Riporto questo bel testo perché mette in evidenza come il meraviglioso mondo delle piante possa insegnarci molto, facendoci uscire dal terribile mondo animale, fatto di competizione e violenza.
Ho già discusso del rapporto tra competizione e cooperazione, chiarendo che si tratta di una diade da cui non si può sfuggire. Comunque le piante hanno permesso la vita sulla terra, hanno mediato il rapporto tra luce e materia, sono esseri viventi straordinari, rivelano che l'intelligenza non ha bisogno di un cervello e vanno considerate esseri viventi da cui possiamo imparare. Per certi versi sono superiori alla vita animale, nel fatto che si basano su modelli di circolarità, relazionalità e scambio reciproco.
Cosa hanno da insegnarci le piante
Dall’intreccio tra cultura indigena, scienza occidentale e mondo vegetale, una riflessione su come ripensare il legame tra esseri umani e natura.
Fabrizio Baldassarri è fellow presso Villa I Tatti (Harvard University) e dirige un progetto di ricerca “Constructing the Environment” presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università Statale di Milano.
Nella prefazione al libro di Monica Gagliano, Così parlò la pianta (2022), testo di riferimento per gli studi sulle modalità attraverso cui le piante sentono e comunicano tra di loro, Suzanne Simard, professoressa di forest ecology presso la University of British Columbia (Vancouver, Canada), annota uno spunto illuminante su cui è opportuno soffermarsi. Simard mette in relazione le recenti scoperte scientifiche sulla sensibilità e sull’intelligenza vegetale ‒ rese note da Gagliano, Stefano Mancuso, Daniel Chamovitz, Eduardo Kohn, Anthony Trewavas, ma anche Paco Calvo ed Emanuele Coccia ‒ con la saggezza degli aborigeni del Nord America, depositari dei segreti della vita delle piante e delle foreste. Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il sapere delle comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita vegetale, il profondo legame tra uomo e piante, individuando nella vita e nel comportamento delle piante quegli aspetti che oggi riscopriamo attraverso gli occhi della scienza, della filosofia e della biologia vegetale, e soprattutto mostrando la necessità di preservare l’interdipendenza tra ambiente naturale ed esseri viventi.
Autrice di un importante contributo dell’ecologismo mondiale e oggi direttrice del The Mother Tree Project, Simard lavora al tentativo di ristabilire la connessione rigenerativa tra l’uomo e le foreste, cioè con la natura, in un periodo in cui i cambiamenti climatici segnano un profondo mutamento dell’ambiente naturale. Partendo dal concetto di collaborazione delle piante, Simard suggerisce di compiere una vera e propria reimmersione nel mondo vegetale e nelle sue interrelazioni. L’intelligenza e la saggezza della foresta che Simard svela nel suo libro è data dalla relazionalità e dallo scambio di informazioni che la vita sotterranea indica, e che l’autrice ha brillantemente individuato nelle reti micorriziche, sistemi fungini sotterranei che collegano gli alberi e consentono lo scambio di informazioni e sostanze nutritive. Sulla base di queste comunicazioni vegetali, la tesi centrale di Simard intende mostrare che queste reti invisibili rivelano come la cooperazione, e non la competizione, costituisca il cuore dell’evoluzione e della vita naturale.
Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il sapere delle comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita vegetale, il profondo legame tra uomo e piante.
La tesi di Simard, tuttavia, affonda le sue radici in un sapere che supera la tradizione scientifica occidentale a cui fa riferimento. Si tratta, infatti, della saggezza indigena dei nativi americani, che aveva già individuato nella collaborazione tra corpi il sistema della natura. Se questo aspetto sfugge, in qualche modo, alla storia della cultura europea, e se questi spunti sono assenti nei curricula accademici e scolastici dei nostri Paesi, sono invece le tradizioni non europee a rivelarne l’importanza. Questo nesso è stato esplorato da Robin Wall Kimmerer nel suo: La meravigliosa trama del tutto (2022). E su questo aspetto meno diffuso tra i lettori vorrei focalizzare l’attenzione.
