Riporto questo articolo di Antonio Polito perché parla di un argomento che interessa tutti: la vita dopo la morte:
Stéphane
Allix è un giornalista di lungo
corso, quindici anni reporter di guerra. Ha pubblicato in Francia un libro per
molti aspetti inquietante che ha venduto 200mila copie. S'intitola «La
morte non esiste»: in fin dei conti è ciò che tutti vorremmo sentirci
dire. Sostiene che «quando si muore non si smette di vivere, si cambia
mondo». Gli chiedo che cosa glielo faccia pensare.
«Non è che io lo pensi, non è una credenza. Sono arrivato a questa
conclusione dopo anni di indagine, tra ricerche scientifiche ed esperienze
personali. La mia è un'inchiesta giornalistica, e mi ha portato alla
convinzione che la coscienza non scompare nel momento della morte. Esiste un
aspetto più profondo e misterioso della coscienza, e sembra che continui a
esistere quando il cervello non funziona più. Questa non è un'idea, né qualcosa
che vada contro l'osservazione scientifica; è un'esperienza che possiamo fare
in molti ambiti legati alla coscienza», come i «vissuti soggettivi di
contatto con un defunto» (Vscd), i fenomeni di lucidità terminale, gli stati di
coma vigile, le percezioni extrasensoriali.
Il pezzo forte
del ragionamento di Allix mi sembrano però quelle che nelle neuroscienze
vengono chiamate «near death experiences» (Nde). Esperienze di
pre-morte vissute, ricordate e poi narrate da «vittime di incidenti che,
durante i tentativi di rianimazione, hanno avuto l'impressione di
osservare la scena dall'alto, come se fossero uscite dal proprio corpo e
avessero assistito al loro presunto decesso». Se ne parla ormai da decenni,
sono state raccolte e pubblicate numerosissime testimonianze del genere che
convergono spesso anche su dettagli molto precisi, come «la visione di
una luce intensa, una profonda sensazione di benessere, di essere immersi
nell'amore, e l'incontro con cari defunti o entità spirituali».
Ebbene Allix,
sulla base di una serie di interviste e di ricerche sul campo, in particolare
sul lavoro di un cardiologo olandese, Pim van Lommel, pubblicato su The
Lancet, si è convinto che «è possibile essere coscienti anche
quando tutte le funzioni cerebrali sono cessate».
Queste Nde non
sarebbero infatti il frutto di una semplice attività residua del cervello, come
molti scienziati affermano, ma al contrario l'esito di una coscienza
più profonda, che non risiede nell'attività neuronale del cervello, ma anzi è
come liberata dalla morte fisica: «Abbiamo oggi molti studi accurati su
persone che hanno subito un arresto cardiaco: sappiamo con sicurezza dalle
cartelle cliniche che il loro cervello aveva smesso totalmente di
funzionare, oppure funzionava solo al 20/30%, e nonostante ciò
hanno mantenuto uno stato di coscienza molto vivido, tant'è che dopo erano
in grado di ricordarsene. Credo di aver ottenuto evidenze consistenti che rendono
molto solida l'ipotesi della vita dopo la morte, che cioè la coscienza possa
continuare a esistere dopo che il cervello si ferma».
Allix usa il
termine evidence perché la nostra conversazione si svolge in
inglese, e lui lo ritiene più accurato di proof, parola che – dice
– «è usata solo in matematica, mentre in scienze come la fisica e la biologia
si parla di solito di evidence».
Capite bene
che Stéphane sta praticamente sostenendo che esistono indizi
scientificamente validi dell'immortalità dell'anima, se così possiamo chiamare
la coscienza. È perciò il caso di spiegare bene a che si riferisca, e per
farlo dobbiamo entrare nell'unità coronarica di un ospedale. Questo è il
racconto di un'infermiera, raccolto e verificato nel lavoro di van Lommel:
«Arriva un uomo di 45 anni, cianotico e in coma. È stato trovato in un giardino
pubblico da alcuni passanti, che gli hanno praticato un accenno di massaggio cardiaco.
Viene sottoposto a ventilazione meccanica, con casco e maschera, massaggio
cardiaco e defibrillazione. A un certo punto, prima di cambiare il sistema di
respirazione per intubare il paziente, noto che porta una protesi dentale.
Così, prima di intubarlo, ne rimuovo la parte superiore e la poso sul
carrello». Il paziente va in terapia intensiva e alla fine si salva. Una
settimana dopo viene riportato in unità coronarica e un giorno incrocia
l'infermiera. «Appena mi vede esclama: “Oh, quell'infermiera sa dov'è la mia
dentiera…, era lì quando mi hanno portato in ospedale, mi ha tolto la
dentiera dalla bocca e l'ha messa sul carrello…”». L'uomo ricorda nel
dettaglio ciò che è successo mentre era in arresto cardiaco e al suo cervello
non arrivava ossigeno.
