Vivere è tendersi, protendersi, per tutti gli esseri viventi, con il corpo e con la mente. Ma è chiaro che “entrare in tensione” è pur sempre uno stress, uno sforzo, una sofferenza, ciò che il Buddha chiamava dukkha. La sua prima “nobile” verità è che la nostra condizione non può essere esente da sofferenza. Nascere è dukkha, vecchiaia è dukkha, malattia è dukkha, morte è dukkha.
Si può
non essere d’accordo? E si può non essere d’accordo quando aggiunge che essere
legati a coloro che non amiamo è dukkha, che essere separati da ciò che amiamo
è dukkha e che non ottenere ciò che si vuole è dukkha? Evidentemente no. Sono
esperienze di tutti. E molte altre cose sono dukkha.
Questo non significa che non esistano
momenti di piacere, di benessere, di gioia e di felicità. Ma resta il grande
problema che tutto è impermanente, evanescente, non durevole, destinato a
finire. C’è dunque una sofferenza insita nella condizione di essere vivente.
Nessuno può sfuggire a dukkha.
Se vogliamo cercare uno stato esente
permanentemente da dukkha, dobbiamo rivolgerci altrove, non a questa esistenza.
Il mondo non è redimibile.
Ma poiché ci troviamo in questo stato,
con questo corpo e con questa mente, è con loro che dobbiamo cercare di capire
e di risolvere il problema. Non invocando dei o salvatori ultraterreni.
Se ci fossero dei o salvatori, il mondo
sarebbe diverso. Ed è proprio di questo che ci lamentiamo – che non lo è.
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