Direttrice del Center for native peoples and the environment, Wall Kimmerer nel suo libro rivela un magnifico intreccio tra il sapere scientifico, l’insegnamento accademico che ha ricevuto come studiosa di botanica da un lato, e la saggezza indigena dei nativi americani che ha ereditato e acquisito nell’incontro con i membri della sua famiglia, mostrando come queste due vie non siano alternative ma possano coesistere e completarsi. La prima ci permette di conoscere le piante e la natura, in una precisa divisione tra classi e generi, e nello studio oggettivo di come funziona la vita delle piante. Ma agli occhi dell’autrice questo sapere riduce le piante a oggetti separati, distinti dalla vita umana, veri e propri oggetti pronti all’uso. Il rischio concreto è di ridurre coerentemente questo approccio allo sfruttamento della vita vegetale.
In modo diverso, la saggezza indigena svela l’importanza della relazione degli esseri umani con la natura e le piante al fine di conoscerne la bellezza, una relazione che non si limita a un metodo di conoscenza, ma pervade tutte le nostre modalità di comprensione ‒ nel comprendere, infatti, la nostra conoscenza diventa relazione. La radice ecologica risiede nella capacità di individuare e valorizzare questa relazione, ma vi è qualcosa di più, proprio perché questa relazionalità può collegarsi alla scienza della natura. Come sottolineato da Gregory Cajete, nel libro Look to the Mountain: An Ecology of Indigenous Education (1994), questa prospettiva di conoscenza integrale deve coinvolgere le quattro modalità della nostra esistenza, il cervello, il corpo, le emozioni e lo spirito, e se l’aspetto scientifico privilegia due di queste vie va integrato a una sapienza che metta in risalto la relazione con la natura.
In questo orizzonte, Wall Kimmerer colloca la riflessione sulla vita delle piante, alla luce della relazione profonda che la natura instaura tra i diversi corpi. Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri, nella tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione, ma è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale. Al di là della logica dell’economia di mercato, regolata dallo sfruttamento e dalla separazione dei beni, il modello che si sviluppa a partire dalla relazione con il mondo vegetale si fonda sulla cura, sullo scambio e l’incontro, in un abbraccio che segue la logica del dono e della reciprocità: coltivare la natura o raccogliere un frutto non è, quindi, una mera appropriazione, anche se quel frutto poi verrà mangiato dal suo raccoglitore, e non lo è nella misura in cui si stabilisce una rete relazionale profonda e uno scambio mutuale, sostiene Wall Kimmerer.
Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri, nella tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione, ma è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale.
Se la scienza occidentale ha piuttosto distinto e isolato l’altro, l’autrice mostra un ulteriore intreccio con l’insegnamento delle piante, che svela come funziona l’interrelazione vitale tra i diversi corpi. La coordinazione che, per esempio, si nota tra la fruttificazione e la raccolta di frutti compiuta da alcune specie animali, denota secondo l’autrice una sincronicità che va oltre la mera relazione ambientale, e sembra piuttosto confermare l’attività comune e la capacità di dialogo tra i diversi corpi naturali. Un insegnamento che si acquisisce dalla natura, e che quindi abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma che è stato codificato in modo efficace della sapienza tradizionale indigena. Tra gli esempi, vi è quello di un’erborista Navajo che sostiene vi siano legami duraturi tra determinate piante, così rivelando una sorta di simbiosi e di scambio comunicativo in una relazione sostenibile con l’ecosistema. Da ultimo, questo insegnamento trova conferma negli studi sulla simbiosi con i funghi – sono infatti i lavori di Simard ad aver mostrato l’importanza delle reti micorriziche nel costruire una catena di interrelazioni e reciprocità mediante cui le piante comunicano tra di loro e stabiliscono una connessione vitale fondamentale per l’intero ecosistema.
