che ci succede qui e ora, dentro di noi.
Siamo distratti, molto distratti, al punto che abbiamo perso… noi stessi.
In fondo, l’illuminazione – che, come indica la parola, è un veder chiaro – non è che attenzione.

È tutto qui: guardare con attenzione nella mente-cuore, che è esattamente ciò che siamo, l’unica cosa che siamo.

Cercare di persona

Non dobbiamo mai smettere di ripeterci che la meditazione è una pratica, non lo studio di una teoria.
Non studiamo soltanto quella sintesi di buddhismo, induismo, zen, chan, yoga, advaita vedanta e taoismo che chiamiamo meditazione, ma la pratichiamo. Ossia, ci astraiamo un po’ dalla realtà tumultuosa, calmiamo il respiro, calmiamo la mente e, a quel punto, diamo uno sguardo profondo a ciò che siamo, a ciò che ci succede.
Osserviamo come siamo, come funzioniamo.
La teoria aiuta. Ma è un’arma a doppio taglio: può diventare uno schema astratto cui cerchiamo di aderire.
Noi, invece, non dobbiamo farci seguaci di nessun credo. Piuttosto, dobbiamo sperimentare tutto.

E, se qualcosa non lo sperimentiamo, dobbiamo dire: “Non lo so, non ho potuto verificarlo; può essere, ma può anche non essere”.

giovedì 17 dicembre 2015

Morte e vita

Una mente positiva e assertiva ragiona sempre in termini di vita e di accrescimento. Così, quando si trova a pensare o ad affrontare la morte, sua o di qualche essere che ama, si sente spiazzata: non vede che senso abbia, che cosa possa dare o apportare. Sembra la fine di tutto, una disfatta.
Ma si tratta di un errore di prospettiva.
È necessario pensare alla vita dalla prospettiva della morte.
La morte non è un incidente di percorso, ma è parte costitutiva della vita.
La vita esiste perché c’è la morte – non contro o nonostante la morte.
La morte è la prima è la più fondamentale delle contemplazioni da eseguire quotidianamente.
Ognuno può morire in ogni momento. E che senso ha questo accrescersi per poi dover lasciare tutto? È questa la giusta prospettiva da cui guardare al fenomeno della vita.

È come un’immensa voragine da cui si esce e si entra continuamente, con brevi soste sul bordo. Se non si tiene conto di questo duplice movimento, non si ha una giusta visione.

My way

Noi vogliamo affermare il nostro essere, la nostra personalità, vogliamo realizzarci, vogliamo riprodurci, vogliamo ottenere qualcosa nella e dalla vita, vogliamo amare ed essere amati, vogliamo diventare importanti, vogliamo far soldi, migliorare, prendere il destino nelle nostre mani: questo è l’impulso che ci guida.
E non è sbagliato in sé; è il desiderio di essere e di svilupparsi. Ma è solo una metà di ciò che ci attende.
L’altra metà è lasciar cadere, lasciar perdere, liberarci, abbandonare.
Non si tratta di due impulsi contraddittori, ma complementari.
Non dobbiamo affatto rinunciare a volere e a cambiare le cose. Ma non dobbiamo volere cose che non fanno per noi, cose per cui non siamo predisposti. Lasciar cadere non è non fare nulla, ma lasciar perdere ciò che non rientra nella nostra natura.
Per realizzarci, per far fiorire completamente il nostro essere, non dobbiamo imporci compiti innaturali, artificiali, non sentiti, compiti per cui non siamo tagliati e che ci fanno vivere male.
La nostra vera natura non è ciò che ci impone l’impegno di affermazione egoica, che può essere anche del tutto sbagliato e velleitario, ma ciò che si rivela quando lasciamo cadere le pretese dell’ego.
Per sapere quale sia la nostra via non dobbiamo basarci dunque solo sui desideri dell’ego, che possono essere ambizioni infondate, ma rimetterci in armonia con la nostra natura più profonda, che può volere cose completamente diverse da quelle che abbiamo realizzato o che crediamo di dover realizzare.

Siamo sicuri che ciò che ci predispone la società o la famiglia sia proprio quello che vogliamo?

mercoledì 16 dicembre 2015

Il rilassamento

Sembra poca cosa… mi rilasso un po’, mi distendo, lascio scemare la tensione con cui di solito vivo, raffreddo la mente che di solito brucia…
Ma, in realtà, questo è il primo passo verso la liberazione.
Lasciar cadere, sciogliere la tensione-stress, diminuire la tensione esistenziale, calmarsi, tutto ciò è esattamente il nostro compito, il nostro riposo, il nostro samadhi, piccolo o grande che sia.
Del resto, si tratta di un processo naturale. Ad ogni inspirazione, assorbiamo energia e ci tendiamo. E, ad ogni espirazione, la lasciamo andar via, ci svuotiamo, ci distendiamo.

