lunedì 21 aprile 2025

Le piccole felicità

Pubblico questa intervista al filosofo giapponese Masahiro Morioka perché anche lui dice che, di fronte alle grandi e inevitabili infelicità, esiste solo la possibilità di piccole felicità.

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Masahiro Morioka, il filosofo e il segreto della «piccola felicità» che salva dal dolore

di Costanza Rizzacasa d'Orsogna

Nato a Kochi, è una delle figure più importanti del pensiero contemporaneo giapponese: «Ogni creatura sfiorisce dopo aver superato lo Zenit della vita. Il concetto di appassire oggi sarebbe importante»



Di fronte alle sofferenze della vita, anche quelle che noi stessi abbiamo causato, sarebbe stato meglio non nascere? Se lo chiede Masahiro Morioka, una delle figure più importanti della filosofia contemporanea giapponese, autore di moltissimi libri, tra cui anche un manga bestseller sull’introduzione alla filosofia uscito dall’Asia all’Europa. 


Sessantasei anni, nato a Kochi, nel sud del Giappone, insegna filosofia ed etica alla Waseda University, la più prestigiosa università privata del Paese, da cui sono usciti nomi come lo scrittore Haruki Murakami, il regista Hirokazu Kore-eda, nonché moltissimi tra ex primi ministri e capitani d’industria giapponesi e sudcoreani. 


Pilastri del pensiero di Morioka sono il rifiuto della civiltà indolore, la critica all’antinatalismo e l’erbivorizzazione del maschio come antidoto alla mascolinità tossica.


Come si è avvicinato alla filosofia?

«Ero un bambino filosofo. Quando andavo alle elementari, a dieci o undici anni, ho iniziato a riflettere su cosa sarebbe accaduto se fossi morto. Ho immaginato la morte come trovarsi in uno stato del nulla, e quell’immagine mi ha spaventato. Penso di essere diventato un filosofo allora. Da quel momento, il pensiero della morte, e quindi della vita, non mi abbandona mai. La mia filosofia ha un obiettivo concreto: chiarire i misteri della vita e della morte, e ciò che ad esse è connesso. Al liceo pensavo che per rispondere a queste domande avrei dovuto diventare un fisico e usare metodi matematici. Solo dopo ho capito che la fisica non era sufficiente.»


Masahiro Morioka, il filosofo e il segreto della «piccola felicità» che salva dal dolore

Masahiro Morioka, 66 anni, nato a Kochi, nel sud del Giappone, è professore di filosofia ed etica alla Waseda University, la più prestigiosa università privata del paese


È religioso?

«Sì e no. Sono cresciuto nelle atmosfere del buddismo giapponese, ma non credo nelle religioni, nell’esistenza di un dio o altra entità trascendente. Non credo esista un mondo oltre la morte. Allo stesso tempo, però, non nego tutto questo, perché è filosoficamente impossibile sostenere che non esista. Sono agnostico, ma sono anche essenzialmente religioso».


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Cosa sono i “life studies”, l’approccio integrato ai temi della vita, della morte e della natura che ha coniato?

«Uno studio metodologico che prevede che un filosofo non sia mai distaccato dal tema che indaga. Tanti filosofi maschi, per esempio, filosofeggiano sull’aborto senza considerare il proprio coinvolgimento nell’atto sessuale che porta a un parto o a un aborto. Tutta la filosofia dovrebbe essere “life studies”, ma il pensiero accademico contemporaneo lo proibisce. Trovo che questa sia la morte della filosofia».


La letteratura giapponese si interroga da sempre sul significato della vita. Nella prima metà del Novecento, scrittori come Atsushi Nakajima, Kenji Miyazawa e Osamu Dazai hanno indagato la natura dell’esistenza. La parola seimei significa “vita”. Un’altra parola, ikigai, “ragione di vita”, purtroppo trivializzata dal marketing occidentale, riflette una visione secondo cui la realizzazione dell’individuo si accompagna al suo contributo alla società.

