In realtà noi conosciamo noi stessi così come conosciamo (male) gli
altri: siamo oggetti anche per noi stessi e quindi non ci conosciamo mai per
quel che siamo, come soggetti. Il risultato è che ciò che conosciamo di noi
stessi è un’interpretazione mediata dalla mente condizionata, non la verità.
Per sapere chi siamo mettiamo in azione una mente dualistica basata su
concetti e contrapposizioni. Ci osserviamo così come osserviamo gli altri.
Perciò siamo “altri” anche per noi stessi: e questo è l’inizio della nostra alienazione.
Quello che ci sfugge è la percezione diretta. In altre parole,
dovremmo essere noi stessi, non
pensarci.
Ne consegue che ciò che conosciamo è già condizionato, falso,
illusorio. E mutevole, nel corso della vita.
Quella che conosciamo di noi stessi è un’immagine, un concetto, esattamente
come per gli altri.
Siamo dei riflessi di qualcosa che non cogliamo, delle ombre di una
sostanza che ignoriamo.
Il problema allora non è di osservarci con distacco (perché facendo
così ci dividiamo in due, soggetto e oggetto), ma di riconoscere la nostra
trascendenza.
Ciò che siamo non è quel che conosciamo, ma colui che conosce.
Colui che conosce non può essere conosciuto mentalmente, perché trascende
la mente, è sempre prima. Qui c’è il
nostro “io” trascendente.
Si tratta dunque non tanto di conoscere, quanto di capire. Una volta
capito (da cum-capio), lo percepiremo
o intuiremo.
Altrimenti, rimarremo sempre immagini mentali che cercano un potente
cui affidarsi, restandone schiavi.
Nessun commento:
Posta un commento