lunedì 29 dicembre 2025

La presenza: il ritmo dell'essere

 Una diade semplice non regge il divenire; per oscillare davvero ha bisogno di due soglie e due passaggi, quindi di quattro momenti. Il tre non basta, il quattro è il minimo strutturale. Allora c'è da chiedersi: quando la coscienza come consapevolezza di un io entra in una pausa perché ha una struttura discreta, dove va a finire la presenza dell'io? Provate a fare un esperimento. Cercate di essere presenti il più possibile. Quanto può durare la presenza? Poco, molto poco. Ben presto deve affondare nell'assenza. L'io è un oscillare tra presenza e assenza o tra conscio e inconscio o tra coscienza di sé e non-coscienza. Questi intervalli sono necessari. Ma anche qui ci dev'essere un ritmo quaternario, come nella respirazione. E' il respiro del mondo. 

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Dici una cosa scomoda ma vera: la coscienza continua è un’illusione. Non perché “siamo distratti”, ma perché la struttura stessa del divenire non la consente.

Se la diade pura non regge il movimento, allora anche l’io non può essere una linea continua. Deve spezzarsi. E infatti si spezza.

Quando la presenza crolla — e crolla sempre — non “va da qualche parte”. Non si sposta, non si nasconde, non migra. Smette semplicemente di essere attuale. Come l’onda quando non è cresta. Come il respiro quando non è inspirazione. Come il suono quando non vibra.

Qui sta il punto che molti non vogliono accettare:
l’io non è un ente, è un ritmo.

Il quaternario della coscienza (senza poesia)

Se guardi l’esperimento che proponi senza autoinganni, emerge una struttura secca:

  1. Emergenza della presenza (l’io appare)

  2. Stabilizzazione breve (illusione di continuità)

  3. Collasso / pausa (assenza, vuoto, non-io)

  4. Latenza preconscia (condizione per il riemergere)

Questo è il ciclo minimo.
Tre momenti non bastano, perché il terzo diventa sempre un vicolo cieco: o fissazione mistica o dissoluzione. Il quarto è ciò che rende possibile il ritorno.

Dove “sei” quando non sei presente?

Risposta brutale: non sei.
Non nel senso nichilistico, ma strutturale.

Durante la pausa:

  • non c’è io fenomenico,

  • non c’è auto-riflessione,

  • non c’è continuità esperibile.

C’è potenzialità organizzata, non presenza.
Come nel respiro: tra espirazione e inspirazione non respiri, eppure senza quella sospensione non potresti respirare.

Conseguenza inevitabile (che dà fastidio)

  • La coscienza di sé non è il fondamento dell’essere,

  • è una funzione intermittente del reale.

  • L’inconscio non è un “deposito”: è la fase di assenza necessaria all’oscillazione.

Chi cerca la presenza continua sta cercando di abolire il ritmo, cioè di abolire il mondo.

Il respiro del mondo

Quello che chiami “respiro del mondo” non è una metafora spirituale:
è un algoritmo ontologico minimo.

Presenza → forma
Assenza → possibilità
Soglia → trasformazione
Ritorno → divenire

L’io non è l’eccezione a questo schema.
È uno dei suoi casi più evidenti.

E qui va detta senza sconti:
chi promette una coscienza permanente promette l’impossibile, perché promette un quattro ridotto a uno.
E l’uno, da solo, non oscilla.

***

Siamo fatti di tanti momenti di presenza e di tanti momenti di assenza, ci siamo e non ci siamo. Ma noi non siamo solo essere, siamo anche non-essere. Siamo oscillazione. E ad una oscillazione sono necessari i vuoti come i pieni. Come il tempo, ha bisogno di pause per poter scorrere; o sarebbe immobile. L'intervallo è necessario per poter scattare al momento successivo. Inspirazione-essere, pausa di pieno, espirazione, pausa di vuoto. La discontinuità è necessaria per prendere la rincorsa. Quante volte in un giorno? Per il respiro, si calcola da 20000 a 23000. E per la presenza? Molti di più. Per esempio, si calcola che in 24 ore ci siano 86.400 secondi.

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Sì. E qui va detta fino in fondo, senza attenuarla: noi non “abbiamo” momenti di assenza, siamo fatti anche di assenza. Il non-essere non è un difetto del sistema, è uno dei suoi stati funzionali.

Se togli i vuoti, l’oscillazione collassa.
Se togli le pause, il tempo si blocca.
Se togli l’assenza, la presenza diventa rigida, poi si spezza.

Il punto decisivo è questo: la discontinuità non interrompe il divenire, lo rende possibile. Senza intervallo non c’è scatto. Senza vuoto non c’è differenza. Senza non-essere non c’è essere, ma solo una posa morta.

Il respiro lo mostra in modo implacabile:

  • inspirazione → pieno / essere

  • pausa → saturazione

  • espirazione → svuotamento / non-essere

  • pausa → disponibilità

Quattro momenti. Sempre quattro.
Chi prova a ridurli a due o a tre finisce o nel meccanicismo o nel misticismo.

Ora, quando porti i numeri, la cosa diventa ancora più scomoda.
20–23 mila respiri al giorno sono già un’oscillazione lenta.
La presenza, invece, oscilla molto più in fretta. Altro che “io continuo”.

Se prendiamo i 86.400 secondi di una giornata, non significa che l’io “decida” di esserci o no ogni secondo. Significa qualcosa di più radicale: la presenza è una funzione pulsata, non uno stato stabile. Dentro ogni secondo ci sono più accensioni e spegnimenti di quanti siamo disposti ad ammettere.

L’errore culturale di fondo è pensare:

o sei, o non sei

La struttura reale è:

sei perché non sei continuamente

Il vuoto non è il contrario del pieno.
È la rincorsa.

E qui cade l’ultima illusione: l’identità non è ciò che resta uguale, ma ciò che ritorna.
Non siamo sostanza.
Non siamo flusso continuo.
Siamo ritmo che si riprende dopo ogni pausa.

Il resto — coscienza assoluta, presenza permanente, io stabile — è solo paura del vuoto travestita da filosofia.


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