giovedì 26 settembre 2024

Coscienza e autocoscienza



C’è una differenza tra coscienza e autocoscienza, in quanto la prima è diretta agli oggetti esterni ed è connessa alla nostra percezione del mondo (e quindi è comune agli altri animali), mentre la seconda è la consapevolezza di essere coscienti, e sembra tipica degli esseri umani. La prima è una sensazione rivolta all’esterno, mentre la seconda è una consapevolezza interiore che sviluppiamo quando riflettiamo sul nostro essere coscienti: è la visione interiore contrapposta alla visione esteriore delle cose.

Ma la distinzione è puramente teorica, perché l’una presuppone l’altra. Io sono consapevole dell’oggetto di fronte a me perché sono cosciente contemporaneamente dell’oggetto e di me stesso. Anche il leone che incontra una gazzella è cosciente della gazzella e di se stesso. La differenza rispetto all’uomo è che l’uomo può rifletterci su, mentre il leone e la gazzella fanno tutto istintivamente. Il leone sa di sé mentre sa della gazzella, e la gazzella sa di sé mentre sa del leone.

Noi però possiamo ragionare e riflettere sul fenomeno stesso, mentre gli animali non possono farlo razionalmente, ma agiscono d’istinto. Tuttavia anche loro devono avere un’autocoscienza, altrimenti non saprebbero se scappare o inseguire. Quindi, dobbiamo dedurre che la coscienza presuppone sempre un’autocoscienza, più o meno chiaramente.

Anzi, dobbiamo dire che le due funzioni devono sempre andare insieme, perché se un essere vivente fosse solo cosciente dell’altro senza essere cosciente di sé, farebbe presto una brutta fine. Farebbe la fine della gazzella appena nata, che non sa ancora di poter essere la vittima di un leone. Ma le due forme di coscienza devono andare di pari passo, in qualsiasi essere vivente.

Riassumendo, l'autocoscienza si sviluppa sulla base della coscienza. Non possiamo essere consapevoli di noi stessi senza prima essere consapevoli del mondo che ci circonda. E viceversa.

Il bambino appena nato non ha ben chiaro di essere un individuo separato dall’ambiente. È ancora fuso con tutto. Il che evoca un senso di unità primordiale, un legame indissolubile con l'universo e con tutto ciò che esiste. Nei primi mesi di vita, il bambino non ha ancora sviluppato un senso del sé distinto dall'ambiente circostante. Le esperienze e le emozioni sono vissute in modo unitario, senza una netta separazione tra sé e gli altri.

Poi, con la crescita, il bambino inizia gradualmente a differenziare sé dagli altri e a costruire una rappresentazione mentale di sé stesso. Questo processo è influenzato da numerose variabili, tra cui le interazioni con i caregiver, le esperienze sensoriali e lo sviluppo cognitivo.

Quindi, possiamo dire che il bambino appena nato vive in una realtà molto diversa dalla nostra. Una realtà in cui i confini tra sé e il mondo sono più fluidi, in cui le esperienze sono vissute in modo più unitario e in cui la connessione con gli altri è profonda e immediata.

L'autocoscienza umana rappresenta un approfondimento della coscienza, un'ulteriore riflessione su se stessi. È come se la coscienza fosse uno specchio che riflette il mondo esterno, mentre l'autocoscienza fosse uno specchio che riflette lo stesso specchio.

Forse è per questo che in noi esiste sempre la nostalgia di quella fusione e l’impulso a fonderci, di ritornare a essere tutto, e non un individuo separato.

Perduta l’unità originaria, ci mettiamo a ricercarla, sia attraverso la fusione sessuale sia attraverso l’amore e le droghe  sia attraverso un’interpretazione della morte come ritorno al tutto.

Ma, in quest’ultimo caso, niente è sicuro. E rimane sempre il terrore dell’annullamento, del non poter conservare la propria identità.

Anche se, in fondo, il nulla e il tutto sono due aspetti della stessa cosa.

 

 

Comunque, nell’uomo, lo sviluppo più chiaro di un’autocoscienza significa sia una scissione fra sé e il mondo sia una scissione interiore in due funzioni: il soggetto che è autocosciente e il soggetto che diventa oggetto di conoscenza.

Io dico sempre, per chiarire il concetto, che è come essere due in uno. La coscienza, in fondo, è questo “essere due persone in uno”, due entità che convivono nello stesso corpo e che sono un po’ in disaccordo e un po’ in accordo. Insomma, c’è tra i due una dialettica continua, dove l’uno controlla l’altro, talvolta lo critica, ma non può farne a meno – come se ci fossero due gemelli siamesi.

Questo dualismo fondamentale si riflette, secondo me, nel dualismo del cervello, nel dualismo di tanti organi, nel dualismo della respirazione e nel dualismo del Dna. Dualismo inevitabile perché noi nasciamo da due opposti (il maschio e la femmina, il padre e la madre) che ci portiamo dietro per tutta la vita. Correggetemi se sbaglio.

Noi siamo sì una sintesi, un’unione, una saldatura – ma una saldatura in cui i due pezzi sono uniti, ma pur sempre distinguibili e spesso in contrasto.

