sabato 7 novembre 2015

Le quattro dimore divine

Possiamo coltivare stati d’animo che il buddhismo definisce “divini” non perché discendano da qualche dio, ma perché sono il meglio di quanto possa produrre l’essere umano.
Sono la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia compartecipe e l’equanimità.
Nella nostra civiltà, la gentilezza non è neppure considerata una virtù. Noi parliamo retoricamente di amore e trascuriamo questa gentilezza, che è un atteggiamento più semplice, ma anche più fattivo. C’è gente che ama, senza essere gentile. Ma perché “amorevole”?
Perché non si tratta di una gentilezza formale e fredda, la gentilezza di un gentleman o la gentilezza dell’etichetta e della buona educazione; si tratta piuttosto di un’espressione dell’amore e della carità. Essere gentili, con gli altri e con se stessi, significa portare un sostegno e un sentimento di calore e di riguardo a qualcuno che magari non se l’aspetta, che si aspetta la solita durezza o indifferenza. La persona gentile diffonde uno stato d’animo di sorpresa positiva, di fiducia nel genere umano, di sollievo, di conforto. Quando siete gentili, l’altro vi risponde con un “grazie” che è sua volta un’apertura del cuore.
La compassione è la virtù principale del buddhismo, in quanto nasce da una riflessione sulla sofferenza umana e sul bisogno che hanno tutti di evitare il dolore e di essere felici. È quindi una virtù meditativa, prodotta non dall’istinto o dalla natura, ma da un atteggiamento di comprensione. Chi è compassionevole ha capito le necessità dell’essere umano e ha compreso meditativamente che negli uomini esiste una natura fondamentale che è uguale per tutti. Stesse esigenze, stesse sofferenze e stesse gioie. Il compassionevole riesce a mettersi nei panni altrui, ha una spiccata sensibilità, capisce il prossimo.
La gioia compartecipe ne è una naturale conseguenza. Di solito gli uomini vivono in competizione fra loro, sono invidiosi dei successi altrui o addirittura gioiscono delle sventure che capitano a certe persone.
Si tratta di un atteggiamento non facile. Si tratta di essere felici della felicità altrui. È un po’ un atteggiamento materno o paterno: quello di un genitore ideale (non affatto comune a tutti i genitori) che vuole che il figlio sia felice e autonomo.
L’equanimità è una capacità di omeostasi, la capacità di non farsi travolgere né dall’entusiasmo né dallo scoraggiamento, di tener ferma la barra della psiche mentre si susseguono piaceri e dolori, successi e sconfitte, fatti piacevoli e fatti spiacevoli. È la virtù dell’equilibrio, della calma.
Per la nostra società, essere equilibrati e calmi non è neppure considerata una virtù. Noi esaltiamo la passionalità, il tifo, la fede cieca, l’emotività, la parzialità, la faziosità… con i risultati che vediamo.

Nessuno di questi stati d’animo ci viene fornito su un piatto d’argento, né scende dal cielo. Ma è il prodotto di un lavoro meditativo, che ci fa vedere come simili atteggiamenti siano “convenienti” non solo per favorire un’armonia generale anche per la nostra stessa felicità.

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