martedì 23 gennaio 2024

La ricerca della felicità (2)

 

Tutti vorremmo essere felici, ma poiché la felicità è legata in modo complementare all’infelicità, non possiamo realizzarla o la realizziamo solo per brevi periodi. Poi la ruota gira, l’oscillazione deve andare dall’altra parte, e quindi ritorna l’infelicità. I due poli sono legati indissolubilmente e, se vogliamo l’uno (di solito la felicità), dobbiamo prenderci anche l’altro.

Ci sono un mucchio di consigli e di strategie per conservare la felicità, ma tutte s’infrangono davanti alla connessione con l’infelicità. Di solito noi crediamo che, facendo del bene, ci verrà altro bene. Addirittura, nel buddhismo, esiste un metodo (il tonglen) che consiste nell’augurare bene e felicità agli altri, prima agli amici e poi ai nemici. Il che ricorda il cristianesimo che ci raccomanda di amare il prossimo e perfino i nemici. Questo nella convinzione che il bene, fatto o augurato, ci ritorni in qualche modo.

Ma le cose non vanno così. Una legge della fisica ci dice che ad ogni azione deve corrispondere una reazione uguale ma di segno contrario. Quindi, facendo un’azione benefica, non è detto che ci venga del bene; prima o poi ci verrà il suo contrario.

Il mondo è stato fatto così: le forze in gioco vanno a due a due, uguali per intensità ma contrarie. Non importa se sono forze fisiche, mentali, emozionali, morali o degli eventi. Devono contrapporsi restando però legate. Fra parentesi, lo sapete che, per il fenomeno dell’entanglement quantistico,  due  particelle che si sono trovate in interazione reciproca per un certo periodo, anche se separate spazialmente, rimangono in qualche modo legate indissolubilmente (entangled), nel senso che quello che accade ad una di esse, si ripercuote istantaneamente anche sull’altra, indipendentemente dalla distanza che le separa? Una correlazione dunque che comporta “un’azione fantasmatica a distanza”.

Ebbene un’azione complementare esiste fra tutte le forze antinomiche. La felicità non può essere separata dall’infelicità, il bene dal male, il piacere dalla sofferenza, ecc. Perché mai del resto si dice che amare significhi soffrire? Non è perché i due opposti vanno sempre insieme? Ed è logico: l’amore ci rende più sensibili e la sensibilità ci espone alla sofferenza e quindi a un’ampia gamma di sentimenti che vanno dall’odio al rancore, dalla gelosia alla voglia di possesso. Se mi rendo conto che non posso vivere senza quella persona – non mi rende questo fatto dipendente, sviluppando una forma di ribellione e di odio?

Allora ci dobbiamo mettere a far del male? Potrebbe funzionare per un breve periodo, ma poi la ruota girerebbe comunque.

Non c’è niente da fare: qualunque cosa facciamo, da qualunque polo partiamo, la ruota girerà comunque in senso avverso.

Il fatto è che il problema della felicità è impostato male. Non posso far niente per essere felice o per accaparrarmi il bene, e per evitare il male e l’infelicità, se non piccoli accorgimenti che però non potranno cambiare l’oscillazione o la rotazione in senso avverso. Devo sempre tener presente che non posso avere uno dei due poli se non avendo, prima o poi, anche l’altro, perché i due procedono come gemelli uguali per tutto ma con caratteri opposti. Questo è il karma dell’umanità. Il polo opposto ci accompagna come l’ombra.

Perché, del resto, i dittatori sanguinari e i delinquenti del mondo godono di ottima salute o non diversa da quella dell’uomo comune?

Ogni forza contiene già il seme del suo opposto. Il movimento ciclico, la simmetria rotazionale, non può essere fermata. Quando lo yang ha raggiunto il suo massimo, deve ritrarsi a favore dello yin. Ecco perché “allontanarsi significa tornare”, come dice il Tao Te Ching.” Ogni volta che uno dei due poli si è sviluppato al massimo, ecco che deve lasciare il posto allo yin.

Il problema allora non è quello di eliminare uno dei due poli, ma quello della loro armonia. Ci dev’essere un equilibrio di base, rotto il quale subentra la degenerazione o la malattia. L’importante è l’interazione dinamica fra i due opposti, non l’eliminazione di uno dei due. Ciascuno dei due poli è legato dinamicamente all’altro.

Dice Lao-tzu che ogni volta che si vuole ottenere qualcosa, bisogna partire dal suo opposto.

“Se si vuole restringere, bisogna innanzitutto estendere.

Se si vuole indebolire, bisogna innanzitutto rafforzare.

Se si vuol far perire, bisogna innanzitutto far fiorire.

Se si vuole acquisire, bisogna innanzitutto offrire…

Ciò che è storto diventa diritto.

Ciò che è vuoto diventa pieno.

Ciò che è consumato diventa nuovo

Il difficile e il facile si completano l’un l’altro, il prima e il dopo si seguono l’un l’altro…”

 

A questo punto, se vuoi la felicità o il bene, non devi sforzarti di ottenerli da soli, ma di mantenere un equilibrio dinamico tra felicità e infelicità, tra bene e male.

Anche in Occidente sono state sviluppate le stesse idee, tanto che anche Eraclito afferma che gli opposti sono poli complementari e quindi formano un tutto unico. “Le cose fredde si riscaldano, il caldo si raffredda, l’umido si dissecca, il secco si inumidisce… Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame…”

Diceva il grande filosofo indiano Nagarjuna: “Le cose derivano il loro essere e la loro natura dalla mutua dipendenza e non sono nulla  in se stesse.” Sono tutte processi, relazioni, eventi, interdipendenza.

Allora come bisogna agire?

