Tutti
abbiamo un nome, un corpo, un’età, dei genitori, una famiglia, una posizione
sociale, dei documenti di nascita, un insieme di esperienze che chiamiamo
passato, insomma un’identità. Ma questo succede quando ci pensiamo, quando
cerchiamo di capire chi siamo, quando ci definiamo, quando cerchiamo
un’identità attestata da qualcosa e da qualcuno.
Però,
quando meditiamo, tutto questo sparisce: non stiamo più a pensare a queste
cose. Sappiamo di essere e basta. Non ce ne importa più niente dell’identità
fisica, psicologica o sociale. È l’unica volta in cui
possiamo sfuggire alle definizioni.
In
meditazione non pensiamo a noi stessi (se no sarebbe un fallimento), non usiamo
il pensiero. Ci limitiamo ad essere consapevoli… non più di qualcosa di
specifico. Chi siamo in quei momenti? Nessuno può dirlo. Poiché non pensiamo,
non sappiamo chi siamo, usciamo dagli schemi mentali.
Noi
pensiamo sempre. Ma la consapevolezza non è un pensiero. È ciò che esiste quando non c’è un pensiero. È una presenza senza una determinata identità. È la presenza mentale, che è ciò che esiste prima di
tutto.
Non
è nemmeno qualcosa di speciale. Se non l’avessimo, saremmo morti. È ciò che hanno tutti gli esseri viventi. È l’energia autoconsapevole della vita stessa.
In
quei momenti so solo che “sono”, ma non posso dire che sono un io, che ho un
io. Lo dico solo “dopo”, quando ci penso.
Ma
la consapevolezza non è un concetto, è un’esperienza. Ed è un’esperienza di
uscita dalla dimensione mentale, dai confinamenti della mente. È dunque sbagliato parlare di “presenza mentale” –
dovremmo parlare di presenza non-mentale o presenza non-condizionata.
Siamo
nell’incondizionato.
Se
dunque cerchiamo esperienze dell’incondizionato, sappiamo che cosa fare. Non è
poi così difficile.
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