È sulla base
dei non pochi casi analoghi che Allix afferma l'esistenza di un livello di
coscienza indipendente dal cervello. E il fatto che le neuroscienze, discipline
ancora agli albori secondo lui, non possano confermarlo, non esclude che sia
così. «D'altra parte» ci ricorda «non è davvero il solo caso in cui la nostra
cultura scientifica è incapace di spiegare ciò che accade». La scienza in
effetti può accertare ciò che è falso, non stabilire ciò che è vero. Stéphane
ammette che «per ora abbiamo solo ipotesi, non c'è ancora una vera teoria per
spiegarlo». Ma proprio per questo continuare a cercare è giusto. «Cosa
chiamiamo morte? È solo un'interruzione del funzionamento del corpo e del
cervello. Ma noi non siamo solo corpo, e questo lo sappiamo da millenni
anche grazie ai diversi insegnamenti spirituali. C'è qualcosa molto in
profondo nel nostro essere che possiamo chiamare anima o coscienza, e che
continua a esistere quando corpo e cervello smettono di funzionare». Nel libro
è definita come «coscienza fondamentale non locale».
«Ho preso in
prestito l'espressione “non locale”» dice Stéphane «dalla fisica quantistica.
Per secoli abbiamo creduto che l'atomo fosse una sorta di piccolissimo
pezzettino di materia che poteva essere localizzato in un unico punto nello
spazio e nel tempo. Ora invece sappiamo che questo piccolissimo pezzo non è
materia e non è localizzato nello spazio e nel tempo: è “non locale”, e non
segue le stesse regole degli oggetti macroscopici, compreso il nostro corpo.
Quindi “coscienza fondamentale non locale” per me descrive lo stato che
la coscienza può raggiungere quando moriamo, quando è liberata
dall'attività cerebrale e riconquista tutte le sue capacità».
Per spiegarsi,
usa la metafora del «cloud»: «Il nostro cervello potrebbe essere immaginato con
uno smartphone: la maggior parte delle informazioni accessibili non è
dentro il “device”, è in una specie di “cloud spirituale”. Nella vita di
ogni giorno non ne siamo consapevoli perché il cervello funziona per
proteggerci e adattarci al mondo in cui viviamo. E perciò imprigiona la
capacità ‘non locale' della coscienza. Nel libro vado molto nel dettaglio di
questo processo».
Il problema –
almeno per un lettore come me, per altri magari sarà un vantaggio – è che Allix
è andato ben oltre. Non si è accontentato del lavoro di ricerca sul fronte
scientifico, ma ha sperimentato personalmente una serie di percorsi
spirituali alternativi, pratiche come lo sciamanesimo, l'uso di sostanze
psichedeliche come l'ayahuasca e la psilocibina (Lsd).
La sua storia
comincia con un trauma personale: la morte del fratello in un
incidente, mentre era insieme con lui su una strada in Afghanistan, nel 2001.
La domanda
«dov'è finito Thomas» ha fatto irruzione nella sua vita, allora aveva solo 32
anni.
E l'ha spinto a
cercarlo ovunque, anche nel mondo degli spiriti.
Quattro viaggi
in Amazzonia, giorni e notti passate in una grotta nella foresta in stato di
trance, sotto la guida di uno sciamano, bevendo «ayahuasca», una pozione con
effetti «psicoattivi», e alla fine un «incontro ravvicinato».
«Ho visto
per la prima volta mio fratello un paio di anni dopo la sua morte. In quel momento non ero sicuro di queste
esperienze. Quindi quando mi è apparso accovacciato al mio fianco non ci ho
creduto. Il fatto sconcertante è avvenuto la mattina dopo: una persona che era
stata con me durante la cerimonia nella giungla (Natacha, la compagna, ndr) mi
ha rivelato di averlo veduto anche lei nello stesso momento e nello stesso
luogo, e l'ha descritto esattamente come l'avevo visto io. Quell'evento mi ha
aiutato a capire che era possibile vedere persone morte, anche da anni».
Domando a
Stéphane se è riuscito a parlare con il fratello. «Non c'è stata una
conversazione, ma un senso di presenza, di legame tra me e lui. È molto
difficile da descrivere, e mi ci è voluto molto tempo per raccontarlo nel
libro, perché volevo spiegare al lettore come sia sicuro che non era
un'allucinazione, ma un'esperienza reale».
Stéphane ha poi
proseguito su questa strada. Il seguito del suo libro è ricco di esperimenti
con i medium, di descrizioni di fenomeni di chiaroveggenza (del «remote
viewing» ha fatto uso regolare anche la Cia per scoprire segreti militari
russi), e infine di sedute con assunzione di Lsd ad alto dosaggio. Io invece mi
fermo qui, anche perché tutto questo esula dall'oggetto del mio interesse che è
la morte e il suo mistero.
Piuttosto
vorrei tornare alla «coscienza non locale»: secondo Allix è unica per
tutti noi, è immortale?
