sabato 28 agosto 2010

Prendere coscienza

Perché tanta resistenza ad evitare la via della consapevolezza e a scegliere invece la via dell'acquiescenza all'opinione comune, ossia al non pensiero? A parte la mancanza d'intelligenza e di coraggio, il problema è che non tutte le rivelazioni prodotte dalla consapevolezza sono piacevoli. Alcune sono decisamente squallide. Per esempio, la scoperta che siamo individui qualunque, che siamo come banderuole al vento, che non sappiamo decidere, che la nostra personalità è un'accozzaglia di luoghi comuni e di tratti presi in prestito da qualcun altro, e che insommache siamo già morti senza accorgercene . Rivelazioni che mettono a dura prova il nostro senso di autostima.


No, non sempre la consapevolezza passa per esperienze piacevoli. Ma è necessario affrontare per prima proprio quest'opera di demitizzazione e di ridimensionamento se si vuole approfondire la conoscenza di noi stessi. Ci credevamo chissà chi e invece scopriamo di essere delle nullità.

Ecco perché evitiamo la via della consapevolezza e preferiamo restare nella via dell'incoscienza. Non vogliamo svegliarci dal nostro sonno di illusioni. Siamo figli di Dio, perbacco, e abbiamo un'anima immortale assicurata! Perché uscire da questo gratificante sogno ad occhi aperti?

Perché ciò che diciamo non conta nulla: avere un'origine divina non significa niente, perché tutto ha un'origine divina, anche il criminale e il gatto; e quanto alla vita immortale, può essere un'immortalità di noia e di batoste.

In realtà c'è molto da fare per uscire dalle nostre confortanti illusioni, c'è un lavoro da compiere per risvegliarci da un sonno millenario. E per prendere coscienza.

giovedì 26 agosto 2010

Saper vedere

Diceva Saramago che la perdita della vista fisica è sì una cosa grave, ma non più grave della perdita della vista generale, ossia della capacità di vedere l'insieme delle cose, la loro interrelazione e la loro reciproca posizione; non più grave del rinchiudersi nel proprio orticello, nel proprio piccolo interesse privato. Non è esattamente quello che succede oggi? Il problema è che nessuno insegna agli uomini a "vedere"; e così essi guardano ma non vedono, hanno occhi per vedere ma non li usano...o li usano soltanto per contare i loro soldi, per ingrassare il loro piccolo o grande patrimonio. Troppo poco. Ogni tanto bisogna sapersi innalzare al di sopra delle piccole cose e dei propri affari personali, e salire come su una montagna per guardare tutto dall'alto. Anche questa è meditazione.

lunedì 23 agosto 2010

Impermanenza

La prima delle "quattro nobili verità" del buddhismo è che "tutte le cose sono impermanenti" e la seconda è che "tutte le cose sono soggette alla sofferenza". Le cose sono impermanenti perché sono soggette allo scorrere del tempo, all'invecchiamento, alle malattie e alla disgregazione; di conseguenza nessuna può sfuggire alla sofferenza. Nessuno potrebbe contestare queste affermazioni: tutti siamo coscienti che le cose sono impermanenti e che nessuna può sfuggire alla sofferenza. La vita è un evolversi e un mutare continuo, e questo non può non produrre dolore.


Tutte le fisolofie, tutte le saggezze sono giunte a questa constatazione.

Ma a questo punto la saggezza si biforca. Dalla consapevolezza che le cose impermanenti derivano due atteggiamenti opposti: nel primo, proprio perché sappiamo che niente dura, cerchiamo di apprezzare e di sfruttare il più possibile le fonti di piacere e di felicità. Questa è una prima forma di saggezza, che ci porta ad attaccarci ancora di più alle cose. Nel secondo atteggiamento, invece, cerchiamo di distaccarci da ogni cosa, anche da quelle che procurano una gioia passeggera. Quale dei due è quello giusto?

In realtà non c'è contraddizione. Perché chi rinunciasse a tutto, anche all'amore, alla famiglia e ai beni, sarebbe comunque soggetto alla sofferenza. Forse soffrirebbe meno acutamente, ma soffrirebbe comunque e la sua vita sarebbe squallida e vuota.

Una saggezza più profonda ci dice dunque un'altra cosa. Dobbiamo saper apprezzare e sfruttare le fonti di felicità, dobbiamo minimizzare le cause di infelicità e dobbiamo essere consapevoli ad ogni momento che tutto può disgregarsi e finire. Questa consapevolezza ci rende ancora più sensibili ai beni che ci vengono elargiti, ma ci fa anche capire niente è veramente in nostro possesso e che tutto è destinato a sfuggirci di mano. Si tratta di un atteggiamento che potremmo definire meditativo. Bellezza e malinconia della vita...Innanzitutto è bene distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Un amore è importante; il tifo calcistico è una stupidaggine. Dunque, se è bene conservare l'amore, è una stupidaggine soffrire per il tifo calcistico. Ritroviamo la giusta dimensione delle cose.