Bisogna fluire con la corrente, cercare un equilibrio, un’armonia fra opposti sempre variabili, non cercare una felicità in astratto, separata da tutto e isolata.

Sarebbe come voler essere felici chiudendoci in una torre di avorio, isolata da tutto.

Già questo ci renderebbe infelici. Il Buddha da giovane lo aveva fatto. Ma era insoddisfatto, così come sono insoddisfatti i nostri giovani protetti e viziati.

Inoltre, una situazione di isolamento perfetto non è possibile, perché nel mondo tutte le cose sono interconnesse e interrelate. E noi in mezzo a loro.

Anche il nostro io cosciente è collegato al tutto, nel senso che è collegato agli altri (nessuno nasce da solo) e a tutti gli altri enti ed eventi. È impossibile isolare un individuo. Siamo nativamente interdipendenti. Questo significa che per conoscere qualcuno, bisogna interagire con lui ed, entro certi limiti, influenzarlo, modificarlo. Il che avviene sia quando cerchiamo di conoscere un altro sia quando di cerchiamo di conoscere noi stessi. Niente è stabile, niente è isolato, niente è autonomo e niente è conoscibile in se stesso. Siamo nodi di una rete immensa ed ogni nodo è influenzato e influisce sugli altri.

Quindi, già l’atto di conoscere noi stessi o un altro, modifica, muta quel che osserviamo. Ma questo, se da una parte è uno svantaggio, dall’altra ci dice che tutto è modificabile.

Dunque, la nostra pretesa di cambiare le cose non è infondata.

Anche gli eventi si modificano e si influenzano di continuo. Ma questo avviene inconsciamente, spontaneamente, in base a leggi implacabili di moto, senza che ce ne rendiamo conto: come farlo deliberatamente?

Se io voglio cambiare una situazione (di solito a mio vantaggio), mi do da fare, lavoro, intervengo, prego, aspiro… Ma il guaio è che entra in gioco il binomio vantaggio/svantaggio – e sono fregato. Operando a mio vantaggio, mi procuro anche uno svantaggio. E il maledetto ciclo va avanti da solo.

Il pensiero, come il sentimento, riflette e crea un mondo che è sempre duale. E quindi mai in pace, mai stabile.

Possiamo influenzarlo? Sì, perché tutti influenzano tutto. Ma, per farlo volontariamente, intenzionalmente, dobbiamo introdurre una forte consapevolezza, che è un’energia conoscitiva e trasformatrice non duale.

Mentre la coscienza è la massima espressione della dualità, la consapevolezza sa senza dividersi tra soggetto e oggetto. Essere consapevoli di qualcosa è già essere o fare quella cosa. Come mai?

Facciamo un esempio: se io sono consapevole di essere vivo, non ho bisogno di dimostrazioni. Se io sono consapevole di amare qualcuno o di avere paura, non devo provarlo. Se devo dimostrarlo, vuol dire che non ne sono consapevole.

In genere, tutti i sentimenti, le sensazioni e le emozioni si presentano direttamente, senza mediazioni. Ma anche i pensieri o le immagini: non c’è uno schermo tra me e loro. Non ho bisogno di dire: ecco che arriva. Arriva e basta. Questa è apprensione diretta, ma sono più legate all’istinto.

Anche certe conoscenze, vere o sbagliate, arrivano direttamente. Quando incontro una persona per la prima volta, ricevo un’impressione immediata che non ha bisogno di ragionamenti. Secondo la psicologia, esistono almeno quattro tipi di intuizione:

·         Intuizione artistica: un artista che ha un’idea improvvisa per un’opera d’arte e la realizza senza sapere esattamente come sarà il risultato finale.

·         Intuizione scientifica: un ricercatore che ha un’idea improvvisa per una soluzione a un problema scientifico che sta affrontando.

·         Intuizione sociale: una persona che ha un’idea improvvisa su come rispondere a una situazione sociale complessa.

·         Intuizione spirituale: una persona che ha un’idea improvvisa su come rispondere a una questione spirituale o religiosa.

Queste intuizioni non hanno contrari, non sono quindi soggette al gioco del dualismo.

Dunque, essere consapevoli di qualcosa è modificare o realizzare quella cosa. Quando non realizziamo niente di quel che immaginiamo di volere è perché abbiamo già perso quella convinzione non duale e la ruota è già girata da sola.

Quando invece siamo consapevoli in modo diretto di qualcosa, quella cosa già è.

Così semplice? Sì, è un po’come la fede che sposta le montagne. E avviene continuamente senza che ce ne rendiamo conto, realizzando tutto ciò che vogliamo e ci meritiamo. Se crediamo di non realizzare nulla, è perché vogliamo quel nulla o non vogliamo nulla. Va bene anche così, perché, per ogni desiderio o volontà, c’è un non-desiderio o una non-volontà. Qualcosa realizziamo sempre, anche il contrario di ciò che crediamo di volere e che in realtà non vogliamo. Altrimenti saremmo immobili, e nessuno può restare immobile sul piano inclinato su cui ci troviamo. Tutti precipitiamo lungo la voragine dello spazio-tempo e del divenire. E, precipitando, facciamo precipitare o collassare gli avvenimenti, volenti o nolenti.

Non fraintendiamo. Non si tratta di sforzi di volontà o di pensiero positivo. È proprio il contrario: nessuno sforzo e nessun pensiero. È così che le cose avvengono. Spontaneamente, districandosi, emergendo o collassando dal campo delle possibilità.

Non basta il desiderio, perché il desiderio presuppone un dualismo. E quindi non ha nessuna capacità realizzativa. Ci vuole qualcosa che c’è già e che è il motore di ogni realizzazione.

 

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