Che cosa altro ci dice questo aspetto? Secondo Wall Kimmerer, la vita delle piante indica la possibilità di ripensare la natura non come oggetto da sfruttare, ma come relazione. C’è di più: l’autrice definisce questa relazione come un dono, la cui caratteristica centrale è lo scambio reciproco e l’attenzione e la cura dell’altro (di chi coltiva la pianta, ma anche della pianta stessa verso chi la abita). In tal senso, questa relazione apre implicitamente l’orizzonte a un sistema economico e sociopolitico fondato sullo scambio e sulla cooperazione, e quindi contrapposto a certe, numerose derive dell’economia di mercato e della globalizzazione, come ad esempio le pratiche di sfruttamento delle risorse naturali, che sono alla base della crisi ecologica attuale. In alternativa a queste relazioni negative tra uomo e ambiente, sviluppatesi nella cultura occidentale, Wall Kimmerer riporta una serie di storie della tradizione orale indigena americana, al fine di mostrare le possibilità di una relazione positiva con l’ambiente, che non è utile solo a preservare la natura ma serve, in qualche modo, anche agli esseri umani: la ricerca della felicità, per esempio, trova la propria realizzazione in una relazione sostenibile con l’ecosistema naturale, in una reciprocità ultima che l’autrice ha sperimentato raccogliendo fagioli.
A tutt’altra latitudine, un percorso analogo si ritrova nella cultura indiana ed emerge nel lavoro di Sumana Roy, Come sono diventata un albero. Una canzone d’amore (2022). Anche in questo caso, non si tratta di una semplice relazione affettuosa con le piante, ed è ben più che l’abbandono della propria condizione umana e ben più che un rapporto ristretto all’uso delle piante come abbellimento casalingo. Le piante non si rivelano semplicemente come altro rispetto agli esseri umani, ma mostrano un’alternativa che non è privazione. Come in altri casi, Roy combina la frustrazione per la caoticità della vita umana con l’incontro con l’alternativa delle piante, il cui silenzio è il suono della resistenza e dell’economicità, cioè di una ribellione, di un’attività, non di una mera passività. Il mondo vegetale, infatti, non è un mero ricettore, non un mero oggetto, ma un attore nel mondo.
Se è vero che le analogie tra piante e animali, e la metamorfosi del corpo umano in pianta hanno popolato la cultura occidentale fin dalle origini, Sumana Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non è un essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante.
Come nel caso di Wall Kimmerer, Roy combina l’esperienza personale alla propria tradizione culturale, unendo filosofia, storia letteraria e botanica. Partendo dalla filosofia di Deleuze e Guattari, Roy si immerge nella prospettiva di diventare una pianta, traslando le proprie esperienze e adattandole al mondo vegetale. Così, l’autrice non vede solamente la vita delle piante attraverso le lenti umane, ma mostra il tentativo di trasformare il proprio sguardo e le proprie relazioni accordandole al sistema vegetale. Fuor di metafora, l’autrice intende cambiare tutti gli aspetti della sua vita, adeguandosi a quello che è lo stile delle piante, di cui ricostruisce le caratteristiche nel corso del libro e, in tal senso, intende diventare pianta.
Questo percorso si sviluppa dall’elaborazione di un modo nuovo di guardare la natura vivente: se è vero che le analogie tra piante e animali, l’immedesimazione e la metamorfosi del corpo umano in pianta hanno popolato la cultura occidentale fin dalle origini ‒ si pensi all’opera di Orazio o ad Apuleio, alla pena dell’inferno dantesco, o alla dendolatria, la venerazione degli alberi che emerge nella pervasività della metafora arborea, ma anche all’albero della vita (l’albero Tuba del Corano, il Yggdrasil della tradizione normanna, l’albero Mahabodhi, e l’albero della vita di Klimt, per nominare alcuni casi) ‒ Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non è un essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante. Diversamente da ogni tentativo di antropomorfizzare la natura, Roy percorre un percorso di ascesa alla condizione vegetale, riconoscendo alle piante le capacità fondamentali di resistenza, parsimonia e armonia con l’ambiente naturale. Per esempio, si suggerisce di abbandonare la temporalità degli orologi per seguire il tempo ciclico e lento dell’albero – definito tree time – immedesimandosi in una dimensione alternativa in cui ripensare i ritmi della vita e rimodellandola secondo un sistema diverso.
