sabato 25 ottobre 2025

La coscienza quantistica per Faggin


Federico Faggin, la coscienza come fenomeno quantistico

Intervista con il fisico Federico Faggin che racconta le sue esplorazioni nei territori in cui il «riduzionismo» scientifico rifiuta di addentrarsi




Letizia Renzini

Incontriamo il prof. Federico Faggin mentre è in Italia per due conferenze significative per i rispettivi contesti: un’affollatissima sessione alla Summer School dell’istituto buddista Lama Tzong Khapa di Pomaia (Santa Luce, in provincia di Livorno) e un’altrettanto partecipata Master Class nell’Aula Magna Nuova dell’Università di Pisa, al Palazzo della Sapienza. È invitato in entrambe dal dipartimento di Ingegneria delle Comunicazioni su iniziativa del prof. Bruno Neri, che tiene la relazione di apertura e che, come Faggin, è studioso «tardivo» della coscienza e dei suoi molteplici stati.


Dopo aver inventato il microprocessore, il touchscreen e molti altri miracoli hi-tech che lo hanno portato sulla vetta dell’imprenditoria tecnologica planetaria, Faggin ha cominciato a dedicarsi alla coscienza, guadagnando da subito un grande seguito, dovuto certo alla posizione privilegiata di partenza ma anche al suo essere portavoce di un sentire diffuso, maturato tra le maglie della rivoluzione tecnologica e riflesso sugli utenti: Faggin, si direbbe, è virale, riproposto in centinaia di migliaia di contenuti, mentre il suo ultimo libro Oltre l’invisibile (dialogo divulgativo con la cognata Viviana Sardei, per Mondadori) sta diventando un Best seller. Nei suoi interventi il professore percorre la linea sfumata e impervia tra scienza e spiritualità con autorevolezza e un afflato profetico abbastanza sobrio da non guastare, perché specchio della sua integrità scientifica e umana, con solidi argini sulle derive antiscientifiche da cui si distacca per ontologia.


Al centro del suo interesse oggi c’è la ricerca, e quindi il rapporto proficuo con l’Accademia. Quella di Pisa, schierata sugli scranni, è parsa lignea ma dialogante, soprattutto in un’ottica multidisciplinare necessaria alla visione olistica del professore. Dopo aver rifiutato qualsiasi astrazione filosofica giovanile in nome del fare (il padre, professore di filosofia, traduceva e commentava Plotino, Schopenhauer e Master Eickart mentre Federico si iscriveva all’Istituto Tecnico Industriale di Vicenza), Faggin si è accorge in età matura che il paradigma riduzionista di cui ha ampiamente usufruito scricchiola e che occorre guardare con coraggio attraverso le sue crepe per lasciarsi abbagliare da quella luce indicibile che è l’essenza del nostro essere. Il sapore del cioccolato, il rosso del rosso, l’intensità dell’amore: questioni che il professore chiama qualia e che la scienza aveva lasciato agli artisti e ai loro simboli sublimi, ma che, in questo mondo tech dove libri, quadri, versi ed armonie sono generati anche da algoritmi, sono tutte da ripensare.


La lezione di fisica di Faggin è una lezione di scienza e di amore, ugualmente complessa e semplice. «Non dico stronzate!» tuona in Aula Magna sbattendo il pugno, in risposta esasperata a qualche polverosa obiezione di irriducibili riduzionisti. E in effetti sembra non dirne: non solo a chi, come alcuni tra i presenti, conosce la fisica dagli Adelphi di Rovelli, ma anche, evidentemente, ad alcuni tra i colleghi e alla sala tutta, gremita di studenti di fisica e ingegneria che scoppiano spesso in lunghi applausi, quasi liberatori. Anche quando cita Dante, uno dei pezzi forti della retorica fagginiana: «…l’amor che move il sole e l’altre stelle»: praticamente il suo postulato dell’essere, che è uno degli argomenti che affrontiamo nell’intervista.



Lei è un uomo di grande successo: ingegnere, fisico, inventore, imprenditore, ha quasi una decina di lauree ad honorem, è Cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana e ha molti altri riconoscimenti, tra cui la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione, la massima onorificenza conferita dal governo Usa agli scienziati (consegnata da Obama nel 2010). Appartiene a quella élite tecnologica che negli Usa ha dato vita alla Silicon Valley anzi, come ha detto Bill Gates, senza di lei la Silicon Valley sarebbe una valle qualsiasi. Il suo successo materiale è indiscutibile, ma è all’apice di questo successo che ha intimamente sperimentato «l’insuccesso del successo»: è per questo che si è messo a pensare al «problema difficile della coscienza», come lo chiama il filosofo David Chalmers?


Sì e no. Questa idea dell’insuccesso nel successo la devo a ciò che ho imparato dopo. Il mio problema allora era capire perché non ero contento: avevo ottenuto tutto ciò che – nel mondo che avevo accettato come dato – potessi ottenere. Non ero riflessivo, ero un uomo di scienza, e la scienza non ammette un’interiorità. Così la mia infelicità, non misurabile, in termini fisici non esisteva. Credendo nella fisica e nella tecnologia avevo in un certo senso perduto me stesso, mentre l’idea stessa di non essere contento era mascherata dal bisogno di far finta di esserlo. Ero confuso e trascuravo l’interiorità: ero fuori di me.


