Se noi viviamo nel condizionato, se
tutto ciò che sperimentiamo nasce e muore, appare e scompare, inizia e finisce,
se ogni nostro pensiero, se ogni nostra sensazione è condizionata, come
facciamo a capire l’incondizionato? Di che cosa parliamo? Parliamo di qualcosa
che non conosciamo.
E allora i nostri discorsi sono
chiacchiere filosofiche, semplici esercizi intellettuali, pensieri in libertà,
senza alcun costrutto, senza alcuna realtà.
Il fatto è che noi possiamo guardare il
proliferare dei pensieri e ci rendiamo conto che nascono l’uno in seguito
all’altro, l’uno in seguito ad altre condizioni. Li guardiamo e capiamo che
vanno e vengono e che non sono la
verità. Non possiamo né dire né pensare l’incondizionato.
Però proprio questo è l’incondizionato –
lo abbiamo in un certo senso delimitato. Di qua c’è la conoscenza condizionata,
di là c’è il non conosciuto. Con questo non conosciamo l’incondizionato, ma
possiamo dire che è in quella terra conosciuta. E che gli siamo più vicini
quanto più riconosciamo di non conoscere.
Perché quanto più riconosciamo di non
conoscere, tanto più delimitiamo il campo dell’incondizionato, del non
conosciuto. Non è un po’ questo che facciamo con la meditazione? Delimitiamo il
campo. Un po’ come Cristoforo Colombo che non sapeva che cosa c’era laggiù, oltre il mondo conosciuto, ma che
sapeva che, se c’era qualcosa, era laggiù.
Non troviamo né Dio né realtà
trascendenti, ma riconosciamo la loro dimensione, il loro spazio.
Resta il fatto che è solo quando
svuotiamo la mente dal noto, dal conosciuto, che ci avviciniamo allo spazio del
l’incondizionato. E, per far così, dobbiamo riconoscere mille o diecimila o un
milione di volte che l’incondizionato non è né questo né quello…
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