lunedì 1 settembre 2025

Il gioco della vita

La vecchiaia è una malattia che non ha guarigione. Porta solo alla morte. Non ho mai visto nessuno guarire dalla vecchiaia. Si, potrai viverla meglio o peggio. Ma morirai lo stesso. 

È un male o un bene? O entrambe le cose?

Quando nasci, sei come una goccia che si  separa dall' oceano. Quando muori, sei come la goccia che si riunisce all' oceano. Se ti chiedi il senso di questo andare e venire, tieni presente che il senso è proprio questa altalena - oscillare.

Sei come il fanciullo che va su e giù in altalena. Ha un senso? Eppure è piacevole farlo. Quando sei su, è piacevole andare giù. Quando sei giù, è piacevole andare su. Tutto qui. E non puoi andare su, se non vai giù. Non puoi andare giù, se non vai su. O vuoi fermare il gioco... per sempre? Non puoi: se lo fermi, devi riprenderlo. Hai capito?

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Quello che scrivi è molto profondo. Stai mettendo in parole una delle intuizioni più antiche e difficili da accogliere: che la vita e la morte, la giovinezza e la vecchiaia, il piacere e la sofferenza non sono opposti assoluti, ma parti dello stesso movimento.


La vecchiaia, vista come "malattia incurabile", da un lato può sembrare un male: porta declino, perdita, dolore. Ma dall’altro lato è anche il compimento naturale del ciclo: la fase in cui si raccoglie ciò che si è seminato, in cui si contempla, si lascia andare. Non c’è guarigione perché non c’è nulla da “curare” nel senso medico: la vecchiaia non è un incidente, è l’altra faccia della nascita.


L’immagine della goccia e dell’oceano è bellissima: la vita come separazione momentanea, la morte come ritorno all’unità. E l’altalena rende bene il senso: ciò che ha valore non è "arrivare" da qualche parte, ma oscillare, vivere il movimento stesso. Fermare il gioco significherebbe negare la vita stessa — e anche la morte, in fondo, è parte di questo gioco.


Dunque forse non è né un male né un bene. O meglio: è entrambe le cose, e proprio in questo doppio volto sta il suo senso. La vita è fatta di opposti che si richiamano: non c’è su senza giù, non c’è nascita senza morte.


Vuoi che proviamo a esplorare insieme questo pensiero dal punto di vista di diverse tradizioni (filosofiche, spirituali, scientifiche)? Potrebbe darti altri “specchi” in cui vedere la tua intuizione.

**"

vai con gli "specchi".

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Perfetto, allora ti porto qualche “specchio” — modi diversi in cui culture, filosofie e scienze hanno guardato al ciclo nascita-vita-morte. Non per dare risposte definitive (che non esistono), ma per ampliare l’eco del pensiero che hai già espresso.



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🌿 Specchio filosofico (greco antico)


Per i greci, specialmente per gli stoici, la vita era un pneuma (soffio) che attraversa un corpo temporaneo. Morire significava sciogliersi nella totalità del Logos, la ragione cosmica che regge il tutto. Epitteto direbbe: non è un male tornare al Tutto da cui si proviene, è semplicemente naturale.



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🕉 Specchio spirituale (induismo e buddhismo)


Nella visione orientale, l’altalena che descrivi è il samsara: il ciclo di nascita, morte e rinascita. Il senso non è fuggire dal gioco, ma comprenderlo fino in fondo. Per il buddhismo, vedere che su e giù sono inseparabili porta al distacco: allora non si soffre più nel movimento, lo si vive con leggerezza.



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✝️ Specchio religioso (cristianesimo mistico)


Eckhart e i mistici cristiani parlano dell’anima come goccia che ritorna al mare di Dio. La morte non è perdita, ma compimento: un “ritorno a casa”. La vecchiaia, anche se segnata dal dolore, può essere vista come preparazione al ricongiungimento.



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🔬 Specchio scientifico


La biologia non conosce bene o male: conosce cicli. Una cellula nasce, cresce, si divide o muore. Anche l’universo funziona per trasformazioni: ciò che muore diventa materia per altro. Noi siamo letteralmente “prestiti” di atomi che torneranno nel ciclo cosmico. In questo senso, la goccia e l’oceano sono una metafora estremamente aderente alla fisica stessa.



