Quando moriamo, non c’è né
paradiso né inferno. L’io e la coscienza di esistere si dissolvono e passano da essere personali e limitati a
essere universali e illimitati.
Lo dico perché, se potessero
esistere paradiso e inferno, dovrebbe conservarsi una parvenza di io e quindi
del dualismo sofferenza/gioia, piacere/dispiacere, tempo e spazio. Il che potrebbe
anche essere possibile, ma sarebbe ancora temporaneo, un livello da superare.
Noi invece ci riferiamo a
persone che hanno capito e che sono ormai all’ultimo livello, quello che non ha
più bisogno di esperienze.
La morte è allora come
disperdere l’acqua di un bicchiere nel mare. Perde la sua forma, è vero, ma
quella forma era solo un limite temporaneo e del tutto artificiale: l’acqua non
ha forma.
Il contenimento temporaneo nell’io
e in un corpo è dovuto a un’illusione: il miraggio della felicità, la speranza
di poter essere felici per sempre. Ma, se c’è talvolta felicità, ci deve essere
anche il suo contrario: l’infelicità, la sofferenza. Noi ci dimentichiamo di
questa legge.
Ma chiedete in giro: chi è
veramente e stabilmente felice? Chi, se non lo scemo del villaggio senza consapevolezza?
Perché non c’è via d’uscita: la coscienza di essere è quasi sempre infelice.
Dunque, gli uomini sono degli
illusi, sempre alla ricerca di qualcosa e sempre delusi.
Certo, si può scegliere un
atteggiamento coraggioso e stoico. Ma anche questo atteggiamento non nasconde
la disfatta dell’essere vivente.
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