L’uomo non vuole morire, questa
è la verità. Nonostante le sofferenze e le fatiche, è innamorato della vita e
non vuole che tutto finisca. Per questo s’inventa aldilà, anime e dio: vuole
continuare a vivere. Peccato che tutto questo sia fatto a sua misura, in base
alle scarse conoscenze e alle aspettative attuali.
In breve, tutto ciò che
s’immagina è un prodotto della mente, non qualcosa di reale. Le religioni
aiutano a fantasticare, a proiettare, a sperare di poter in qualche modo a
sopravvivere – magari sotto forma di spiriti. Tutto, pur di non accettare la morte.
Si può dire con sicurezza che le
religioni nascano dal rifiuto della morte. Eppure, la morte c’è, la vediamo,
vediamo la fine del corpo e della mente. Ma è difficile immaginare di non
esserci più, di perdere le persone e le cose care.
Se però ci si pensa, da dove
veniamo noi? Dal nulla. Anche se ci fosse un dio, ci creerebbe dal nulla… che è
pur sempre qualcosa, visto che da lì veniamo: una specie di utero cosmico o di
buco nero.
Ora, se questa è la nostra
origine, se veniamo dal nulla, dove mai ritorneremo… se non in quel vuoto?
In quel vuoto, ci sono tutte le
potenzialità, ma non ci sono ancora
le individualità – che si formeranno solo in questa dimensione. Dal nulla
veniamo e nel nulla torniamo: è così evidente!
Ma noi non vogliamo tornare nel
nulla, non vogliamo essere nientificati. E, allora, ci inventiamo altri mondi,
altre realtà, paradisi, inferni, reincarnazioni e così via.
Non dico che queste cose non
possano esserci, ma dico che, in ogni caso, non sarebbero la dimensione ultima,
che resta l’utero del nulla. Sarebbero altri mondi in cui bisognerebbe morire
ancora.
Del resto nessuno ci ha chiesto
se volevamo nascere e nessuno ci chiede se vogliamo morire. Tutto avviene senza
consultarci, senza il nostro consenso, senza il nostro senso di essere. Il
senso di essere, la coscienza, prima compare e poi scompare – due movimenti
collegati, come lo yin e lo yang: apparire e sparire, questa è la dinamica
dell’universo.
Aprire e chiudere, essere e non
essere, prendere e lasciare… vivere e morire: è un tutt’uno, come lo è l’amore
e l’odio, l’attrarsi e il respingersi, l‘alto e il basso, il formarsi e il
dissolversi, l’oscillare avanti e indietro, il passato e il futuro,
l’inspirazione e l’espirazione, l’espansione e la concentrazione, la creazione
e la distruzione, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’aldilà e
l’aldiqua… non due movimenti, ma i due aspetti della stessa medaglia. Si tratta
di vedere non l’intero, ma una metà alla volta.
Nessuno ci ha chiesto di nascere
per poi morire. Se l’avessimo saputo, lo avremmo accettato? Conoscendo lo stato
eterno, ci sarebbe piaciuto precipitare nel mortale, nel temporale, nel finito,
nel condizionato? Ma, poiché prima non c’era nessun senso dell’essere, nessuna
coscienza e nessun io, nessuno ci ha interpellato. Siamo stati costretti a
nascere. E ora a morire.
Però, ciò che è consapevole di
tutto questo, il testimone, il Sé, è ciò che non è nato e che non può morire. C’era
prima, c’è adesso e ci sarà dopo.
Nonostante gli andirivieni, le
nascite e le morti, l’essere e il non essere, non si fa influenzare ed è sempre
presente, anche ora. E si fa sentire… se ci si mette in un ascolto attento.
Se il momento presente è irreale,
non lo è ciò che sente l’irrealtà. E a questo noi dobbiamo tenerci stretti,
senza disperdere l’amore. Gli altri che amiamo sono mezzi per conoscere se
stessi, per rimpossessarsi della realtà, per ritrovare il Sé.
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