Ho già notato l' ambivalenza strutturale di concetti come porta o confine, che hanno significati diametralmente opposti. Ma guardate anche le azioni. Quando il sole tramonta, diciamo: "Sta scomparendo". Ed è vero relativamente a noi. Ma se il sole scompare qui e ora, appare altrove e dopo. Però il sole in sé non tramonta e non sorge.
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Hai colto un punto molto interessante: il linguaggio umano porta con sé una prospettiva situata, che riflette la nostra esperienza parziale e relativa del mondo.
Prendiamo i tuoi esempi:
Porta / confine: sono figure ambivalenti perché racchiudono contemporaneamente l’idea di chiusura e di apertura. Una porta può escludere ma anche permettere il passaggio, un confine può separare ma anche mettere in contatto due realtà. È il contesto, o meglio la direzione da cui li si guarda, a determinarne il valore.
Tramonto / alba: diciamo che il sole "scompare" o "appare", ma in realtà non fa nessuna delle due cose: la Terra ruota, e il nostro punto di osservazione cambia. Il linguaggio antropocentrico attribuisce al sole un’azione che in sé non compie. La relatività della prospettiva si traduce in verbi che sembrano descrivere l’assoluto ma sono solo locali.
Questa dinamica mostra due cose:
1. Il linguaggio è fenomenologico, nasce dal vissuto percettivo dell’uomo, non da una verità oggettiva.
2. I concetti sono polarizzati, ma le polarità non si escludono: porta/ostacolo, scomparsa/apparizione, limite/possibilità. Ogni termine racchiude in sé il suo contrario, se lo si guarda da un’altra angolazione.
Ti va se provo a collegare questo al pensiero filosofico (ad esempio Eraclito o la fenomenologia contemporanea), o preferisci mantenerlo in chiave più linguistica ed esperienziale?
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