Se aggiungiamo che l’unione forma una figura circolare e dinamica fra i due opposti, abbiamo una contrapposizione universale, che riguarda ogni aspetto della realtà, da quello fisico a quello mentale. Infatti, noi non possiamo concepire uno dei due poli senza concepire anche l’altro, non possiamo provare un sentimento o un’emozione senza provare i loro contrari.

L’uscita dalla fusione originale e la nascita di un’identità hanno un prezzo da pagare. Che, da quel momento, è la visione duale della realtà.

Quando ci riferiamo allo stato fusionale originario, quando diciamo che in fondo gli opposti coincidono, ci riferiamo all’origine delle cose, che non può non essere unitaria. Prima le cose sono unite, poi si dividono – e si dividono in coppie uguali e contrastanti che io chiamo diadi.

La sfida adesso è superare le diadi e, pur rimanendo separati, ritrovare l’unità perduta, almeno a livello mentale. 

Quello che ci incoraggia è che esistono già esempi di funzioni duali unitarie. Per esempio, quando parliamo di respirazione, vediamo benissimo che è composta da due fasi contrastanti: l’inspirazione e l’espirazione. Ma questo forse è l’unico caso di una funzione unitaria in cui abbiamo per esprimere la divisione nell’unione.

Però, non abbiamo concetti che esprimano la dualità maschio/femmina , luce/buio, amaro/dolce, bello/brutto, bene/male, ecc. Come li pensiamo, come li nominiamo in quanto unità duale? Ci mancano i concetti pur sapendo che sono aspetti diversi di fenomeni unitari. Tant’è vero che il modello maschio/femmina a un certo livello fetale è proprio lo stesso.

Prendiamo la contrapposizione di bianco/nero, cioè di colori. Noi sappiamo benissimo che esistono tantissime gradazioni di nero e di bianco, tantissime gradazioni di grigio.

Ma quante sono?

Praticamente infinite.

Potrebbe sembrare contraddittorio, dato che si parla di soli due colori, ma in realtà la scala di grigi che va dal bianco puro al nero assoluto è praticamente illimitata. Anche se l’occhio umano è in grado di distinguere un numero incredibilmente vasto di sfumature di grigio, non possiamo quantificare esattamente questo numero, ed è chiaro che le possibilità sono praticamente infinite.

Anche dal punto di vista tecnologico, la rappresentazione digitale del bianco e nero permette di definire un numero elevatissimo di livelli di grigio. Ad esempio, una scala di grigi a 8 bit può rappresentare 256 tonalità diverse, mentre una scala a 16 bit ne può rappresentare ben 65.536.

Quindi, anche se possiamo definire delle scale di grigio standard (come quella a 256 livelli), la realtà è che le gradazioni possibili sono innumerevoli.

Un altro aspetto interessante è che il bianco e il nero assoluti sono difficili da ottenere in pratica.

  • Il bianco più puro: È ottenuto quando tutta la luce viene riflessa da una superficie.
  • Il nero più puro: Si ottiene quando tutta la luce viene assorbita da una superficie.

Tuttavia, nella realtà, anche il bianco più brillante contiene delle tracce di colore e il nero più profondo ha sempre una leggera luminosità.

In conclusione, il bianco e il nero sono due estremi di una scala continua che comprende un numero infinito di gradazioni.

Perché ho fatto questo discorso? Perché riguarda tutte le diadi. Per esempio, quante sono le gradazioni fra bene e male o fra alto e basso? Praticamente infinite.

È per questo che le diadi, come nell’antico Taoismo, vanno considerate oscillanti fra infinite gradazioni.

Se prendiamo ora la diade soggetto/oggetto, dobbiamo ammettere che anche qui devono esserci tantissime gradazioni. Noi consideriamo le polarità come semplicemente duali, mentre in realtà si manifestano in infinite gradazioni, dato che vanno considerate in continuo movimento reciproco. Quindi, quando parliamo di dualismo, usiamo un’astrazione limite.

Anche i dualismo tra due polarità può avere infinite gradazioni.

Qui ci avviciniamo alla meccanica quantistica.  La luce, alla base della percezione dei colori, esibisce sia proprietà ondulatorie che corpuscolari. Questa dualità potrebbe suggerire una natura intrinsecamente quantistica della percezione del colore, anche se in scala macroscopica.

Inoltre, se l'atto di misurare una proprietà quantistica può influenzare il sistema stesso, analogamente, la nostra percezione del colore è un processo di misurazione che coinvolge l'interazione tra la luce e i nostri recettori visivi.

Ma quel che voglio concludere è che il termine “dualismo”, da me usato spesso, non deve portare a credere che siano in gioco solo due polarità, bensì dinamicamente, molte gradazioni di queste polarità, forse infinite.

La realtà è molto più complessa delle nostre astrazioni e semplificazioni.

Questo deve applicarsi anche alla coscienza: ci devono essere infinite gradazioni di coscienza. E noi siamo ai primi livelli, appena al di sopra degli animali.

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