Quando si afferma che la vita è
sofferenza, non si vuol dire che non ci siano momenti di serenità, di quiete e
anche di felicità. La nostra esperienza ci dice che esistono, ma che sono rari,
durano poco e che, nel complesso, è più il tempo che trascorriamo con ansie,
preoccupazioni, angosce, paure, mancanze, assilli, tormenti e dolori di ogni
genere, fisici e mentali. Si usa a questo proposito il termine dukkha che in realtà significa “insoddisfazione”.
Ecco, per quanto le cose possano andare
bene, c’è sempre nelle nostre esistenze un aspetto di insoddisfazione, se non
altro per il fatto che le esperienze sono fugaci e che tutto è destinato a
cambiare, a deteriorarsi e sparire per sempre. Alla fine tutti invecchiamo, ci ammaliamo
e moriamo. E che cosa possiamo portarci dietro dopo la morte?
C’è dunque in noi una continua
aspirazione a uno stato migliore, come se questo fosse qualcosa di inferiore.
Anche nelle religioni, la vita appare all’insegna del peccato originale e della
caduta.
Ci sentiamo sempre incompleti, mancanti,
abbiamo sempre nostalgia di uno stato di pienezza. Ecco perché vorremmo sapere
se siamo destinati a vivere sempre così o se un’altra possibilità, al di fuori,
al di sopra o chissà dove.
Le religioni tradizionali ci parlano di
un paradiso, cui però si contrappone sempre un inferno/purgatorio, non
riuscendo a superare il dualismo che in fondo è il vero responsabile dell’insoddisfazione.
L’Oriente ci parla invece di una trascendenza del dualismo, che può essere in
qualche modo anticipata in questo mondo, soprattutto attraverso una
trascendenza del pensiero e una ricerca della presenza mentale che sia il più
possibile impersonale e già al di fuori della sofferenza.
È questa presenza mentale, questa
consapevolezza che rappresenta la via d’uscita. La consapevolezza, a differenza
della comune coscienza, non è qualcosa che venga creato o costruita da noi, né
dipende dal beneplacito di qualche Dio; è qualcosa che esiste prima e che sfugge
ad ogni distruzione.
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