domenica 15 settembre 2024

La vita dopo la morte

 Riporto questo articolo di Antonio Polito perché parla di un argomento che interessa tutti: la vita dopo la morte:

Stéphane Allix è un giornalista di lungo corso, quindici anni reporter di guerra. Ha pubblicato in Francia un libro per molti aspetti inquietante che ha venduto 200mila copie. S'intitola «La morte non esiste»: in fin dei conti è ciò che tutti vorremmo sentirci dire. Sostiene che «quando si muore non si smette di vivere, si cambia mondo». Gli chiedo che cosa glielo faccia pensare.

«Non è che io lo pensi, non è una credenza. Sono arrivato a questa conclusione dopo anni di indagine, tra ricerche scientifiche ed esperienze personali. La mia è un'inchiesta giornalistica, e mi ha portato alla convinzione che la coscienza non scompare nel momento della morte. Esiste un aspetto più profondo e misterioso della coscienza, e sembra che continui a esistere quando il cervello non funziona più. Questa non è un'idea, né qualcosa che vada contro l'osservazione scientifica; è un'esperienza che possiamo fare in molti ambiti legati alla coscienza», come i «vissuti soggettivi di contatto con un defunto» (Vscd), i fenomeni di lucidità terminale, gli stati di coma vigile, le percezioni extrasensoriali.

Il pezzo forte del ragionamento di Allix mi sembrano però quelle che nelle neuroscienze vengono chiamate «near death experiences» (Nde). Esperienze di pre-morte vissute, ricordate e poi narrate da «vittime di incidenti che, durante i tentativi di rianimazione, hanno avuto l'impressione di osservare la scena dall'alto, come se fossero uscite dal proprio corpo e avessero assistito al loro presunto decesso». Se ne parla ormai da decenni, sono state raccolte e pubblicate numerosissime testimonianze del genere che convergono spesso anche su dettagli molto precisi, come «la visione di una luce intensa, una profonda sensazione di benessere, di essere immersi nell'amore, e l'incontro con cari defunti o entità spirituali».

Ebbene Allix, sulla base di una serie di interviste e di ricerche sul campo, in particolare sul lavoro di un cardiologo olandese, Pim van Lommel, pubblicato su The Lancet, si è convinto che «è possibile essere coscienti anche quando tutte le funzioni cerebrali sono cessate»

Queste Nde non sarebbero infatti il frutto di una semplice attività residua del cervello, come molti scienziati affermano, ma al contrario l'esito di una coscienza più profonda, che non risiede nell'attività neuronale del cervello, ma anzi è come liberata dalla morte fisica: «Abbiamo oggi molti studi accurati su persone che hanno subito un arresto cardiaco: sappiamo con sicurezza dalle cartelle cliniche che il loro cervello aveva smesso totalmente di funzionare, oppure funzionava solo al 20/30%, e nonostante ciò hanno mantenuto uno stato di coscienza molto vivido, tant'è che dopo erano in grado di ricordarsene. Credo di aver ottenuto evidenze consistenti che rendono molto solida l'ipotesi della vita dopo la morte, che cioè la coscienza possa continuare a esistere dopo che il cervello si ferma». 

Allix usa il termine evidence perché la nostra conversazione si svolge in inglese, e lui lo ritiene più accurato di proof, parola che – dice – «è usata solo in matematica, mentre in scienze come la fisica e la biologia si parla di solito di evidence».

Capite bene che Stéphane sta praticamente sostenendo che esistono indizi scientificamente validi dell'immortalità dell'anima, se così possiamo chiamare la coscienza. È perciò il caso di spiegare bene a che si riferisca, e per farlo dobbiamo entrare nell'unità coronarica di un ospedale. Questo è il racconto di un'infermiera, raccolto e verificato nel lavoro di van Lommel: «Arriva un uomo di 45 anni, cianotico e in coma. È stato trovato in un giardino pubblico da alcuni passanti, che gli hanno praticato un accenno di massaggio cardiaco. Viene sottoposto a ventilazione meccanica, con casco e maschera, massaggio cardiaco e defibrillazione. A un certo punto, prima di cambiare il sistema di respirazione per intubare il paziente, noto che porta una protesi dentale. Così, prima di intubarlo, ne rimuovo la parte superiore e la poso sul carrello». Il paziente va in terapia intensiva e alla fine si salva. Una settimana dopo viene riportato in unità coronarica e un giorno incrocia l'infermiera. «Appena mi vede esclama: “Oh, quell'infermiera sa dov'è la mia dentiera…, era lì quando mi hanno portato in ospedale, mi ha tolto la dentiera dalla bocca e l'ha messa sul carrello…”». L'uomo ricorda nel dettaglio ciò che è successo mentre era in arresto cardiaco e al suo cervello non arrivava ossigeno.