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🎨 Specchio poetico


Il poeta Rilke scriveva: “La bellezza non è altro che l’inizio del terribile, che noi possiamo ancora sopportare.”

La vita è splendida proprio perché fragile, destinata a finire. Se fosse eterna, forse non avremmo motivo di sentire il suo valore.



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In sintesi: ogni specchio riflette lo stesso movimento che tu hai colto con l’immagine dell’altalena. Cambiano i linguaggi — ragione, fede, poesia, scienza — ma il nucleo resta quello: vivere è oscillare, e morire è tornare all’unità.


Vuoi che approfondiamo uno di questi specchi (per esempio quello scientifico, o quello buddhista) e vediamo più a fondo come interpreta l’altalena vita-morte?



Le vacanze

Ora che abbiamo finito le vacanze estive, dobbiamo ricordare che la parola italiana "vacanza" ha due significati opposti. Venendo dal latino vacare (mancare) può voler dire un venire a mancare delle attività e delle relazioni abituali, ma anche una cosa che ci manca, nel bene e nel male. Perché può venire a mancare sia una cosa sgradita (per esempio il lavoro, la fatica) sia una cosa gradita. Il che dipende da come consideriamo il lavoro abituale. Se era sgradito, la sua mancanza è davvero un piacere, una vacanza. Ma se il mio lavoro era una cosa importante e gradita, con la vacanza ci verrà a mancare. E quindi la vacanza può essere considerata un piacere, un gradito intervallo (dai più), ma anche un' esperienza di perdita (da qualcuno). Questo per dire che la fine di una vacanza ci riporta a una realtà pesante, subita malvolentieri, ma anche a una realtà amata. Comunque per entrambi i gruppi, la vacanza non è solo gioia, ma anche una perdita. Il che ci conferma che le esperienze sono sempre ambigue, contraddittorie e oscillanti


La parola senso

 Ogni lingua ha parole intraducibili nelle altre. Per esempio, la parola italiana "senso" ha ben tre significati che nelle lingue straniere viene tradotta da tre parole diverse . Ma noi abbiamo questa fortuna. Una fortuna che assume un significato universale. Infatti i tre significati della parola senso - sensazione, direzione e significato - ci rivelano i tre assi portanti del nostro vivere, senza i quali non potremmo vivere. Il primo significato ci indica che noi siamo esseri che sono sempre collegati all' ambiente attraverso i cinque sensi. Il secondo significato ci indica che abbiamo e vogliamo avere sempre una direzione spaziotemporale e un orientamento esistenziale (dove andiamo?). E il terzo significato indica che noi cerchiamo appunto un significato delle cose. Senza uno di questi tre assi, ci sentiremmo e saremmo letteralmente perduti.

Dio è amore?

Spesso sento dire questa frase. Certo, perché l' amore ci sembra l' esperienza migliore. Noi prendiamo questa esperienza e la attribuiamo a Dio. Ma, se Dio fosse solo amore, avrebbe creato un mondo dove il leone deve uccidere la gazzella per mangiarla? Assurdo: l' amore non fa queste cose, non uccide per far vivere. Allora, piantiamola di dividere la realtà come ci piace di più. E, almeno, diciamo che Dio è amore e odio, bene e male, costruzione e distruzione, vita e morte, salute e malattia. Impariamo a vedere la completezza del reale. Non solo metà. Se no, siamo ciechi, siamo stupidi.


Trasduttore e traduttore

 Ottima domanda 👌.

Trasduttore e traduttore sembrano simili, ma appartengono a due ambiti diversi:

🔹 Trasduttore

  • Definizione: è un dispositivo (naturale o artificiale) che converte un segnale o un’energia da una forma fisica in un’altra.

  • Esempi:

    • l’orecchio umano è un trasduttore perché trasforma le onde di pressione dell’aria (suono) in impulsi elettrici nervosi;

    • un microfono converte le onde sonore in segnali elettrici;

    • un pannello solare trasforma la radiazione luminosa in energia elettrica.

  • Caratteristica: il trasduttore non “interpreta” il significato, ma cambia la forma o il mezzo del segnale.

🔹 Traduttore

  • Definizione: è un sistema (di solito umano o linguistico, ma oggi anche algoritmico) che prende un messaggio in un codice e lo riformula in un altro codice, mantenendone il senso.

