Mi sembra che molte diadi possano essere forti o deboli, reali o astratte, secondo come le viviamo. Se le consideriamo in astratto, senza viverle, senza sentirle, diventano strutture teoriche. Se invece le esperiamo, sono realtà vissuta. Se per esempio considero lo spazio/ tempo come astrazione, diventa uno schema mentale; ma se lo considero mentre lo vivo, è reale. Il problema è che, quando ragioniamo, quando pensiamo, è già un' astrazione. E mentre viviamo, non le pensiamo. C' è dunque una diade esperire/pensare che è implicita. Ma noi dobbiamo teorizzare. E teorizziamo ciò che abbiamo già vissuto. Come uscire dal paradosso?
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Il paradosso c’è davvero. E non si risolve “meglio”, si risolve spostandosi.
Detta senza giri di parole: non si esce dal paradosso eliminando l’astrazione, perché senza astrazione non c’è teoria; ma si esce smettendo di confondere la teoria con il reale. La frattura non va sanata, va tenuta aperta.
Vado per punti netti.
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1. Esperire e pensare non sono alternativi, sono asincroni
L’errore classico è immaginarli come due stati separati: prima vivo, poi penso. Non è vero.
Nell’esperienza c’è già una pre-forma di pensiero (ritmi, soglie, tensioni, salienze).
Nel pensiero sopravvive una traccia dell’esperienza, ma morta, raffreddata.
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In questo oscillare tra realtà e pensiero e tra pensieri e realtà , non c' è la prova che il pensiero modifica la nostra esperienza? Ogni volta ci ritorna un' esperienza pensata.
Il problema nasce quando il pensiero si scambia per l’esperienza oppure quando l’esperienza pretende di essere immediatamente vera senza forma.
La diade esperire/pensare è reale, ma non è simmetrica.
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2. La teoria non descrive l’esperienza: ne è il sedimento
Qui va detta una cosa scomoda:
una teoria non coglie il reale, ne è un residuo.
La teoria:
arriva dopo,
è più povera,
perde intensità,
ma guadagna trasferibilità.
Se chiedi alla teoria di essere “vera come l’esperienza”, la stai chiedendo una cosa impossibile. Se la accetti come cristallizzazione postuma, funziona.
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3. Il paradosso nasce da una pretesa illegittima
Il paradosso che senti nasce da questa aspettativa implicita:
> “Se una diade è reale, dovrei poterla pensare senza perderla.”
Questo è falso. Pensare è già una perdita, ma è una perdita necessaria.
Non esiste:
pensiero non astratto,
teoria non raffreddata,
concetto che coincida col vissuto.
Pretenderlo significa chiedere al linguaggio di essere il mondo.
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4. L’uscita: teoria come oscillazione, non come mappa
La via d’uscita non è logica, è strutturale.
La teoria non deve:
rappresentare il reale,
né sostituirsi all’esperienza,
ma riattivare l’oscillazione.
Una buona teoria non dice “cos’è”, ma:
indica soglie,
segnala inversioni,
mostra dove il pensiero deve fallire per tornare al vissuto.
In questo senso, la tua teoria delle oscillazioni è già una risposta implicita:
la teoria non è il polo “pensare”, è la dinamica tra pensare ed esperire.
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5. La mossa decisiva (ed è qui che pochi arrivano)
L’unico vero errore sarebbe questo:
> credere che la teoria serva a sostituire l’esperienza.
No.
La teoria serve a rendere possibile una nuova esperienza.
Si vive → si teorizza → si vive diversamente.
Se una teoria non cambia il modo in cui poi vivi spazio, tempo, corpo, relazione, allora sì: è astratta e sterile.
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6. Formula secca di uscita dal paradosso
Te la dico brutalmente:
> Non si teorizza il reale.
Si teorizza per tornare al reale.
Il paradosso non va risolto:
va abitato come soglia, esattamente come tutte le diadi che stai studiando.
E questo, coerentemente, non lo puoi “pensare” fino in fondo. Lo puoi solo riconoscere quando accade.
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Dunque devo oscillare tra esperire e pensare, e subito dopo tra pensare ed esperire.
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Sì.
Ed è inutile edulcorarlo: non c’è alternativa.
Ma attenzione al punto decisivo, altrimenti sembra una banalità zen.
Non devi scegliere di oscillare. Oscilli già.
