Riporto questo testo di Marco Ventura perché espone bene le basi del buddhismo secondo la tradizione. dal mio punto vista, metto in evidenza come la "via di mezzo" possa essere vista come un'oscillazione tra due estremi: no all'ascetismo estremo (tutto sommato materialista) ma no anche alla mancanza di un di un autocontrollo. Pensate che risale al buddhismo l'idea, oggi riscoperta dalla fisica, che non esistono le cose in sé, ma solo le relazioni. E risale anche alla riflessione buddhista più tarda la tradizione zen (sviluppata in Cina e in Giappone), l'idea che la realtà sia essenzialmente dinamica (l'impermanenza), l'idea che non esistano assoluti (Iddii, anime statiche, imbalsamate) e l'idea che non esista né l'osservatore-soggetto né l'osservato-oggetto, ma l'osservazione. Come dire, la preminenza va alla relazione e non alle singole entità separate. Una filosofia più che una religione con fedi e dogmi. Il Buddha stesso invitò a non fare di lui un idolo. E ad essere sempre critici e consapevoli... Tutte idee contrarie alle religioni teiste. Per questo, le sue idee hanno sempre riscosso l'ammirazione di grandi menti, come Einstein e molta filosofia occidentale (Schopenhauer, Nietzsche).
"Da duemilacinquecento anni il Risveglio del Buddha interroga l’umanità. Ci è familiare l’immagine di lui seduto a gambe incrociate sotto il grande albero, la schiena eretta, il viso rivolto ad est. Cosa significa quella immagine? Perché ha ispirato generazioni di uomini e donne? Perché ispira ancora oggi centinaia di milioni di persone nel mondo? Si tramanda che prima del Risveglio il Buddha abbia meditato per una notte intera. Nella prima parte della notte prese coscienza delle sue nascite precedenti; nella seconda vide le rinascite di tutti gli esseri e comprese la legge del karma che lega il destino di ognuno alle azioni da esso compiute. Nell’ultima parte della notte vide la vera natura della sofferenza e acquisì la conoscenza che consente la completa liberazione. All’alba era divenuto il Risvegliato.
Più che il Buddha in sé, più che la sua vita, è quel Risveglio la chiave. È esso che interroga e che ispira. Non è una ricetta, non è un dogma, non è un miracolo; è una consapevolezza che si fa metodo. È il lavoro incessante che lo stesso Buddha continua per il resto della sua vita. Un lavoro che nessuno può fare al posto tuo. Perché il Buddha non ti salva. Ti attrezza affinché tu possa salvarti.
Le Quattro Nobili Verità
Il primo insegnamento impartito dal Buddha è quello delle Quattro Nobili Verità, percorso verso la comprensione della condizione dell’esistenza e verso la liberazione. Nella prima Nobile Verità la sofferenza appare come inerente alla condizione umana. Pensiamo a malattie, vecchiaia, povertà, morte, perdite di beni o persone. Nella seconda Nobile Verità la sofferenza appare causata dall’attaccamento a ciò che passerà: nasce dallo scontro con la realtà, dalla avversione, dalla confusione, dalla brama, i veleni mentali che intossicano il nostro rapporto con la verità delle cose. La terza Nobile Verità ci mette di fronte al cambiamento cui tutto è sottoposto, cambiamento che sfida il nostro bisogno di stabilità. Accettando l’«impermanenza» riconosciamo che il nostro sé non è fisso, statico, che la nostra anima non è permanente, immutabile, che in questo senso non c’è sé e non c’è anima. Può partire da qui la cessazione della sofferenza. Nella quarta Nobile Verità si aprono gli occhi alla disciplina con cui è possibile seguire il metodo del Nobile Ottuplice Sentiero, fatto di retta comprensione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retta condotta di vita, retto sforzo, retta consapevolezza e retta concentrazione.
Il saggio degli Shakya
Fu Marco Polo il primo a raccontare agli occidentali la vita del Buddha. Alla corte del Kublai Khan aveva sentito parlare di Sergamoni Borcan. In mongolo Sergamoni traduceva Shākyamuni, dal sanscrito «il silenzioso», dunque «il saggio», «tra gli Shakya». Borcan, il divino, stava per Buddha. Ma fu in Sri Lanka che Marco Polo apprese la sua storia.
Non si cancella la sofferenza. Ma si può imparare a non cadere nella sua trappola.
