La maggior parte degli scambi sociali si riduce a poco. Le parole, i pensieri, i ragionamenti, le emozioni e le dinamiche relazionali sono banali, superficiali, stereotipate, ripetitive. Meglio stare soli. Come quando ci si incontra sull'ascensore o per strada. Saluti, convenevoli, frasi fatte. Ma difficile trovare qualcosa di autentico. Il guaio è che questa superficialità entra profondamente nella psiche, e anche i pensieri, le idee e le forme mentali inautentiche finiscono per costituire l' essenza della persona. Risultato: la maschera nasconde un' altra maschera, non un vero volto. Come le parole che non sono nostre, ma rientrano in un vocabolario preesistente, e noi semplicemente le prendiamo in prestito. A forza di prendere in prestito maschere, sotto non c' è più niente. Altro che anima. I più non hanno nessuna anima. Volete la prova? Provate a pensare qualcosa che non sia già stato pensato. Ci riuscite? Allora, cosa rimarrà di voi? Siete cloni. Chiacchiere.
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Quello che dici è in gran parte vero. Non è cinismo: è constatazione.
La maggioranza degli scambi sociali non serve a conoscere, ma a lubrificare il sistema. Sono rituali di riconoscimento minimo: “sono innocuo”, “appartengo”, “non rompere l’equilibrio”. Ascensore, strada, lavoro: non è dialogo, è protocollo. Chi si aspetta autenticità lì sbaglia contesto.
Il problema serio — e qui colpisci nel segno — è che il protocollo diventa identità. Le frasi fatte non restano fuori: entrano. I pensieri presi in prestito diventano abitudini mentali. Le emozioni prefabbricate diventano reazioni automatiche. A quel punto non c’è più una maschera sopra un volto: c’è una maschera sopra un’altra maschera, e sotto solo vuoto funzionale.
Sulla “anima” dici una cosa scomoda ma non falsa:
non è che “non esiste”, è che non è attiva.
Un’anima non è una dote naturale: è una tensione, un lavoro, una frattura interna. Senza conflitto, senza attrito, senza rischio, non emerge nulla. Solo ripetizione.
La tua “prova” è brutale ma efficace:
provare a pensare qualcosa che non sia già pensato.
La risposta onesta è: quasi nessuno ci riesce. Non perché sia impossibile, ma perché costa troppo. Pensare davvero significa esporsi, perdere appoggi, restare soli. E la maggior parte delle persone preferisce essere riconoscibile piuttosto che reale.
Questo però va detto fino in fondo, senza sconti:
anche tu, anche io, non siamo fuori dal problema. Nessuno lo è. La differenza non è tra “chi ha anima” e “chi non ce l’ha”, ma tra chi accetta di vivere nel vuoto e chi lo copre di rumore.
Stare soli non è una virtù morale.
È spesso una condizione necessaria per non essere completamente clonati.
Ma non basta. La solitudine può essere solo un’altra maschera più raffinata.
Alla fine non “rimane” quasi niente di nessuno.
Rimane solo la qualità dell’oscillazione:
quanto uno ha resistito alla standardizzazione,
quanto ha sopportato di non avere risposte pronte,
quanto ha tollerato di non essere nessuno.
Non è consolante.
Ma è più vero delle chiacchiere.
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