«In Giappone, il senso della vita, spesso indicato come ikigai, è generalmente collegato alla natura e all’inochi (“vita”). Inochi, equivalente di seimei e uno dei concetti più profondi nella visione giapponese della vita e della morte, è l’essenza fondamentale degli esseri viventi. Esiste all’interno di ogni essere vivente, ma allo stesso tempo è connessa alle inochi di altri esseri viventi, come una corrente di vita che scorre attorno al mondo e alla natura. Ricordo un sopravvissuto del terremoto e tsunami del 2011 raccontare come al mattino potesse sentire gli spiriti dei familiari dispersi tra le onde del mare mosse dal vento. Per i giapponesi, la natura ha una funzione simile a quella di dio nei Paesi occidentali».


Parte dei suoi studi è dedicata a quella che definisce «la civiltà indolore», così determinata a eliminare la sofferenza che perde di vista il senso della vita. Ma non è civile e compassionevole liberarci del dolore?

«Non parlo, ovviamente, di un dolore fisico intollerabile, delle sofferenze di un malato terminale. Il problema è la ricerca ossessiva dell’assenza di dolore: fisico, mentale e spirituale. È vero, il mondo contemporaneo è pieno di dolore e sofferenza, ma affogare in un oceano di piacere vuol dire essere privati di un’esperienza fondamentale della vita, e cioè della gioia di rinascere dopo le disgrazie. La nostra società si avvia verso tutto questo».


I bambini di Gaza, gli anziani del terremoto di Noto, in Giappone, che un anno dopo continuano a morire. Perché?

«Non ho risposte, ma penso che la filosofia debba continuare a porsi queste domande e cercare di trovare le parole per chi soffre così immensamente. Credo che la cosa più importante, nella vita, sia condividere una piccola felicità con qualcuno che amiamo. Il ruolo della politica dovrebbe essere quello di assicurare a tutti quest’opportunità. Sicurezza e pace, non conquista e predominio».


Nel saggio The Sense of Someone Appearing There (2023), scrive di incontri quotidiani con persone che non ci sono più. E anche con cani, gatti, uccellini…

«Ho raccontato l’esperienza di aver incontrato una parvenza dell’anima di mio padre defunto. Una sensazione di calore nella quale mi sono sentito protetto da lui. Per dieci anni ho avuto un uccellino: mia moglie e io lo adoravamo, con lui abbiamo passato giorni meravigliosi. Oggi sento ancora il suo spirito intorno a me. Definisco entrambi, mio padre e l’uccellino, “persone animate”, cioè apparizioni attivate dal contesto, dalle mie emozioni. Lo spirito di un gattino esiste fra il gattino e il proprio umano, all’interno di quella relazione speciale. E può essere animato anche dopo che il suo corpo muore. La “persona animata” non è un’illusione. E questo è un pensiero che dev’esserci di conforto. Tutti noi, prima o poi, dovremo separarci dai nostri cari: è il destino delle nostre vite. Non sappiamo se li ritroveremo nel mondo successivo, forse no. È una verità dura da accettare, ma se riusciremo a farlo ne avremo consolazione».


Ha mai subito un’esperienza traumatica?

«I miei traumi sono soprattutto quelli causati da ciò che ho fatto ai miei cari, il cui ricordo mi sovviene all’improvviso e mi tormenta».


Può spiegarsi meglio?

«Quando ero giovane, come molti maschi della mia età, ero contaminato dalla mascolinità tossica. Ho ferito i miei genitori, la mia famiglia che amo, i miei amici. Quando ricordo ciò che ho fatto ai miei cari, il panico mi assale, e penso che un universo in cui non fossi mai nato sarebbe migliore di quello attuale».


È da qui che deriva il suo parziale antinatalismo? E che cos’è esattamente l’antinatalismo?

«L’antinatalismo ha due pilastri: la “negazione della nascita”, cioè l’idea che nascere sia fondamentalmente sbagliato, e la “negazione della procreazione”, cioè l’idea che non dovremmo mettere al mondo bambini. Sono d’accordo con la prima, non necessariamente con la seconda. Ogni volta che ricordo i momenti in cui ho ferito i miei cari, non posso fare a meno di desiderare di non essere mai nato. Attraverso lunghe conversazioni con loro, però, ho capito che dovevo liberarmi di quel me, e diventare più maturo. Ero e resto colpevole, ma sono molto cambiato rispetto a quando ero giovane: sono migliorato. Li apprezzo molto per questo. Ho quindi simpatia per il concetto di “negazione della nascita”, ma voglio superarlo e raggiungere uno stato di “affermazione della nascita”».