Ma poi è entrato decisamente nel campo della coscienza, scrivendo e comunicando le sue idee. Il suo successo adesso è popolare: a quale esigenza diffusa risponde?


Credo che sia il dilagare dell’intelligenza artificiale: la gente comincia a farsi domande su cosa sia la coscienza perché non si riconosce in un’intelligenza artificiale, e intuisce che è nella coscienza lo scarto fondamentale tra l’essere umano e la macchina. Se non avessi avuto un’esperienza straordinaria di espansione di coscienza trentacinque anni fa, sarei rimasto incastrato in ciò che oggi chiamo scientismo. Per la scienza classica la parola coscienza non significa nulla, e l’interiorità è trascurabile. Ma queste sono credenze materialiste, già falsificate dalla fisica quantistica, che partono da un concetto di chi siamo completamente sbagliato, basato su dogmi – come le religioni.


Questa esperienza di risveglio che lei ha descritto spesso, ricorda quasi un’estasi mistica, o gli stati meditativi profondi, o ancor più gli stati espansi di coscienza che si raggiungono in un viaggio psichedelico.


Fu qualcosa che la mente non può concepire, fuori da quello che consideravo realtà. Mi trovai ad essere contemporaneamente l’osservatore e l’osservato, cosa sconcertante, in un campo di luce bianca pervaso da un amore smisurato. Era come se la mia coscienza si fosse espansa in tutto lo spazio: ero il mondo che si guardava attraverso se stesso. Uno stato completo dell’essere.


Ha mai fatto un’esperienza psichedelica?


Non l’ho mai fatta. Sono arrivato nella Silicon Valley nel ’68, ma sono andato subito in laboratorio. Mi è passato tutto sopra la testa.


Eppure ciò che descrive ci va molto vicino; ha imparato a tornare in quello stato?


In seguito mi sono capitate molte altre esperienze di coscienza, e negli ultimi anni ho praticato l’Holotropic Breathwork di Stanislav Grof, che attraverso il respiro induce esperienze non ordinarie. Non sono prevedibili: emergono contenuti e significati inattesi anche al di là delle mie domande o intenzioni, ma da ognuna ricevo informazioni profonde.


La sua prima esperienza è stata trasformativa anche per i suoi studi.


Nella scienza si seguono sempre delle intuizioni, e questa mia esperienza ha aperto una porta: da lì ho cominciato a chiedermi cosa fosse la coscienza, esplorando liberamente territori che la scienza aveva escluso. Ho impiegato vent’anni per capire che coscienza e libero arbitrio sono fondamentali e che interiorità ed esteriorità sono due facce della stessa realtà.


Lei parla di un campo di coscienza che unisce anziché dividere e che genera soggettività invece che descriverla. Un modello quantistico su cui lavora da molti anni.


Con il prof. Giacomo Mauro D’Ariano abbiamo mostrato come la realtà più profonda non sia materiale ma informazionale. L’informazione va oltre la materia, ed è definita come probabilità. Le grandezze fondamentali della fisica quantistica descrivono possibilità, non oggetti: la fisica classica, quella dello spazio-tempo, emerge come media di infiniti comportamenti quantistici da una fisica più profonda che però può solo darci probabilità. Quando si lavora con oggetti fatti di molte particelle, miliardi e miliardi di atomi e molecole, questi si comportano in maniera in prima approssimazione prevedibile: quindi noi viviamo una realtà descrivibile da equazioni anche semplici, ma non è la realtà profonda, su cui la realtà materiale si sviluppa.


… se rovescio questo bicchiere, “con tutta probabilità” l’acqua cade.


Sì, ma anche fenomeni molto più complessi. Un computer, ad esempio, è complicato ma perfettamente deterministico. Nella fisica profonda invece c’è l’indeterminismo, fondamentale perché dipende dal libero arbitrio: secondo la nostra teoria ciò che avviene non è indeterminato soltanto per l’ambiguità tra variabili, ma perché sottende al libero arbitrio.


Ultimamente si è spinto più avanti affermando che il punto di partenza non è la fisica quantistica ma la coscienza, come se la coscienza fosse un apriori che precede la materia e lo spazio-tempo ed è quindi irriducibile.


La fisica quantistica si fonda su ciò che potrà accadere, non su ciò che accade: è il famoso «collasso della funzione d’onda», questione su cui la comunità scientifica non ha ancora trovato un accordo. Quando viene effettuata una misurazione, la sovrapposizione di stati scompare e la funzione d’onda collassa in un singolo stato definito. Io sostengo che questo collasso non esista: è la decisione di libero arbitrio di un campo osservato. Ma per essere dotato di libero arbitrio, il campo dev’essere cosciente. In questo senso i campi quantistici hanno coscienza, identità e volontà di conoscersi. L’Uno, la totalità di ciò che esiste, è dinamico e olistico: cambia di continuo e in ogni suo frammento vuole conoscersi. È un universo che evolve per auto-conoscenza.


