Ci sono tante persone che sono abituate
a mentire non solo agli altri ma anche a se stesse. Di conseguenza sono degli
alienati, degli infelici. Perché una cosa è certa: che chi non è se stesso, è
doppiamente infelice.
All’inizio, in meditazione, tutti
cerchiamo la felicità e la nostra vera identità terrena – e non è una via
sbagliata. Tutti cerchiamo benessere e gioia. Ma, man mano che approfondiamo,
scopriamo che anche la felicità e l’io non sono che increspature di un mare che
ha mille movimenti.
Ora noi vorremmo andare oltre tutti
questi movimenti. Non cerchiamo le increspature fenomenologiche della realtà,
ma la realtà stessa, nella sua nudità o nuda identità. Vogliamo andare oltre la
dimensione umana.
Meditare è tenere desta una
consapevolezza di fondo che ci avverte di tutte le increspature, ponendoci nel punto centrale, nell’occhio, del ciclone, e donandoci il distacco (viraga).
Viraga è lo stato al di là dei
movimenti mentali, delle passioni, dei desideri. Almeno finché dura la
meditazione.
Dopo aver trovato la calma (samatha),
ecco che ci inoltriamo nella visione profonda (vipassana), la visione che tocca
il fondo della cose.
Chi medita osserva e vede con sempre
maggior chiarezza i movimenti, i metodi, gli strumenti e le strategie con cui si
tiene in vita il mondo. Vede la dialettica, l’andare e il venire, e l’impermanenza
del tutto. E man mano se ne distacca.
Lo stesso Buddha diceva che, come il
mare diventa profondo poco alla volta, gradualmente, “così in questo
insegnamento e in questa pratica, vi è un esercizio graduale, un’azione
graduale, uno svolgimento graduale, e non un accesso subitaneo alla conoscenza
suprema” (Anguttara Nikaya, 8, 19).
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