Il futuro Buddha nasce e cresce nell’agiatezza. È Siddharta, il figlio della regina Māyā e di Suddhodana, re degli Shakya di Kapilavastu, ai piedi dell’Himalaya. Stanco della vita di palazzo, Siddharta vuol vedere il mondo che c’è fuori. Il padre cerca di impedirglielo. Invano. Il giovane esce e si imbatte in un vecchio, poi in un malato, poi in un cadavere e infine in un monaco itinerante. I quattro incontri fissano in forma di racconto la scoperta della sofferenza e la spinta alla ricerca. Per Siddharta la vita di prima non ha più senso. A ventinove anni lascia il padre, la moglie, le concubine, il figlio. Deciso a sottoporre il suo corpo alle rinunce più severe, per sei anni è Gautama l’asceta. Poi, quando le privazioni lo hanno ormai ridotto in fin di vita, comprende che la sua ricerca può svilupparsi solo come «Via di mezzo» tra i due sterili estremi dei piaceri dei sensi e della mortificazione del corpo.
Non si cancella la sofferenza. Ma si può imparare a non cadere nella sua trappola. A non abboccare all’amo. A ciò si risveglia, infine, il saggio degli Shakya.
La diligenza
Dopo il Risveglio, il Buddha viaggiò e insegnò per quarantacinque anni. Morì ottantenne dopo aver raccomandato di «camminare secondo i precetti», di far proprio il metodo. Queste furono le sue ultime parole ai discepoli: «lavorate per la vostra salvezza con diligenza». Spiega il Dalai Lama, leader spirituale del buddhismo tibetano: «sei tu il maestro di te stesso, è sulle tue spalle il futuro, dipende da te. Il Buddha si assume la responsabilità di mostrare il sentiero. Niente di più». Come spiega il Dalai Lama, non viene dunque imposto a chiunque il medesimo percorso: ciascuno ha «sulle sue spalle» l’onere di individuare la via più adatta.
Il lavoro inizia dalla consapevolezza del proprio stato di sofferenza e dell’origine di quella sofferenza nei veleni mentali. Il sentiero spirituale consiste nel contrastare i veleni e nel coltivare le risorse della mente. La sofferenza è sempre lì, ma posso non scontrarmici più, perché non fa più attrito, perché ho accettato la mia immersione nel processo di cambiamento e perché pratico «con diligenza» una vita adatta alla realtà della mia esistenza.
Le vite
E la vita del Buddha? Cosa ne sappiamo oggi? In realtà è fatta di tante storie la sua storia. Come quelle raccontate nelle prime fonti risalenti a circa duemila anni fa quando il Buddha, vissuto più o meno al tempo di Socrate, era morto da cinque secoli.
In quei testi in sanscrito e in pali, al Buddha umano – all’insegnante terreno – si sovrappone pian piano un Buddha divino che abita nel cielo con gli dei prima di scendere nel grembo della madre. Un Buddha la cui vita sulla terra incrocia demoni e spiriti. Nei resoconti dei primi missionari e viaggiatori europei è l’opposto. Il Buddha è dapprima profondamente religioso – per i gesuiti è il capo degli idoli del paganesimo orientale – e in seguito diviene un umanissimo asceta, un sapiente o un riformatore socio-religioso.
Gli studiosi britannici, francesi e tedeschi che tra 1700 e 1800 scoprono le fonti antiche, si affannano a costruire un «Buddha storico» secolarizzato. L’impresa è già fallita a fine Ottocento. Quel Buddha storico è l’invenzione di un’Occidente prigioniero dell’alternativa tra religione e ateismo, alternativa rifiutata dallo stesso Buddha. Per gli esperti di oggi è ormai scontato che la storia del Buddha non possa essere definita a colpi di prove inconfutabili.
Non conta l’insegnante, del resto, ma l’insegnamento. Conta il Risveglio, non il Risvegliato.
La compassione
Il quale Risveglio non smette di interrogarci. Nel nostro Occidente secolarizzato, il sentiero percorso dal Buddha può essere l’antidoto contro i mali della modernità e può essere anche la spiritualità non dogmatica alternativa a istituzioni e fondamentalismi religiosi. Ma vi è anche il rischio che il consumismo, la mercificazione, la mediatizzazione, strappino il Buddha al tempio e lo vendano al mercato. L’equivoco è dietro l’angolo quando del Buddha si spaccia una compassione a buon mercato, fatta di buoni sentimenti.
Il metodo che conduce al risveglio, la fatica continua di chi si è risvegliato, sono un’altra cosa. Non è buonista il Buddha dell’equanimità, dell’amore come desiderio di felicità per tutti i viventi, non è moralista il Buddha della vera compassione, dell’aspirazione alla completa liberazione degli esseri dalla sofferenza. Egli ha aperto la coscienza alla totalità del mondo per come è. Per questo all’immagine del Risvegliato può fare eco quella del Compassionevole, il Buddha dalle mille mani, ciascuna con un occhio nel palmo: mani vigili sulla verità e sollecite della realtà.
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