Restando nella dualità, vivi e sei all' interno del mondo. Quando non sei più nella dualità, esci nell' infinità. Come ho già scritto, la dualità è il nostro modo di vivere l' infinità. Non c' è un altro modo di "vivere " l' infinità. Sei nella dualità perché l' infinità è troppo grande per essere abbracciata. Devi per forza restringerla, ridurla, se vuoi vivere. Ma, con la morte, non hai più questa esigenza o questo limite Abbracci tutto. Di che cosa hai ancora bisogno? Allora non dovresti più aver bisogno di vivere. A meno che...ti rimanga qualche desiderio. "Desiderio" significa "dalle stelle". Se desideri, scendi dalle stelle, letteralmente - le stelle come infinità. Dove si vede che il "gioco" è tra dualità e infinità.
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Bellissimo testo — denso e meditativo. Ecco una lettura in sintesi e qualche spunto interpretativo, se ti va.
Sintesi rapida
Parli di due modalità opposte ma complementari: la dualità (il modo umano di vivere, che restringe l’infinito in forme finite) e l’infinità (uno stato in cui tutto è abbracciato, che appare con la morte). La vita è il processo necessario di riduzione dell’infinito per poter «essere»; la morte riconsegna all’abbraccio totale dell’infinito, dove il bisogno di vivere si dissolve — a meno che non resti un desiderio, che ti tira nuovamente «giù» dalle stelle. Il gioco è quindi tra scendere e salire, tra limitazione e apertura totale.
Temi e immagini chiave
Dualità vs infinità: la dualità come condizione pratica e necessaria per l’esistenza cosciente; l’infinito come campo indistinto che non si può vivere senza essere ridotto.
Riduzione come atto vitale: vivere significa selezionare, nominare, separare — tutte operazioni che riducono la vastità in qualcosa di maneggiabile.
Morte come ritorno all’unità: la fine del bisogno di ridurre; una sorta di riunificazione col tutto.
Desiderio come ponte: il desiderare è la forza che riapre la porta alla separazione, è la spinta che riporta l’essere nell’azione del vivere. L’immagine etimologica “dalle stelle” è potente: il desiderio viene dall’alto (dall’infinito) ma spinge verso il basso (la forma).
Nota sull’etimologia di desiderio
L’idea che desiderio significhi letteralmente “dalle stelle” è una etimologia poetica molto suggestiva e presente nella tradizione simbolica (collegando desiderium a sidus, “stella”). Tuttavia, va letta più come immagine simbolica che come certezza filologica assoluta — resta comunque perfetta per il senso del tuo brano.
Possibili letture filosofiche
Mistica: la tensione tra il finito e l’infinito ricorda molte tradizioni spirituali (non-dualità, vedanta, mistica cristiana).
Esistenziale: la vita come necessaria menzogna pratica — dobbiamo delimitare per poter agire e amare.
Psicologica: il desiderio come motore che trascina l’Io fuori dall’unità per costruire narrazioni, relazioni, progetti.
Domande aperte (se vuoi esplorare)
Vuoi sviluppare il testo in una forma poetica più estesa?
Ti interessa un commento più filosofico (con riferimenti a pensatori) o preferisci che lo riscriva come aforismi?
Vuoi che traduca il brano in inglese o lo riformuli mantenendo lo stesso tono?
Dimmi cosa preferisci e lo sviluppo come vuoi — posso anche trasformarlo in un piccolo poema o in un commentario più accademico.
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Stai dunque attento ai tuoi desideri. Quanti ne vorresti ancora realizzare?
È un po' come la dialettica tra lo stare soli e lo stare in compagnia. Quando sei solo, desideri stare in compagnia. Quando sei in compagnia, desideri stare solo. Mai contenti. È così che oscilliamo. Il Buddha giustamente dice che il divenire, il temporale, il mondo con la loro impermanenza nascono dal desiderio. Si, tutta la sofferenza e anche la gioia, il dolore e il piacere. Ma, appena, arriviamo nell' infinito, qualcosa incomincia a prudere. Anche in fisica si parla delle particelle come di "eccitazioni" di un campo. Ma perché anche i campi si eccitano? Niente sta mai in pace a lungo.