È sulla base dei non pochi casi analoghi che Allix afferma l'esistenza di un livello di coscienza indipendente dal cervello. E il fatto che le neuroscienze, discipline ancora agli albori secondo lui, non possano confermarlo, non esclude che sia così. «D'altra parte» ci ricorda «non è davvero il solo caso in cui la nostra cultura scientifica è incapace di spiegare ciò che accade». La scienza in effetti può accertare ciò che è falso, non stabilire ciò che è vero. Stéphane ammette che «per ora abbiamo solo ipotesi, non c'è ancora una vera teoria per spiegarlo». Ma proprio per questo continuare a cercare è giusto. «Cosa chiamiamo morte? È solo un'interruzione del funzionamento del corpo e del cervello. Ma noi non siamo solo corpo, e questo lo sappiamo da millenni anche grazie ai diversi insegnamenti spirituali. C'è qualcosa molto in profondo nel nostro essere che possiamo chiamare anima o coscienza, e che continua a esistere quando corpo e cervello smettono di funzionare». Nel libro è definita come «coscienza fondamentale non locale».

«Ho preso in prestito l'espressione “non locale”» dice Stéphane «dalla fisica quantistica. Per secoli abbiamo creduto che l'atomo fosse una sorta di piccolissimo pezzettino di materia che poteva essere localizzato in un unico punto nello spazio e nel tempo. Ora invece sappiamo che questo piccolissimo pezzo non è materia e non è localizzato nello spazio e nel tempo: è “non locale”, e non segue le stesse regole degli oggetti macroscopici, compreso il nostro corpo. Quindi “coscienza fondamentale non locale” per me descrive lo stato che la coscienza può raggiungere quando moriamo, quando è liberata dall'attività cerebrale e riconquista tutte le sue capacità».

Per spiegarsi, usa la metafora del «cloud»: «Il nostro cervello potrebbe essere immaginato con uno smartphone: la maggior parte delle informazioni accessibili non è dentro il “device”, è in una specie di “cloud spirituale”. Nella vita di ogni giorno non ne siamo consapevoli perché il cervello funziona per proteggerci e adattarci al mondo in cui viviamo. E perciò imprigiona la capacità ‘non locale' della coscienza. Nel libro vado molto nel dettaglio di questo processo».

Il problema – almeno per un lettore come me, per altri magari sarà un vantaggio – è che Allix è andato ben oltre. Non si è accontentato del lavoro di ricerca sul fronte scientifico, ma ha sperimentato personalmente una serie di percorsi spirituali alternativi, pratiche come lo sciamanesimo, l'uso di sostanze psichedeliche come l'ayahuasca e la psilocibina (Lsd)

La sua storia comincia con un trauma personale: la morte del fratello in un incidente, mentre era insieme con lui su una strada in Afghanistan, nel 2001

La domanda «dov'è finito Thomas» ha fatto irruzione nella sua vita, allora aveva solo 32 anni. 

E l'ha spinto a cercarlo ovunque, anche nel mondo degli spiriti.

Quattro viaggi in Amazzonia, giorni e notti passate in una grotta nella foresta in stato di trance, sotto la guida di uno sciamano, bevendo «ayahuasca», una pozione con effetti «psicoattivi», e alla fine un «incontro ravvicinato». 

«Ho visto per la prima volta mio fratello un paio di anni dopo la sua morte. In quel momento non ero sicuro di queste esperienze. Quindi quando mi è apparso accovacciato al mio fianco non ci ho creduto. Il fatto sconcertante è avvenuto la mattina dopo: una persona che era stata con me durante la cerimonia nella giungla (Natacha, la compagna, ndr) mi ha rivelato di averlo veduto anche lei nello stesso momento e nello stesso luogo, e l'ha descritto esattamente come l'avevo visto io. Quell'evento mi ha aiutato a capire che era possibile vedere persone morte, anche da anni».

Domando a Stéphane se è riuscito a parlare con il fratello. «Non c'è stata una conversazione, ma un senso di presenza, di legame tra me e lui. È molto difficile da descrivere, e mi ci è voluto molto tempo per raccontarlo nel libro, perché volevo spiegare al lettore come sia sicuro che non era un'allucinazione, ma un'esperienza reale».

Stéphane ha poi proseguito su questa strada. Il seguito del suo libro è ricco di esperimenti con i medium, di descrizioni di fenomeni di chiaroveggenza (del «remote viewing» ha fatto uso regolare anche la Cia per scoprire segreti militari russi), e infine di sedute con assunzione di Lsd ad alto dosaggio. Io invece mi fermo qui, anche perché tutto questo esula dall'oggetto del mio interesse che è la morte e il suo mistero.

Piuttosto vorrei tornare alla «coscienza non locale»: secondo Allix è unica per tutti noi, è immortale?