Attimo per attimo, fino all’ultimo respiro – fino all’ultima espirazione, perché è chiaro che l’ultimo atto è una forma di distensione, così come la parola ultima è una forma di silenzio.

Il Dio della rete

A poco a poco, supereremo l’idea dell’uomo come unità psicosomatica, centro isolato, monade, e lo vedremo come nodo di una rete che comunica, come succede in una rete del Web o in una rete neurale. L’universo stesso, a pensarci bene, non è altro che un’immensa rete, in cui i nodi sono i vari corpi astrali.
Nei Veda, la più alta divinità è Indra, che è armato di una rete con cui cattura chi vuole.
Ne consegue che è impossibile uscire dalla rete e che ognuno occupa un posto prestabilito. Ma, poiché la rete è un tutto unitario, il posto che ognuno occupa è un particolare di un grandioso processo evolutivo.

Può darsi che la tua vita sia straordinaria, determinante per il destino di tanti. Però, lo è sempre… anche quando ti sembra di non essere nessuno e di non contare nulla.

L'oppressione della donna

Ho letto che, nel sedicente Califfato islamico, una donna è stata giustiziata perché ritenuta una strega.
Da noi, queste cose le si facevano nel Medioevo. E, in effetti, questi islamici fondamentalisti hanno ancora la testa immersa nella barbarie di epoche passate.
Perché prendersela tanto con le donne che devono girare velate? Perché la donna deve essere considerata inferiore all’uomo e a lui sempre sottomessa, al punto che non può andare da nessuna parte, non può prendere nessuna decisione e in pratica non può far nulla se non ha un uomo a fianco?

Non è forse perché, in tutte le religioni, il cuore della cultura fondamentalista è proprio l’oppressione della donna?

martedì 15 dicembre 2015

La saggezza dell'attenzione

Ciò che contraddistingue il buddhismo è che non nega mai la realtà, non cerca vie di fuga consolatorie.
Non so se avete presente quei film americani dove, in situazioni tragiche, c’è sempre qualcuno che dice: “Va tutto bene, va tutto bene…”.
Non va bene affatto! Se le cose ci vanno male, ci vanno male; se soffriamo, soffriamo: è inutile e controproducente negare i dati di fatto. Meglio riconoscere le cose così come stanno.
Invece, la mentalità comune, la mentalità “vincente”, il pensiero positivo, vuol nascondere la realtà negativa. Anche le religioni fanno lo stesso: Dio ci ama, Dio è solo bontà, siamo stati salvati, la sofferenza ci redime, i bambini morti diventano angeli e la morte… non esiste; andremo tutti in paradiso!
Ma questi bei discorsi non cambiano il fatto che magari soffriamo, che abbiamo fame, che siamo malati, che non abbiamo lavoro, che non abbiamo soldi, che siamo soli, che nessuno ci aiuta e che la violenza, le ingiustizie, le disuguaglianze e la corruzione dominano sovrane.
C’è un Dio che possa cambiare queste cose? In teoria dovrebbe essere onnipotente, ma chissà perché, per noi, non fa mai nulla. E, allora, non serve.
Solo noi possiamo fare qualcosa. Prima di tutto, riconoscendo la realtà e poi cercando di attutire i colpi peggiori del destino senza farcene distruggere.
Come succede nel trattamento psicoanalitico, il processo di riconoscimento fa parte del processo di superamento del disagio. Chi fugge o nega non arriva a nessuna guarigione.
Se soffriamo, dobbiamo riconoscerlo e sperimentare la difficoltà fino in fondo… fino a che possiamo a stare con la sofferenza senza esserne schiacciati. Possiamo addestrarci a guardare in faccia la realtà, anche se è terribile. Questo atteggiamento fa parte del processo di trasformazione-guarigione.
A dirla tutta, la stessa cosa dovrebbe essere fatta anche con le esperienze piacevoli: viverle fino in fondo, ma non attaccarci. Infatti, anche l’attaccamento fa parte di un tentativo di negazione… negare che si tratta di esperienze transitorie che presto lasceranno il posto a situazioni contrarie o alla noia.
La saggezza dell’attenzione consapevole non nega nulla e non si attacca a nulla, né nel cosiddetto bene né nel cosiddetto male. È consapevole di tutto ciò che ci capita, ma riesce a creare una distanza che ci permette di non farci coinvolgere né di farci travolgere.


lunedì 14 dicembre 2015

L'autocoscienza

La coscienza e l’autocoscienza sono la grandezza dell’essere umano: non ci sono dubbi. Ma hanno un aspetto negativo: presuppongono sempre una divisione, una separazione, una distanza, un divario fra soggetto e oggetto, che, nel caso dell’autocoscienza, diventa una scissione dell’essere stesso. E si può dire che da questa scissione nascono tutti i nostri problemi.
In meditazione parliamo di sviluppare la consapevolezza, non però nel senso di accentuare la divaricazione tra i due poli, ma nel senso di superare la dicotomia.
Non c’è un io che si rafforza meditando. Non c’è neppure il meditante.