«È una domanda
chiave, una questione filosofica cui è davvero difficile rispondere. Ciò che
sappiamo è che l'identificazione che abbiamo oggi con la nostra
personalità – il mio nome è Stéphane, sono Stéphane, ho il corpo di Stéphane –
non è la realtà finale dell'anima. È una sorta di abito che la mia
coscienza indossa ora, nel corso della mia vita quotidiana, nel tempo e nello
spazio. Ma quando morirò, perderò il mio corpo, perderò la mia
identità, perderò il mio volto e la mia identificazione in una persona
definita, e diventerò qualcosa di più grande. Anzi, la mia coscienza
ri-diventerà più grande, perché è già più grande in questo momento, anche se
ancora totalmente legata al mio corpo. Tu mi chiedi se tutto ciò vuol dire che
a un certo punto, dopo la morte, le nostre identità si dissolvono sempre di più
e diventiamo un tutt'uno. È il contenuto di molti insegnamenti spirituali, ma
confesso di non avere una risposta a questa domanda».
Ma non
bastava il Cristianesimo? In fin dei conti predica da duemila anni che
la morte non esiste… «Si è cristiani, o buddisti, o ebrei, o musulmani
perché si crede. La fede per me non era un modo razionale di affrontare la
questione della vita dopo la morte. Volevo risposte verificate, volevo risposte
scientifiche, e per me la religione è qualcosa di diverso. Come giornalista,
volevo usare gli strumenti razionali del mio mestiere».
Gli chiedo se
tutto il lungo viaggio – quindici anni di ricerche – che ha intrapreso alla
ricerca di Thomas non sia stato in fondo un modo di prepararsi alla sua propria
morte, e di preparare ad essa anche la figlia Luna: il libro è scritto come una
specie di lunga lettera a lei… «No, questo è stato un effetto collaterale della
mia indagine», risponde. «All'inizio la mia motivazione era semplicemente
cercare una risposta alla domanda su che cosa sia la coscienza. Ovviamente ha
cambiato la mia visione della vita, e ora è di ispirazione per me e anche per
mia figlia, dato che ho condiviso tutto con lei. Ma questo non era il mio
obiettivo all'inizio».
Il racconto di
Stéphane delle sue iniziazioni con gli sciamani in Amazzonia, con le sostanze
psichedeliche, con la Lsd, è spesso intriso anche di sofferenza fisica e
psichica. Non è stato insomma un processo indolore. Gli chiedo se ne sia valsa
la pena, e se lo consiglierebbe a sua figlia.
«Sì, certo che
ne è valsa la pena. È come se tu mi chiedessi se è valsa la pena passare un
anno a coprire la guerra in Afghanistan. Ne è valsa la pena perché mi ha
permesso di fare il mio lavoro di giornalista, che per me consiste nel recarmi
in luoghi dove altre persone non possono andare perché sono troppo pericolosi o
complicati da raggiungere, e nel riportarne informazioni accurate. Questo è ciò
che ho fatto in Afghanistan quando ero corrispondente di guerra, e questo
è ciò che ho fatto negli ultimi anni viaggiando ai confini della morte. Ne
è valsa la pena perché credo di aver trovato molte risposte razionali. Luna
potrebbe seguire questa stessa strada? Perché no? È un viaggio straordinario
che ti conduce verso una dimensione spirituale. Io parlo di questi argomenti
con mia figlia da quando aveva tre anni e lei già sfrutta nella sua vita
quotidiana la conoscenza che condivido sempre con lei. Non so se sarà disposta
a fare un'esperienza del genere, ma forse ha già iniziato a farla».
Dopo aver letto
il libro di Stéphane, e averne conversato con lui, debbo riferire al lettore di
aver passato alcune notti agitate. Ho avuto visioni di mio padre
defunto, ho ricordato i suoi ultimi momenti, immaginato come sarà la mia morte. Poi
la mia «coscienza locale», quella banale e minore che risiede nel cervello,
quella di tutti i giorni, ha preso il sopravvento, ha interrotto il mio conato
di «viaggio nell'aldilà», e sono tornato a dormire bene. Ho tirato un sospiro
di sollievo. Sarò codardo, ma per il momento ho deciso di tenermela stretta.
Per chi ha
sentito parlare di queste esperienze o le ha vissute, non c’è niente di nuovo,
neppure le sostanze psicotrope degli sciamani dell’Amazzonia (spiegate nei
libri di Castaneda) o di quelle usate in rianimazione, che potrebbero provocare
simili esperienze. Purtroppo, queste esperienze provano solo che, in stati
estremi, il cervello può entrare in situazioni abnormi . Senza contare
che chi le racconta non è veramente morto, ma è stato vicino alla morte.
Però non a
tutti succede e nessuno è ritornato mai da una morte durevole, dopo ore o
giorni. Il che vorrà pur dire qualcosa. Anche certi sogni o certe esperienze di
meditazione possono provocare stati del genere.
Quello che colpisce è la divisione netta fra vita e morte, come se ci fosse un muro invalicabile. Perché? Perché il mistero? Perché la realtà adora il mistero? E si nasconde? Forse si vergogna di quel che ha combinato?
Resta il fatto
che, finché qualcuno non riuscirà a entrare e a uscire a volontà dalla morte, come
si entra e si esce da un sogno, venendoci a raccontare che cosa ha visto, non
possiamo dare un significato oggettivo a queste esperienze, che restano soggettive.
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