«È una domanda chiave, una questione filosofica cui è davvero difficile rispondere. Ciò che sappiamo è che l'identificazione che abbiamo oggi con la nostra personalità – il mio nome è Stéphane, sono Stéphane, ho il corpo di Stéphane – non è la realtà finale dell'anima. È una sorta di abito che la mia coscienza indossa ora, nel corso della mia vita quotidiana, nel tempo e nello spazio. Ma quando morirò, perderò il mio corpo, perderò la mia identità, perderò il mio volto e la mia identificazione in una persona definita, e diventerò qualcosa di più grande. Anzi, la mia coscienza ri-diventerà più grande, perché è già più grande in questo momento, anche se ancora totalmente legata al mio corpo. Tu mi chiedi se tutto ciò vuol dire che a un certo punto, dopo la morte, le nostre identità si dissolvono sempre di più e diventiamo un tutt'uno. È il contenuto di molti insegnamenti spirituali, ma confesso di non avere una risposta a questa domanda».

Ma non bastava il Cristianesimo? In fin dei conti predica da duemila anni che la morte non esiste… «Si è cristiani, o buddisti, o ebrei, o musulmani perché si crede. La fede per me non era un modo razionale di affrontare la questione della vita dopo la morte. Volevo risposte verificate, volevo risposte scientifiche, e per me la religione è qualcosa di diverso. Come giornalista, volevo usare gli strumenti razionali del mio mestiere».

Gli chiedo se tutto il lungo viaggio – quindici anni di ricerche – che ha intrapreso alla ricerca di Thomas non sia stato in fondo un modo di prepararsi alla sua propria morte, e di preparare ad essa anche la figlia Luna: il libro è scritto come una specie di lunga lettera a lei… «No, questo è stato un effetto collaterale della mia indagine», risponde. «All'inizio la mia motivazione era semplicemente cercare una risposta alla domanda su che cosa sia la coscienza. Ovviamente ha cambiato la mia visione della vita, e ora è di ispirazione per me e anche per mia figlia, dato che ho condiviso tutto con lei. Ma questo non era il mio obiettivo all'inizio».

Il racconto di Stéphane delle sue iniziazioni con gli sciamani in Amazzonia, con le sostanze psichedeliche, con la Lsd, è spesso intriso anche di sofferenza fisica e psichica. Non è stato insomma un processo indolore. Gli chiedo se ne sia valsa la pena, e se lo consiglierebbe a sua figlia.

«Sì, certo che ne è valsa la pena. È come se tu mi chiedessi se è valsa la pena passare un anno a coprire la guerra in Afghanistan. Ne è valsa la pena perché mi ha permesso di fare il mio lavoro di giornalista, che per me consiste nel recarmi in luoghi dove altre persone non possono andare perché sono troppo pericolosi o complicati da raggiungere, e nel riportarne informazioni accurate. Questo è ciò che ho fatto in Afghanistan quando ero corrispondente di guerra, e questo è ciò che ho fatto negli ultimi anni viaggiando ai confini della morte. Ne è valsa la pena perché credo di aver trovato molte risposte razionali. Luna potrebbe seguire questa stessa strada? Perché no? È un viaggio straordinario che ti conduce verso una dimensione spirituale. Io parlo di questi argomenti con mia figlia da quando aveva tre anni e lei già sfrutta nella sua vita quotidiana la conoscenza che condivido sempre con lei. Non so se sarà disposta a fare un'esperienza del genere, ma forse ha già iniziato a farla».

Dopo aver letto il libro di Stéphane, e averne conversato con lui, debbo riferire al lettore di aver passato alcune notti agitate. Ho avuto visioni di mio padre defunto, ho ricordato i suoi ultimi momenti, immaginato come sarà la mia morte. Poi la mia «coscienza locale», quella banale e minore che risiede nel cervello, quella di tutti i giorni, ha preso il sopravvento, ha interrotto il mio conato di «viaggio nell'aldilà», e sono tornato a dormire bene. Ho tirato un sospiro di sollievo. Sarò codardo, ma per il momento ho deciso di tenermela stretta.

 

Per chi ha sentito parlare di queste esperienze o le ha vissute, non c’è niente di nuovo, neppure le sostanze psicotrope degli sciamani dell’Amazzonia (spiegate nei libri di Castaneda) o di quelle usate in rianimazione, che potrebbero provocare simili esperienze. Purtroppo, queste esperienze provano solo che, in stati estremi, il cervello può entrare in situazioni abnormi .  Senza contare che chi le racconta non è veramente morto, ma è stato vicino alla morte.

Però non a tutti succede e nessuno è ritornato mai da una morte durevole, dopo ore o giorni. Il che vorrà pur dire qualcosa. Anche certi sogni o certe esperienze di meditazione possono provocare stati del genere.

Quello che colpisce è la divisione netta fra vita e morte, come se ci fosse un muro invalicabile. Perché? Perché il mistero? Perché la realtà adora il mistero? E si nasconde? Forse si vergogna di quel che ha combinato?

Resta il fatto che, finché qualcuno non riuscirà a entrare e a uscire a volontà dalla morte, come si entra e si esce da un sogno, venendoci a raccontare che cosa ha visto, non possiamo dare un significato oggettivo a queste esperienze, che restano soggettive.

 

 



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