Se, con
la morte, scompare l’io, mi sapete dire chi
può essere giudicato, punito o premiato? Non ha più senso.
Allora,
qualcuno, malauguratamente, pensa che l’io, sotto forma di anima, sopravviva
alla morte; ma così si proietta il dualismo bene-male anche nell’aldilà.
Può
darsi, comunque, che ci sia una salita progressiva e che per i primi stadi
rimanga una qualche memoria, dovuta alla potenza e alla vischiosità dei
desideri terreni.
In
realtà, come le malattie ci portano da uno stato di benessere a uno stato di
malessere, così anche la coscienza, o il senso di essere, va considerato una
malattia. La coscienza di sé è una malattia che spezza l’unità originale.
Con la
coscienza appaiono il tempo, il mondo, la divisione, il contrasto, l’io e il
concetto di Dio, spontaneamente, tutti insieme. Ma non sono che prodotti della
spaccatura, senza una vera sostanza, immaginari. Non c’erano prima e non ci
saranno dopo.
Perché
lo stato originario completo e perfetto si è ammalato? Ci si ammala perché
qualunque sussulto o movimento nella perfezione non può che introdurre l’imperfezione.
Del
resto, perché ci si ammala nella vita comune? Proprio perché nella salute è
penetrata l’instabilità, che è insita nelle cose.
La
perfezione è cagionevole di salute.
Però ci
rimane il testimone della coscienza, che è un pezzo del mondo di prima. E
seguendo la consapevolezza di questo testimone, si capisce tutto. Dove siamo
finiti e dove ritorneremo.
Il
povero Dio lasciamolo stare. È già morto.
È
proprio il buddhismo che afferma che gli dei esistono e vivono a lungo. Ma alla
fine muoiono anche loro.
Tutto è
instabile.
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