  • Esempi:

    • una persona che traduce dall’italiano all’inglese;

    • un software che converte un file da un formato a un altro;

    • il cervello che interpreta gli impulsi nervosi come immagini o parole.

  • Caratteristica: il traduttore non cambia la natura fisica del segnale, ma la sua struttura semantica o simbolica.


👉 In termini filosofici:

  • Il trasduttore lavora sul passaggio di soglia materiale (da vibrazione a impulso nervoso, da luce a elettricità).

  • Il traduttore lavora sul passaggio di soglia mentale (da segnale a significato, da simbolo a simbolo).

Perciò il cervello umano è entrambi:

  • trasduttore quando converte vibrazioni fisiche in impulsi neuronali;

  • traduttore quando converte questi impulsi in immagini, parole, pensieri, emozioni.

Vuoi che ti prepari una tabella schematica “trasduttore vs traduttore” da inserire nel Manifesto come chiarificazione epistemologica?

La vibrazione come ponte onnipotente, come trasduttore di soglia

 Che cosa contraddistingue la vibrazione come ponte di passaggio tra materia e mente? Innanzitutto che la vibrazione fisica ha la capacità di entrare nel cervello e di trasformarsi in un significato o in una informazione mentale. Tutto il nostro linguaggio si basa su questo meccanismo. Come abbiamo visto nell'udito, la vibrazione fisica che entra nel cervello diventa attraverso una traduzione e un processo un messaggio mentale. I dati sensoriali sono porte per far entrare queste vibrazioni e il cervello è uno strumento che riesce a decodificare il messaggio ricevuto in un significato, così come avviene in un codice Morse che attraverso le particolari vibrazioni dei suoni emessi da un tasto dà loro un significato.

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Quello che stai descrivendo è un punto cruciale: la vibrazione come ponte ontologico tra la dimensione fisica e quella mentale. Possiamo dire che la vibrazione possiede tre caratteristiche che la rendono adatta a questo ruolo di soglia:

  1. Trasversalità – Una vibrazione è allo stesso tempo un fenomeno fisico (oscillazione di particelle, variazione di campi, spostamento d’aria, ecc.) e un potenziale fenomeno percettivo. È materiale, ma suscettibile di essere tradotta in esperienza.

  2. Codificabilità – Ogni vibrazione può essere letta come un segnale. Non resta mai un puro movimento cieco, ma porta in sé la possibilità di essere interpretata come informazione, come nel caso del codice Morse o delle onde sonore che diventano linguaggio.

  3. Plasticità diadica – La vibrazione oscilla sempre tra due poli (su/giù, onda di compressione/rarefazione, 0/1). Questa struttura diadica le permette di collegare l’opposto materiale e quello mentale, senza mai fissarsi in uno solo.

Il cervello, in questo schema, non è un semplice ricevitore, ma un trasduttore di soglia: prende un’oscillazione fisica e la riconfigura come oscillazione di senso. Così una vibrazione dell’aria diventa parola, un’onda luminosa diventa immagine, un impulso elettrico diventa pensiero.

In questo modo si può dire che la mente non nasce dal nulla, ma da un processo di traduzione delle vibrazioni, che sono le uniche a poter attraversare il confine materia/mente senza spezzarsi.

Vuoi che trasformi questa riflessione in un frammento da inserire direttamente nel Manifesto delle Oscillazioni degli Opposti Complementari?


La rivoluzione della fisica quantistica

 “Nessuno ancora comprende la meccanica quantistica” amava ripetere, acuto e ironico come sempre, Richard Feynman. Parole che, in bocca a un Nobel, potrebbero spingere noi comuni mortali a continuare a sfruttare scienza e tecnologia per il nostro uso quotidiano, senza pretendere di capirci qualcosa di più. 


Così però, oltre a privarci di alcune tra le vette più ardite del pensiero umano, rischieremmo anche di perdere un essenziale strumento di comprensione la realtà in cui viviamo, non solo dal punto di vista scientifico. Quella quantistica è infatti anche una delle grandi rivoluzioni del Novecento, che, pur combattuta nei laboratori e nelle conferenze invece che nelle piazze e nei parlamenti, ha comunque cambiato il nostro modo di percepire il mondo.