È per questo che ha scritto un saggio sui «maschi erbivori» (2008), dove denunciava la crisi del maschio contemporaneo?

«L’erbivorizzazione del maschio può contrastare la piaga della mascolinità tossica. Un maschio erbivoro è un giovane gentile e inesperto che desidera frequentare una ragazza. Il mio obiettivo era rassicurare i giovani uomini che non devono scadere nel machismo per vivere relazioni romantiche. E che devono cercare di comprendere la psicologia femminile e il divario di genere. Quello che mi ha sorpreso è che molte donne hanno amato il mio libro, segno che preferirebbero un amore erbivoro. Sull’onda di quel saggio, “maschi erbivori” è diventata una delle espressioni dell’anno in Giappone».


Crioconservazione, manipolazione genetica. La nostra antropologica paura della morte e della malattia ci avvicina sempre di più al concetto di “longevità radicale”. I giapponesi, grazie a una vita sana, sono tra i più anziani al mondo. Eppure, sempre più spesso la società li vede come un peso. Addirittura, un professore a Yale, Yusuke Narita, proponeva il suicidio di massa degli anziani attraverso il seppuku, la pratica dell’auto-eviscerazione dei samurai caduti nel disonore; oppure l’eutanasia obbligatoria. Cosa ne pensa?

«Anche l’idea di vivere per sempre in questo mondo sarebbe molto dolorosa e intollerabile, credo. Sarebbe una distopia. Ci sono persone che non hanno paura della morte: sono persone felici. La maggior parte di noi non sarebbe in grado di sostenere il peso di una vita eterna piena di dolore, di eventi traumatici che si ripetono. L’opinione di Narita è stata criticata duramente in Giappone, anche da me. Romanticizzare il suicidio è un errore. Penso al film La ballata di Narayama, di Shohei Imamura (1983), dove una madre anziana decide di ritirarsi tra le montagne, d’inverno, e lasciarsi morire per non pesare sui figli. Qui, il tema della natura e della vita ritornano: morendo nella natura, lo spirito della madre si salverà. Un’immagine poetica, ma molto triste. Temo che la società giapponese sarà sempre più insofferente verso gli anziani. Che non vogliono causare problemi e pensano già che sarebbe meglio lasciarsi morire».


Intanto si afferma l’apeirofobia, paura di vivere per sempre. Un’altra faccia della paura della morte?

«Aristotele pensava che la vera felicità, il bene supremo degli esseri umani, fosse la fioritura dell’essere. Nell’era della scienza e della tecnologia, il concetto opposto, cioè appassire, potrebbe essere importante. Ogni creatura sfiorisce dopo aver superato lo zenit della vita. Scienza e tecnologia ritengono che la conquista della natura e della naturalità costituiscano il trionfo dell’intelletto, la prova del progresso della civiltà. Ma è davvero così?».


Oggi i giovani passano le giornate su DeepSeek e ChatGPT. Può l’intelligenza artificiale rispondere a domande sul senso della vita?

«Per il momento no. L’AI non può porsi da sé certe domande esistenziali, né cercare di risolverle per sé stessa. In un futuro remoto, però, potrebbe essere possibile. Allora sì che potremmo fare conversazioni filosofiche con l’intelligenza artificiale. Sarebbe molto interessante».


Se la vita è piena di sofferenza, che cos’è la felicità?

«Quando penso alla felicità, la prima cosa che mi viene in mente è la “piccola felicità” che posso trovare in un angolo del mio quotidiano. Quando stiamo per cadere nella disperazione, la possibilità di trovare questa piccola felicità esiste, e possiamo sentirci protetti dalle nostre relazioni e dalla società. Felicità è entrare in contatto con una piccola bellezza, un piccolo piacere, una piccola tranquillità del tempo. È una piccola affermazione di vita».



21 aprile 2025





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