In secondo luogo, dobbiamo essere consapevoli che, per quanto quell'amore sia importante, può finire da un momento all'altro: possiamo innamorarci di un'altra persona, possiamo essere traditi o abbandonati, possiamo perdere nel corso del tempo quel sentimento, ecc. Questa consapevolezza non ci deve portare alla rinuncia (dovuta alla paura di soffrire), ma ad una meditazione su quell'amore - una meditazione in cui si affaccia comunque l'idea del distacco. Il distacco in fondo non dipende da noi, ma dipende dal corso delle cose.

Distaccarsi è prendere le distanze, è vedere le cose da punti di vista diversi, è penetrare e prevedere. Che cosa succederà se la persona amata mi tradirà o mi lascerà? Non potrò più vivere? A molti succede proprio questo. Ma, se nel frattempo avrò lavorato a meditare, l'abbandono non mi coglierà impreparato e io avrò scoperto altre ragioni per vivere, al di là anche di quell'amore.

Si applichi ora questo tipo di meditazione al legame affettivo primario: quello con se stessi. In effetti, anche il legame con se stessi è destinato a finire con un distacco. Ma è una fine o una "liberazione da"? Per rispondere a questa domanda bisogna andare molto più a fondo, al di là anche degli insegnamenti standardizzati della varie religioni.

domenica 22 agosto 2010

La religione del futuro

Sarà un bel giorno quello in cui l'umanità si libererà dell'idea del Dio personale, che ha creato l'uomo per giudicarlo. Dico che sarà un bel giorno perché vorrà dire che gli uomini avranno imparato a comportarsi bene senza bisogno di premi e di castighi ultreterreni, senza bisogno di Padroni eterni. Sì, perché, a questa idea primitiva del Dio Padrone corrisponde quella della necessità del padrone terreno. Anzi, si può dire che l'idea del Padre-Padrone divino sia una conseguenza di quella del padre-padrone terreno - una convinzione che nasce dalla necessità dell'uomo animale di avere un capobranco. E questa necessità nasce a sua volta dal fatto che l'uomo non è autonomo, non è in grado di riflettere e di meditare, ed ha quindi sempre bisogno di qualcuno che lo guidi. Si pensi dunque alla rozzezza di questa fede.


A quel punto gli uomini avranno imparato ad autogovernarsi. Diceva a questo proposito Albert Einstein: "La religione del futuro dovrà essere una religione cosmica, che trascenda il Dio personale ed eviti dogmi e teologie. Dovrà abbracciare la sfera naturale e quella spirituale, basandosi su un senso religioso che nasce dal sentire tutte le cose naturali e spirituali come un'unità carica di senso".

Siamo a quel punto? Non mi pare. Le masse hanno ancora bisogno di qualcuno da idolatrare, e, quando non trovano qualche Dio immaginario, ecco che vanno a idolatrare qualche sua presunta incarnazione o qualche papa fasullo o qualche divo dei nostri tempi. Tutto, pur di non usare la propria consapevolezza e la propria autodeterminazione.

giovedì 19 agosto 2010

Meditazione e preghiera contemplativa

Nella preghiera si cerca l’aiuto di un’Entità superiore, nel presupposto che sia potente e voglia aiutarci. Nella meditazione si cerca di fare appello alle proprie energie più profonde, si cerca di mobilitare le proprie forze e il proprio potere, che sono comunque quelle dell’universo e dunque divine. Nelle prime si usano parole e si chiede qualcosa di preciso; nella seconda non si usano parole e si cerca calma, energia e chiarezza.


Esiste comunque un livello della preghiera in cui non si fa ricorso a parole e non si chiede nulla: ci si limita a stare in presenza dell’Entità superiore, sperando di attingere alla sua forza. Questa preghiera contemplativa è il livello più elevato di orazione ed è molto vicina alla meditazione.

Naturalmente, preghiera e meditazione non si escludono a vicenda. Come dice un proverbio, “aiutati che Dio ti aiuta”.

venerdì 13 agosto 2010

Violenza religiosa

Le religioni non smettono mai di stupire per la loro carica di violenza, più o meno sotterranea, più o meno dissimulata. E non mi riferisco solo ai vari terrorismi d’ispirazione religiosa, ma soprattutto a certe violenze sulle coscienze. Per esempio, nella Chiesa cattolica, qualcuno ha pensato bene di spostare l’età della prima comunione a sette anni. Perché mai? Forse perché a sette anni non si può avere nessun senso critico e si accettano meglio le verità rivelate? Certo, in questo sforzo di condizionamento precoce, la palma della violenza psicologica spetta al battesimo, in cui addirittura il neonato viene marchiato con una cerimonia di appartenenza. Nessuno pretende una partecipazione consapevole. Al contrario! Più sono inconsapevoli, meglio possono essere indottrinati.


La volontà di prevaricazione dei religiosi di professione è infinita, e parte sempre dalla convinzione di essere i depositari di qualche verità, addirittura gli unici mediatori e interpreti della volontà divina. Interpreti interessati, perché a loro poi spetta una parte del potere con cui alcuni uomini dominano gli altri uomini. A questa volontà di potere fa da contrappunto la volontà di sottomissione delle grandi masse di fedeli, i quali arrivano a credere che, per esempio, Dio si metta a verificare se i morti siano circoncisi o battezzati o se abbiano osservato un mese di digiuno. Saremmo nel ridicolo, se non fossimo nel tragico dell’ignoranza umana.