È questo ciò che chiama postulato dell’essere? Come proporlo alla comunità scientifica?


Ci sono due aspetti fondamentali: il primo è capire che i campi quantistici sono coscienti, perché il libero arbitrio ha senso solo se c’è coscienza. Il secondo è che la coscienza senza libero arbitrio è possibile, ma non ne è l’essenza: la coscienza con il libero arbitrio diventa coscienza di sé. I campi hanno libero arbitrio e coscienza, e un’ulteriore proprietà che è l’identità, che permette alla coscienza di diventare autocosciente. Il campo, per sua natura, vuole conoscere se stesso, e questo va oltre la teoria formulata con D’Ariano. Il postulato dell’essere dice che i campi quantistici sono enti coscienti che emergono da Uno.


Cosa è questo Uno?


Uno ha due proprietà fondamentali già riconosciute dalla fisica quantistica: è dinamico – cambia continuamente – e olistico, cioè non fatto di parti separabili, tutto è interconnesso (come mostra il famoso entanglement, dimostrato nel 2014, accettato dai fisici solo dopo ottant’anni di dibattiti). Alle due proprietà io aggiungo che Uno vuole conoscere se stesso; ciò introduce sin dall’inizio dell’universo il fatto che Uno è cosciente e ha una volontà che poi diventa il libero arbitrio delle sue parti. Essendo olistico, Uno crea parti intere di sé: ogni parte dell’ologramma contiene il tutto. L’olismo è l’aspetto frattale della realtà, una struttura che si ripete a scale diverse.


E noi, dove ci collochiamo in questo sistema?


Siamo combinazioni di campi. Chiamo queste entità Seity: campi coscienti dotati di libero arbitrio e volontà di conoscersi. Combinando i campi si crea sempre qualcosa di nuovo: man mano che Uno conosce se stesso, genera strutture più complesse. Le Seity comunicano attraverso simboli condivisi, ma ogni stato di coscienza resta privato, irripetibile. È ciò che sperimentiamo anche noi: il linguaggio può descrivere solo una piccola parte di ciò che viviamo interiormente.


La fisica quantistica rappresenta una realtà più profonda?


Sì, dalla quale emerge la fisica classica. La realtà classica è una costruzione della coscienza incarnata, che funge da interfaccia con il mondo. Lo spazio-tempo emerge da una dimensione più profonda in cui tutto è interconnesso. Le equazioni non cambiano, ma la loro interpretazione sì: mostrano che la realtà è più ampia, comprende anche il mondo dell’interiorità.


In questa visione dove si colloca l’ego? E che cosa accade quando si «spegne» il corpo fisico, cioè al momento della morte? La coscienza sopravvive?


L’ego è una piccola parte del campo di coscienza che crede di essere il corpo e interpreta la realtà attraverso ciò che il corpo percepisce. La realtà che chiamiamo fisica è quasi virtuale: una rappresentazione transitoria che la nostra coscienza costruisce usando il corpo come trasduttore. Percepiamo solo una minima parte del reale, come se vedessimo attraverso una fenditura un panorama immenso. Tutto cambierebbe, con sensi diversi. La realtà è filtrata dai sensi, e dunque dal corpo. Ma se realizziamo di essere ciò che usa il corpo come strumento di relazione, siamo molto di più.


Potremmo dire che l’ego sta alla coscienza come la fisica classica sta alla fisica quantistica?


Sì.


E questa individualità rimane dopo la morte?


Non nella forma che conosciamo. La morte è un evento classico: il corpo smette di funzionare, ma la coscienza no. È come un bambino immerso in un videogioco che si identifica al punto da dimenticare tutto il resto: quando la madre spegne il computer lui si arrabbia, ma poi scopre che esiste un mondo più grande. La morte è simile: la coscienza si ritira da un’esperienza e scopre un livello più ampio dell’essere.


Vive da molti anni negli USA. Che impressione ha oggi della situazione americana?


Non la trovo ideale. Sto tornando a vivere a Vicenza. C’è un materialismo che è diventato ancora più aggressivo. Io cerco di promuovere idee di risveglio, ma in un paese dove domina la ferocia materialista – oggi incarnata dall’intelligenza artificiale – è difficile. L’AI rappresenta il pensiero che elimina ogni interiorità e ogni forma di spiritualità. È un movimento contro la natura umana.


Comunque utile, se usata consapevolmente?


Certo, se viene usata da esseri coscienti che ne comprendono i limiti. Ma il problema è che oggi viene promossa come sostitutiva dell’uomo, e questo è gravissimo.


C’è un rischio nella cosiddetta superintelligenza artificiale generativa? Potrebbe sviluppare una sua volontà?


No. La volontà è una proprietà della coscienza, non di un sistema meccanico. Un computer può solo eseguire regole create da chi ha «le chiavi delle porticine». E questo, sì, è un grosso problema: la macchina non è cosciente, è lo specchio della nostra inconsapevolezza.



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