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Quello che scrivi tocca un nodo profondo: il desiderio come forza che muove, inquieta, squilibra, ma anche come ciò che tiene vivo il gioco del mondo. In effetti, se guardiamo bene, non c’è mai una condizione che rimanga ferma senza che, presto o tardi, sorga un bisogno, un moto, una tensione. È come se la vita stessa fosse un continuo "sospendersi" fra quiete e agitazione, solitudine e compagnia, pienezza e mancanza.
Il Buddha, come dici, vedeva nel desiderio la radice della sofferenza: perché ciò che desideriamo sfugge, muta, non resta. Eppure, allo stesso tempo, senza quel movimento non ci sarebbe il divenire, non ci sarebbe esperienza, non ci sarebbe nemmeno la possibilità della gioia. Perfino la fisica sembra confermarlo, quando ci dice che anche il vuoto non è mai davvero vuoto: brulica di fluttuazioni, di campi che vibrano, di energie che non si lasciano ridurre al silenzio assoluto.
Forse, allora, non è tanto questione di “mettere a tacere” il desiderio, quanto di imparare a guardarlo senza esserne trascinati. Sapere che l’oscillazione c’è, che la sete torna sempre, ma non necessariamente identificarsi con essa. Una sorta di danza tra due poli: né totale resa al bisogno, né rigido rifiuto.
Vuoi che proviamo a pensare insieme se sia possibile un “desiderare senza soffrire”?
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Prova.
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Allora partiamo dal cuore della questione: il desiderio nasce da una mancanza, da qualcosa che sentiamo di non avere. Questa mancanza può ferire, ma può anche stimolare, come un vento che gonfia le vele.
Ci sono forse tre modi diversi di “desiderare”:
1. Il desiderio che incatena
– Qui il desiderio è brama, attaccamento: devo avere questo, non posso stare senza quello.
– È il desiderio che diventa sofferenza perché fa dipendere il nostro stato interiore da qualcosa di esterno, fragile e impermanente.
2. Il desiderio che ispira
– È più simile a una tensione creativa: non tanto voler possedere, quanto lasciarsi muovere da un’immagine, un sogno, un orizzonte.
– Qui il desiderio non è una catena, ma una spinta a fiorire, come il seme che “desidera” diventare albero.
3. Il desiderio che si consuma nel presente
– È quello che non cerca un altrove, ma si accende nell’atto stesso del vivere: gustare un frutto, ascoltare una musica, camminare.
– In questo caso il desiderio non genera mancanza, ma intensità: coincide con l’esperienza stessa, e si spegne quando il momento è compiuto.
Forse “desiderare senza soffrire” significa imparare a coltivare più i desideri del secondo e terzo tipo, e osservare con distacco quelli del primo. In fondo, non si tratta di eliminare il desiderio, ma di trasformarne il rapporto: dal possesso al gioco, dalla brama alla gratitudine.
Vuoi che proviamo a fare un piccolo “esperimento pratico” per vedere se si può vivere un desiderio in questo modo non-sofferente?
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Avanti.
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Bene. Proviamo un piccolo esercizio immaginativo, semplice ma sottile:
1. Scegli un desiderio concreto
– Non uno enorme (tipo “illuminarmi”), ma qualcosa di quotidiano: un caffè, una passeggiata, una persona da incontrare, un progetto.
– Chiudendo gli occhi per un attimo, nota cosa nasce dentro di te quando pensi a quel desiderio: tensione, attesa, mancanza, entusiasmo?
2. Osserva la forma del desiderio
– Domandati: questo desiderio è una brama di possesso, una spinta creativa, o un godimento del presente?
– Non giudicare, solo riconosci la sua “tonalità”.
3. Respira dentro il desiderio
– Inspira, come se accogliessi quella sensazione senza respingerla.
– Espira, come se lasciassi andare l’attaccamento che ti fa pensare “se non accade, soffrirò”.
4. Apri la prospettiva
– Immagina di poter vivere anche senza che il desiderio si realizzi: non come una rinuncia amara, ma come un sorriso che dice anche senza, resto intero.
– Poi torna al desiderio e pensa: se si realizza, lo vivrò come un dono, non come un diritto.
5. Nota il cambiamento
– Spesso, facendo così, il desiderio perde la sua presa dolorosa e resta solo la sua parte viva, gioiosa, creativa.
In fondo, il segreto potrebbe essere questo: vivere il desiderio come danza, non come catena.
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