Gli esseri umani si dividono in due
grandi categorie: quelli che pensando alla morte dicono: “Spero di avere
un’altra vita, qui o altrove”, e quelli che dicono: “Spero di non ritornare mai
più in questo mondo e in questa umanità, né di avere un'altra esistenza”. I primi sono affamati di una vita
che, nonostante tutto, ritengono qualcosa di positivo; i secondi ne hanno avuto
abbastanza di nascite e di morti, di rivalità e di odio, di tragicommedie, di
malattie, di invecchiamento, di ripetizioni noiose e soprattutto di sofferenze.
Hanno fatto i loro conti e sono giunti alla conclusione che vivere non vale la
pena, che il gioco non vale la candela. In genere non mettono al mondo figli, o
se ne pentono.
I primi credono che la vita sia
conciliabile con la pace e con la gioia, i secondi credono che non sia
possibile, perché il mondo (qualsiasi mondo) si forma in un certo modo dualistico
e antagonistico che, per quanto migliorabile, non può eliminare il doloroso
conflitto.
D’altronde, chi concepisce il paradiso,
subito vi aggiunge l’inferno. Perciò, o tutt’e due o nessuno. E, per “nessuno”
non si intende il nulla (che a sua volta ha un contrario), ma ciò che sta al di
là tanto dell’essere quanto del nulla.
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