In questo senso, il libro non mostra solamente una modalità di acquisire serenità muovendosi all’interno di un bosco o su una collina, lontano dal caos cittadino, ma una possibilità di rigenerazione profonda. Roy, infatti, non intende distruggere sé stessa né perdersi nella foresta, ma vuole ridare a sé quella parte vegetale che ha perduto ‒ e che in un qualche modo tutti noi abbiamo perduto ‒ cioè liberare la vita della foresta secondo l’insegnamento della tradizione indiana. Non si intende perdersi nella foresta in un ritorno alle origini, che pure appartiene a una certa tradizione occidentale, ma è un vero e proprio rigenerarsi. Allo stesso tempo, non è solo amore per le piante, per l’albero di fronte a casa o per il fiore sulla tavola, è lo sforzo di andare alla sorgente (o, opportunamente, alla radice) della vita stessa.
Sumana Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani, ma una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una società diversa.
Nel corso del libro, i numerosi riferimenti letterari rivelano la ricchezza della sapienza indiana in questo ambito, dai lavori di Rabindranath Tagore, le cui poesie celebrano la relazione tra uomini e piante, così come il percorso a ritroso verso la natura o verso la foresta, al lavoro del botanico Jagaish Chandra Bose, che ha studiato i movimenti automatici e la crescita delle piante, rischiarando le ombre sulla vita segreta delle piante. In Tagore, infatti, la conversione dell’essere umano in pianta rivela una fluidità tra specie, mentre Bose esalta la spontaneità della vita vegetale. La stessa fluidità e spontaneità emerge dalla riflessione di Roy sulle funzioni umane trasposte nella vita vegetale, dall’esperienza sessuale al matrimonio con un albero, attraverso l’immagine del matrimonio nel regno delle piante di Kahlil Gibran o nel poema di A.K. Ramanujan. La complessità del comportamento delle piante rende plausibile l’esistenza di un linguaggio vegetale che non sia antropomorfizzato, e al tempo stesso rivela la possibilità di acquisire le dinamiche vegetali per ordinare certi estremi della vita umana.
In tal senso, Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani, ma una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una società diversa, fondata sull’assunto per cui la vita delle piante favorisce e supporta la vita di tutti, fuori da ogni conflitto, in una mutualità e collettività che deve necessariamente farci riconsiderare l’ordine della natura. Questo è l’insegnamento che Roy intende portare a compimento, nel percorso di “trasformazione” in albero. A tutti gli effetti, è la via di Buddha (che si illuminò ai piedi di un albero), la cui vita spirituale è inestricabilmente legata alla venerazione dell’albero. Sulla scia di questa lunga e ricca tradizione, il libro è un tentativo di vivere la vita degli alberi: adeguando i propri desideri ai bisogni naturali, vivendo il tempo delle piante, rigettando velocità, eccessi, caos e confusione, indicando una via per cambiare sé stessi e la propria società.
In conclusione, le opere di Wall Kimmerer e di Roy, pur nate in contesti culturali distanti, convergono nel riconoscere un valore paradigmatico alla vita delle piante per dare voce e contenuto a un nuovo umanesimo. Non si tratta di un ritorno nostalgico alla natura, alla Rousseau, per intenderci, ma di una rigenerazione, che parte dalla vita vegetale e dalla conoscenza scientifica del comportamento delle piante. Infatti, le scoperte preziose della scienza occidentale, che oggi rivela l’importanza e la complessità della vita e del comportamento vegetale, rischiano di essere confinate agli interessi degli studiosi e possono apparire distanti dalla vita quotidiana. Integrare queste scoperte con la saggezza delle tradizioni non europee ne rivela l’importanza e mostra un modo diverso di vivere la relazione con la natura. Seguendo la reciprocità e mutualità delle piante, non si tratta di perdere la nostra umanità, ma al contrario di portarla a compimento, aprendo a quegli aspetti che caratterizzano la vita vegetale e che permettono di realizzare una società più giusta e sostenibile, adatta alle sfide del futuro.
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