A raccontarla è Piero Martin, docente di fisica sperimentale presso l'Università di Padova, nel libro Questo è quanto. La fisica quantistica in cinque idee (Laterza, 2025). La narrazione parte idealmente da una scogliera di Helgoland, l'isola nel Mare del Nord dove nel 1925, esattamente un secolo fa, un febbricitante e allucinato Werner Heisenberg riesce, come in un quadro di Caspar David Friedrich, ad afferrare una scintilla d’infinito. Guardando le onde sull’oceano il fisico tedesco elabora un nuovo linguaggio per descrivere il mondo microscopico, che non pretende più – come osserverà il linguista Giacomo Devoto – di fotografare la natura, quanto di descriverla come si racconta una storia o si compone una sinfonia.


Martin ci parla quello sconvolgimento, che avrebbe fatto traballare le basi della fisica galileiana e newtoniana, attraverso cinque parole chiave: discontinuità, identità, futuro, indeterminazione, relazione. Cinque idee che, come le dita di una mano, ci aiutano a toccare un sapere apparentemente astratto e lontano, ma in realtà profondamente incarnato nella nostra esperienza quotidiana.


La meccanica quantistica è difficile, ammette Martin, che all’attività sperimentale – soprattutto nell’ambito della fusione nucleare – ha affiancato negli ultimi anni anche quella di divulgatore, ma non per questo inaccessibile. Basta talvolta rinunciare all'idea di comprendere ogni singolo passaggio, lasciandosi guidare da una curiosità libera e capace di cogliere la meraviglia. Ad esempio mentre si guardano i mosaici della Basilica di San Marco, che l’autore, da buon veneziano, evoca per spiegare il concetto di quanto: così come questi sono composti da tessere, luce e materia sono fatte di unità discrete, indivisibili e quantizzate, non continue ma “a scalini”, come i pixel di un'immagine digitale.


La vittoria definitiva di Democrito su quanti, prima o dopo di lui, hanno sostenuto l’infinità divisibilità dell’esistente? Sì e no, perché sotto altri aspetti queste stesse particelle posso anche essere descritte con funzioni d’onda, abbattendo la separazione tra materia ed energia. Allo stesso tempo cade anche il principio di causalità inteso in maniera deterministica, con la preda d’atto che a livello dell’infinitamente piccolo la posizione degli elementi subatomici può essere prevista solo in maniera probabilistica.


Oggi la fisica quantistica è dappertutto: nei pannelli solari e nei laser, nei microchip che animano questo schermo come nel Gps dello smartphone, nella risonanza magnetica, nei codici QR e in mille altre tecnologie che usiamo ogni giorno. Oltre a questo però ci interpella profondamente, perché mette in crisi ciò che la filosofia occidentale ha per secoli considerato saldo e sicuro; dal principio di identità alla separazione tra soggetto e oggetto, fino al determinismo causale: tutto viene scardinato o reso provvisorio. Perché, se è l'osservatore a modificare e in qualche misura a determinare il sistema osservato, l'evento non è più qualcosa che accade a prescindere, ma che si realizza in relazione.


La mente cartesiana che contempla il mondo da fuori, neutra e distaccata, lascia il posto a un soggetto partecipe, coinvolto, che agisce nella stessa misura in cui conosce, e che conoscendo determina in qualche modo quello che osserva. In questo senso, la rivoluzione quantistica fa da contraltare, insieme alla relatività, a quella che Zygmunt Bauman ha definito la "liquidità" della società moderna: un mondo in cui le identità si sfaldano, le certezze si divertono a nascondersi, i confini tra reale e virtuale si confondono. E forse non è un caso che, come nota Martin, la meccanica quantistica non abbia avuto un solo padre carismatico come Albert Einstein (che ne gettò le basi e poi la criticò), ma è nata da una pluralità di voci e visioni: Bohr, Heisenberg, Schrödinger, Dirac, de Broglie, Pauli. Una teoria collettiva, frutto di un dialogo – e talvolta dello scontro – tra menti e culture scientifiche diverse durante i trent’anni che, secondo George Gamow “sconvolsero la fisica”.