Resta il meditare.

Il soffio della vita: la mente-respiro

Se siamo agitati, ansiosi o preoccupati, il nostro respiro sarà corto, contratto, accelerato, irregolare, superficiale: non potremo rilassarci, non potremo dormire bene, non potremo distenderci.
Al contrario, quanto più la nostra mente sarà rilassata, tanto più sarà rilassato, calmo e profondo il respiro. Questo perché esiste un rapporto strettissimo fra psiche e soma, che sono un tutt’uno, rappresentando ciò che noi siamo unitariamente in un certo momento. Anche sul piano etimologico, la parola “respiro” è collegata alla parola “spirito.” Nel Vangelo di Giovanni è scritto che lo spirito è come il vento che soffia dove vuole. Nel libro del Genesi, si dice che Dio soffiò nelle narici dell’uomo uno “spirito vitale” e l’uomo diventò un essere vivente.
In Oriente, infine, la parola prana indica il respiro in quanto energia cosmica che pervade ogni cosa.
Resta il fatto, comunque, che la vita incomincia con il primo respiro e finisce con l’ultimo respiro.
Stando così le cose, ci sembrerebbe logico agire sul respiro per agire sulla mente. In parte è vero, ma bisogna stare attenti a non forzare. Dobbiamo cercare non tanto di agire sulla respirazione, quanto di lasciarla stare, di lasciare che si calmi spontaneamente. Se si calmerà da sola, anche la mente si calmerà.
Se ci sforzeremo sarà uno sforzo dell’io che tenta di ottenere uno stato di calma: di fatto un controsenso.
Il metodo migliore per calmare la mente-respiro è l’attenzione. Non a caso, quando siamo concentrati piacevolmente su qualcosa, quando siamo rapiti da qualcosa, diciamo che “tratteniamo il respiro.”

Questo “trattenere il respiro-spirito” è la condizione meditativa migliore, corrispondente al samadhi. È uno stato di concentrazione in cui il soggetto si assorbe nell’oggetto, in cui, cioè, si supera il dualismo.

domenica 13 dicembre 2015

Fermarsi

Quando sei molto impegnato, quando hai molto da fare e non ti fermi mai, proprio allora siediti un attimo e osserva la tua mente, che è poi te stesso. Guarda quanto lavora,  quanto si sforza, quanto è arroventata. E renditi conto che non hai un momento di pace, che soffri.
Allora, prenditelo quel momento. Fermati. Guarda lontano, guarda te stesso.
Tira un sospiro di sollievo. Bastano pochi istanti per capire al differenza tra stare bene e soffrire.
Calma innanzitutto la mente, con le sue occupazioni, le sue preoccupazioni, le sue speranze, le sue mire, le sue paure, le sue illusioni.
Non leggere, non parlare, non pensare, non ricordare, non fare progetti.
Rallenta il passaggio dei pensieri, osservali come nuvole che transitano in cielo e gettano ombre.

Calmati. E poi guardati con occhi più freschi. Questo è il primo attimo di meditazione, l'alba di un nuovo giorno.

Raccoglimento

La meditazione non presume di avere la verità in tasca: la cerca.
E la cerca in silenzio, senza suonare le trombe. Non c’è nessuno che ti riveli le cose, se non le scopri tu.
La gente crede che basti riunire un gruppo di persone intorno a una fede per stabilire che la cosa creduta sia vera. Ma l’ignoranza regna sovrana dappertutto, e la storia dimostra che le masse spesso si sono sbagliate ed hanno creduto in cose e in uomini che le hanno tradite. Dove sono finiti gli dei e le credenze del passato?

Le verità che inseguiamo si rivelano solo se facciamo silenzio fuori e dentro di noi, e iniziamo un’umile ricerca. Come scriveva Nietzsche in Al di là del bene e del male, “chi si sente portato verso la contemplazione e non alla fede, trova tutti i credenti troppo rumorosi e frenetici: e si tiene lontano da loro.”

