lunedì 23 agosto 2010

Impermanenza

La prima delle "quattro nobili verità" del buddhismo è che "tutte le cose sono impermanenti" e la seconda è che "tutte le cose sono soggette alla sofferenza". Le cose sono impermanenti perché sono soggette allo scorrere del tempo, all'invecchiamento, alle malattie e alla disgregazione; di conseguenza nessuna può sfuggire alla sofferenza. Nessuno potrebbe contestare queste affermazioni: tutti siamo coscienti che le cose sono impermanenti e che nessuna può sfuggire alla sofferenza. La vita è un evolversi e un mutare continuo, e questo non può non produrre dolore.


Tutte le fisolofie, tutte le saggezze sono giunte a questa constatazione.

Ma a questo punto la saggezza si biforca. Dalla consapevolezza che le cose impermanenti derivano due atteggiamenti opposti: nel primo, proprio perché sappiamo che niente dura, cerchiamo di apprezzare e di sfruttare il più possibile le fonti di piacere e di felicità. Questa è una prima forma di saggezza, che ci porta ad attaccarci ancora di più alle cose. Nel secondo atteggiamento, invece, cerchiamo di distaccarci da ogni cosa, anche da quelle che procurano una gioia passeggera. Quale dei due è quello giusto?

In realtà non c'è contraddizione. Perché chi rinunciasse a tutto, anche all'amore, alla famiglia e ai beni, sarebbe comunque soggetto alla sofferenza. Forse soffrirebbe meno acutamente, ma soffrirebbe comunque e la sua vita sarebbe squallida e vuota.

Una saggezza più profonda ci dice dunque un'altra cosa. Dobbiamo saper apprezzare e sfruttare le fonti di felicità, dobbiamo minimizzare le cause di infelicità e dobbiamo essere consapevoli ad ogni momento che tutto può disgregarsi e finire. Questa consapevolezza ci rende ancora più sensibili ai beni che ci vengono elargiti, ma ci fa anche capire niente è veramente in nostro possesso e che tutto è destinato a sfuggirci di mano. Si tratta di un atteggiamento che potremmo definire meditativo. Bellezza e malinconia della vita...Innanzitutto è bene distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Un amore è importante; il tifo calcistico è una stupidaggine. Dunque, se è bene conservare l'amore, è una stupidaggine soffrire per il tifo calcistico. Ritroviamo la giusta dimensione delle cose.

In secondo luogo, dobbiamo essere consapevoli che, per quanto quell'amore sia importante, può finire da un momento all'altro: possiamo innamorarci di un'altra persona, possiamo essere traditi o abbandonati, possiamo perdere nel corso del tempo quel sentimento, ecc. Questa consapevolezza non ci deve portare alla rinuncia (dovuta alla paura di soffrire), ma ad una meditazione su quell'amore - una meditazione in cui si affaccia comunque l'idea del distacco. Il distacco in fondo non dipende da noi, ma dipende dal corso delle cose.

Distaccarsi è prendere le distanze, è vedere le cose da punti di vista diversi, è penetrare e prevedere. Che cosa succederà se la persona amata mi tradirà o mi lascerà? Non potrò più vivere? A molti succede proprio questo. Ma, se nel frattempo avrò lavorato a meditare, l'abbandono non mi coglierà impreparato e io avrò scoperto altre ragioni per vivere, al di là anche di quell'amore.

Si applichi ora questo tipo di meditazione al legame affettivo primario: quello con se stessi. In effetti, anche il legame con se stessi è destinato a finire con un distacco. Ma è una fine o una "liberazione da"? Per rispondere a questa domanda bisogna andare molto più a fondo, al di là anche degli insegnamenti standardizzati della varie religioni.

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