Menti che, come in un quadro di Magritte o in un film di Nolan, ci hanno rivelato un mondo più instabile, contraddittorio e paradossale di quanto pensavamo. Ma anche ricco, aperto e fecondo di possibilità, dove il senso di vertigine diventa parte integrante dell'esperienza. Questo è quanto, più che un saggio di divulgazione, è un invito alla meraviglia. La rivoluzione quantistica ha cambiato la scienza, ma ha anche cambiato la cultura. E oggi, mentre entriamo nell'era dei computer, della crittografia e dell'informazione quantistici, chiede anche a noi di cambiare. Di accettare l'indeterminazione, l'ambiguità, la complessità. Di imparare una nuova lingua, come Heisenberg a Helgoland. Una lingua che non fotografa, ma racconta; e che forse, raccontando, ci aiuta a capire chi siamo.


(articolo scaricato dalla Rete)

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Il testo che riporti è molto denso e bello, quasi già pronto come recensione o introduzione. Si coglie bene la doppia anima della meccanica quantistica: da un lato disciplina tecnica e difficile, dall’altro straordinaria chiave filosofica e culturale.

Per chiarire:

  • Il punto di partenza è la famosa battuta di Feynman: la meccanica quantistica non è mai stata “compresa” fino in fondo, nemmeno dai suoi padri. Questo non significa che sia inaccessibile, ma che chiede di abbandonare le categorie abituali (determinismo, continuità, separazione mente/materia).

  • Il libro di Piero Martin (“Questo è quanto. La fisica quantistica in cinque idee”, Laterza 2025) diventa l’occasione per mostrare come questa rivoluzione abbia inciso tanto sulla scienza quanto sulla cultura: non è solo calcolo, è anche narrazione, linguaggio, immaginazione.

  • Le cinque parole-chiave (discontinuità, identità, futuro, indeterminazione, relazione) traducono la complessità in strumenti di pensiero quotidiano: come tessere di mosaico, come note di una sinfonia.

  • La novità epistemologica è che la quantistica rompe la neutralità del soggetto osservante: la conoscenza non è più esterna e distaccata, ma relazionale e performativa. L’atto di osservare diventa parte del fenomeno osservato.

  • Il lascito culturale va oltre la scienza: come la “liquidità” di Bauman, anche la quantistica dissolve certezze e identità fisse, invitando a vivere nell’indeterminato e nell’ambiguo. Non più un sapere monolitico, ma un dialogo collettivo e plurale.

In questo senso il testo che hai proposto si presta benissimo a essere inserito, magari in forma condensata, come cornice culturale nel tuo Manifesto delle Oscillazioni degli Opposti Complementari. La quantistica diventa infatti un esempio concreto di come la realtà non sia unitaria in modo statico, ma oscillante, relazionale, in continuo divenire.

Vuoi che provi a condensarlo in un paragrafo dal tono manifesto, che faccia emergere il legame diretto tra la rivoluzione quantistica e la tua teoria delle oscillazioni degli opposti?

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Sì, prova a condensarlo come dici.

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Ecco una possibile condensazione in forma manifesto, collegata alla tua teoria:


La rivoluzione quantistica come linguaggio oscillante

Richard Feynman ricordava che “nessuno comprende davvero la meccanica quantistica”. Eppure essa è oggi una delle più grandi rivoluzioni culturali del Novecento, non meno di quelle politiche o artistiche. La quantistica ha infranto le certezze della fisica classica: continuità, causalità deterministica, identità fissa. Ha mostrato che la materia non è compatta, ma fatta di unità discrete; che le particelle sono anche onde; che l’osservatore non è neutrale, ma parte integrante del fenomeno osservato.

Così, invece di fotografare la realtà, la fisica quantistica la racconta come una sinfonia di possibilità. Essa dissolve la mente cartesiana separata dal mondo e ci restituisce un soggetto immerso e oscillante, la cui conoscenza è sempre relazione. Non c’è più un ordine assoluto, ma un intreccio dinamico di relazioni probabilistiche.

Questa visione coincide con il cuore della nostra teoria: la realtà non è fissità, ma oscillazione tra opposti complementari. La quantistica ci ricorda che ogni evento è al tempo stesso presenza e possibilità, unità e dualità, onda e particella. È un sapere che non chiude, ma apre, invitandoci a vivere nell’indeterminazione feconda che genera sempre nuove forme di senso.


Vuoi che lo adatti in stile più poetico e visionario, oppure lo manteniamo in questa forma più epistemologica e argomentativa?