Samadhi e vipassana

Samadhi e vipassana sono le due fasi della meditazione. Samadhi è il conseguimento della quiete e della pace, il sollievo e la liberazione che si ottengono quando ci si concentra sul corpo e sulla mente e li si tranquillizzano. Allora si ottengono la calma e una grande chiarezza mentale.
Ma questi stati non possono essere permanenti perché nella vita tutto cambia di continuo. È dunque necessario approfondire la nostra visione per capire il funzionamento delle cose; ed eccoci nella pratica vipassana che comprende innanzitutto l’impermanenza di tutti gli stati, mentali e fattuali.
Capire l’impermanenza o vacuità significa per esempio lasciare andare le immagini che ci facciamo delle cose e di noi stessi. Le cose esistono, ma non sono quelle che noi immaginiamo: si tratta di pensieri, di pregiudizi, di etichette, di sensazioni. Il nostro stesso io è una di queste immagini, accompagnate da sensazioni positive (mi piace), negative (non mi piace) o neutre (mi annoia).
La nostra vita consiste per lo più nel cercare le cose piacevoli e nell’evitare quelle spiacevoli. E, subito, ci attacchiamo alle cose che ci appaiono piacevoli e in noi nascono desideri e identificazioni.
Riuscire a vedere le cose in questo modo significa osservare tutto con equanimità, imparzialità e distacco, e non attaccarsi a nulla ritenendolo io e mio. Se non ci attacchiamo e guardiamo tutto con consapevolezza, otteniamo la saggezza, quella capacità di visione e quella forza che ci proteggono dalle illusioni, dagli errori e dalle delusioni.
Dobbiamo anche vedere quanto nella nostra meditazione è in realtà al servizio dell’io, in funzione della sua gratificazione e del suo potenziamento. Non è questo che dobbiamo cercare. Più fortifichiamo il nostro ego, più innalziamo muri che ci isolano e non ci fanno comprendere.
Insomma, dalla semplice quiete alla visione profonda il percorso è lungo, ma è l’unico che possa farci capire tante cose.


sabato 12 dicembre 2015

Il muro del suono

Meditare è ottenere calma e quiete, attraversando e lasciandoci alle spalle la tempesta che agita sempre le nostre menti.
È come attraversare il muro del suono. Prima c’è un rombo, tutto trema e sembra che l’aereo esploda. Poi, all’improvviso, tutto si calma, c’è silenzio e si prova un gran sollievo.
Oppure è come l’astronauta che sale con un razzo. Prima c’è un suono assordante, tutto è scosso e sembra che il razzo debba esplodere. Poi, all’improvviso, tutto si calma, c’è silenzio e tu galleggi libero nello spazio cosmico.
Il cuore si ferma. Sei vivo, sei morto? Dov’è il tuo corpo?

Ma sei consapevolezza.

L'errore della Chiesa

Scriveva Simone Weil che “la Chiesa ha portato troppi frutti cattivi perché non ci sia stata un errore all’inizio.”
L’errore della Chiesa cattolica, come di tutte le Chiese del mondo, è sempre lo stesso: credere che Dio abbia voluto una Chiesa, una religione e una casta sacerdotale. Il che è ridicolo, è ridurre Dio a un capopartito umano.

Ma non si tratta di un errore; si tratta di un truffa, una truffa che porta a manipolare i cosiddetti libri sacri. Perché è da una simile truffa che i sacerdoti traggono il loro potere.

La consapevolezza del respiro

La consapevolezza del respiro è il metodo più usato per avviarsi allo stato meditativo.
Sappiamo infatti che la respirazione rispecchia tutti i nostri stati d’animo: se siamo tesi, arrabbiati, preoccupati, ansiosi o sereni, la respirazione segue ritmi diversi. Può essere contratta, breve, lunga, regolare, irregolare, profonda, superficiale, agitata, accelerata, forte, lieve, leggera, sottile e così via. In tal senso il respiro accompagna e rispecchia le varie modalità della vita stessa.
In stato meditativo, deve essere calmo, lento, pieno, profondo e sottile. Il suo stato avrà comunque un chiaro effetto su corpo e sulla mente, e viceversa.
Ma non si tratta di forzare il respiro; si tratta di permettergli di tornare alla sua condizione naturale.
Lo si può cogliere in vari punti del corpo: le narici, l’addome, la pancia, i polmoni, il diaframma, ecc. Ma si può anche non seguirlo in alcun punto preciso e percepirlo nella sua interezza.
Si possono contare i respiri, utilizzare un mantra bisillabo o impiegare parole come “dentro” o “fuori” in corrispondenza dell’inspirazione e dell’espirazione. È anche utile svolgere prima un esercizio fisico che acceleri il battito del cuore e la respirazione e poi fermarsi a seguire il progressivo acquietamento del respiro… fino a che quasi scompaia.
Quando alla fine non lo senti più, e sei pienamente nell’attimo presente, il respiro ha svolto la sua funzione e può essere abbandonato. Ora la mente è calma e gioiosa, e può essere utilizzata per andare oltre, per capire tante cose.