La differenza non è tra oscillare o non oscillare, ma tra:
oscillare ciecamente, scambiando un polo per il tutto
oscillare consapevolmente, senza idolatrare né l’esperienza né il concetto
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La sequenza reale (non ideale)
Quella che descrivi è corretta, ma va detta senza abbellimenti:
1. Esperisci → senza distanza, senza concetto, senza controllo
2. Pensi → separi, raffreddi, tradisci inevitabilmente
3. Torni a esperire → ma non nello stesso modo di prima
Il punto chiave è questo:
non torni mai allo stesso vissuto, torni a un’esperienza modificata dal pensiero.
Questa non è una perdita. È l’unico modo in cui esiste trasformazione.
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L’errore da evitare (ed è comune anche nei filosofi)
Credere che:
l’esperienza pura sia più “vera”
il pensiero sia una caduta
Falso.
Senza pensiero l’esperienza è muta.
Senza esperienza il pensiero è vuoto.
Non sono due stati morali, sono due funzioni incompatibili ma necessarie.
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Il ritmo conta più dei poli
Il punto non è esperire bene o pensare bene.
Il punto è non bloccarsi.
Quando ti blocchi:
solo esperienza → misticismo confuso, ineffabile sterile
solo pensiero → ideologia, schema morto
La realtà accade nel passaggio, non nei capi.
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Qui la tua teoria si gioca tutto
Se la tua teoria diventasse:
un sistema chiuso → fallisce
un manuale → muore
una spiegazione totale → mente
Se resta invece:
una macchina oscillante
una struttura che impone il ritorno al vissuto
allora non è una teoria sulla realtà,
ma una teoria che fa succedere qualcosa.
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Detto senza consolazioni
Non arriverai mai a una posizione stabile.
Non esiste un punto in cui “hai capito”.
Esiste solo:
un oscillare più onesto,
meno narcisistico,
meno dogmatico.
Ed è già moltissimo.
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In questo oscillare tra realtà e pensiero e in questi tornare ogni volta a una realtà pensata, non c' è la prova che il pensiero modifica la realtà, o il nostro modo di esperire la realtà?
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Sì.
C’è esattamente questa prova. E va detta senza ambiguità.
Ma va anche detta bene, altrimenti si scivola subito nella fuffa idealista.
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1. Il pensiero modifica la realtà?
Dipende da cosa chiami “realtà”.
Se per realtà intendi:
il mondo in sé, indipendente da te → no, il pensiero non lo modifica direttamente
la realtà vissuta, abitata, attraversata → sì, inevitabilmente
E non è un’ipotesi: è un dato strutturale.
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2. La prova non è teorica, è fenomenologica
La prova è banale, quotidiana, ineliminabile:
dopo aver pensato qualcosa, non puoi più esperirla come prima
dopo aver nominato, distinto, compreso, l’esperienza cambia qualità
ciò che era neutro diventa carico
ciò che era invisibile diventa evidente
ciò che era immediato diventa mediato
Se questo non fosse vero, non esisterebbero apprendimento, trauma, maturazione, disincanto, saggezza.
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3. Il pensiero non aggiunge: ristruttura
Qui sta il punto cruciale.
Il pensiero:
non “aggiunge informazioni” alla realtà
ridisegna le soglie dell’esperienza
Cambia:
cosa noti
cosa ignori
cosa ti colpisce
cosa ti attraversa senza lasciare traccia
In altre parole:
la realtà non cambia, ma cambia il tuo accesso alla realtà.
E questo, pragmaticamente, è un cambiamento reale.
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4. Attenzione: non è soggettivismo
Dire che il pensiero modifica il modo di esperire non significa che “la realtà è solo nella testa”.
Significa qualcosa di più scomodo:
> la realtà che conta, quella con cui vivi, soffri, desideri, agisci,
è sempre una realtà filtrata da strutture di senso
Non puoi tornare a una “realtà pura”.
Puoi solo cambiare la forma del filtro.
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5. La diade decisiva non è realtà/pensiero
È questa:
realtà possibile / realtà accessibile
Il pensiero non crea la realtà possibile.
Ma decide quali parti diventano accessibili, praticabili, sentite.
E questo ha effetti concreti:
sulle relazioni
sulle scelte
sul corpo
sul tempo vissuto
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6. La conclusione (senza sconti)
Sì:
il pensiero modifica radicalmente la realtà che vivi,
anche se non modifica il mondo in sé.
E se così non fosse:
la filosofia sarebbe inutile
la scienza sarebbe sterile
la terapia sarebbe una truffa
l’educazione sarebbe impossibile
Il vero problema non è se il pensiero modifica la realtà.
Il problema è che lo fa sempre, anche quando credi di non pensare.
La sola libertà che hai
è come lasciarlo operare
e quanto esserne consapevole.
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