Le cose non avrebbero senso se fossero
ferme, immobili, separate, in sé. Sarebbero morte. Non comunicherebbero con
nessuno, neanche con se stesse. Vi piacerebbero? Eppure sono così che le pensiamo
quando immaginiamo che siano dotate di una loro essenza o anima.
Le cose assumono un senso e una funzione
quando si muovono tutte insieme, quando sono in un rapporto dinamico le une con
le altre. Il mondo è come un motore sempre in funzione, ed è da questa funzione
che ogni parte assume una… funzione, un senso. Se la prendessimo
isolatamente, non avrebbe senso. È il
concerto che forma la musica, non il singolo tasto o la singola corda degli
strumenti.
Le parti in sé non servirebbero a
niente, non avrebbero senso. Invece, nell’interrelazione reciproca, anche la
singola vite, anche il singolo bullone, assumono la loro funzione e sono utili.
Questo anche per noi.
Per fortuna le cose sono relative le une
alle altre, sono sempre in una relazione dinamica. Oltretutto, se sono
relative, mettono in essere l’assoluto e quindi provano la sua esistenza. Ho detto
“assoluto”, non dio. Questo assoluto, questa trascendenza, infatti assume la
sua funzione solo in quanto dà vita al relativo, non in sé. Nemmeno l’assoluto
può essere solo in sé.
Ricordate le due polarità yin/yang del
taoismo? Mi fanno venire in mente quella legge scientifica che dice: non può
esserci un’azione senza una reazione uguale e contraria. Questa vale in ogni
campo, anche nel campo dei pensieri e dei sentimenti.
Così è per tutto: per
l’assoluto/relativo, per il caso/necessità, per il contingente/necessario, per
il superficiale/profondo, per l’inspirazione/espirazione,ecc. Le polarità sono
complementari: mentre si contraddicono, si confermano a vicenda. La contraddittorietà
è la cifra dell’universo. Potreste pensare l’inspirazione senza l’espirazione?
Non ci sarebbe la respirazione. Ma in realtà è come se tutto l’universo
respirasse: in un moto armonico e simmetrico che si regge sul contrasto fra due
poli uguali ma contrari.
Se uno dei due prevalesse o soccombesse,
sarebbe la fine di entrambi. Perché finirebbe il combattimento armonico.
Si può immaginare un maschile senza un
femminile? Si può immaginare un’immobilità senza un movimento? Si può
immaginare un “in sé” senza un “fuori di sé”?
L’ “in sé” deve essere in un rapporto
complementare con un “fuori di sé”. E quindi l’uno rimanda all’altro.
Ma l’ “in sé” in senso filosofico dovrebbe essere l’essenza
irriducibile di una cosa, ciò che la fa essere se stessa e non un’altra. La
intelligenza artificiale dice che è un
concetto “che si riferisce all’identità dell’essere individuale con se
stesso. Questo
principio viene applicato soprattutto agli esseri dotati di coscienza. In
altre parole, l’inseità afferma che un individuo è profondamente radicato nella
propria esistenza, con una connaturata identità intrinseca.
Un esempio di inseità potrebbe essere il concetto di ipseità.
L’ipseità rappresenta l’essenza di un individuo, la sua unicità e la sua
identità intrinseca. È
ciò che rende ciascun essere umano diverso dagli altri, con caratteristiche e
qualità specifiche che lo definiscono.”
In breve, l’inseità dovrebbe essere un concetto fondamentale per
comprendere l’identità e l’essenza di ogni individuo.
Ma “fuori di sé” significa uno che ha
perso la calma e l’autocontrollo, ma anche uno che è in rapporto con un altro.
Invece l’ “in sé” dovrebbe essere un’essenza isolata e stabile, una monade
senza porte e senza finestre, un’anima. Mentre noi sappiamo che la nostra
identità è data dall’interrelazione con il resto, è l’essere un nodo di un’immensa
rete. Basti ricordare che nasciamo e portiamo un doppio patrimonio genetico che
ci è stato tramandato dalla notte dei tempi, da miliardi di individui.
Dunque, se l’ “in sé” è un concetto
astratto cui non corrisponde nulla di reale. Abbiamo infatti visto che il senso
o la funzione di qualcosa sono date da un rapporto dinamico con l’intera rete,
con tutto il motore in movimento, e che da soli sono solo pezzi inutili e morti.
Oltretutto la necessità di un’interrelazione
è ciò che forma la coscienza. Quando infatti prendessimo un individuo e lo
isolassimo come un eremita, costui dovrebbe generare un “fuori di sé”, ma non
essendoci nessun altro, svilupperebbe un se stesso fuori di sé – cioè una
coscienza. L’esteriore dovrebbe generare un interiore. Ed ecco la scissione/unione
di base.
Questa è la coscienza: qualcosa che deve
sviluppare un io uguale ma diverso. Le due polarità di cui si parlava, uguali
in un senso ma contrarie in un altro.
Invece l’ “in sé” o l’inseità, l’essenza
teorica di ogni individuo, non ha nessun contrario, per il semplice motivo che,
essendo tutto interrelato, non esiste un’identità assoluta verificabile
concretamente e oggettivamente. Qual è l’essenza di un certo individuo? Io so
chi sono e più o meno come sono fatto. Ma qual è la mia essenza?
Per quanto smonti le cose e gli
individui non trovo nessuna essenza. Questo perché l’essenza è una sintesi di
varie cose, che non è isolabile, perché non è un dato separato dal contesto.
Le forze in gioco vanno sempre a due a
due: l’una contraddice ma garantisce
l’altra. Anche il non-essere deve essere per dar vita all’essere: la
contraddizione è creativa.
Dunque, affinché le forze esistano,
devono essere in una contraddizione creativa con se stesse, devono far parte di
un’antinomia – non di un “in sé”. L’ “in sé” è lettera morta, non genera nulla.
L’anima delle cose deve animare le cose e non essere mai in sé, ferma.
La parola “anima”, secondo l’IA, “deriva dal
latino “animus”,
che significa spirito. Questo
termine, a sua volta, corrisponde al greco ἄνεμος (anemos), che significa vento . Gli
antichi, non riuscendo a indicare direttamente l’anima, la descrivevano come un principio
presente in tutti gli esseri viventi, simile al vento invisibile ma
riconoscibile dagli effetti che provoca .
In breve, l’anima
è il principio vitale che pervade ogni essere vivente, e la sua etimologia ci
porta a riflettere sulla connessione tra il soffio del vento e la vita stessa.”
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