Quando
muore un animale, ci sembra che debba soffrire meno di noi uomini, perché non
ha coscienza di ciò che gli sta succedendo. Ma noi non abbiamo scampo; noi
sappiamo che moriremo, e questo è la fonte di ogni nostra angoscia.
La
coscienza, purtroppo, è sempre qualcosa che fa paura, non è mai una coscienza
felice. Non solo sappiamo che moriremo, ma ci rendiamo conto che la nostra
individualità, che ha fatto tanta fatica ad emergere e a consolidarsi, dovrà
sparire per sempre. È questo che non
accettiamo. Perché gli dei hanno riservato per se stessi l’immortalità e l’hanno
esclusa per noi uomini? È un interrogativo che
ci poniamo da tempo immemorabile, per esempio nel poema sumero di Gilgamesh.
Anche
nella Bibbia, scopriamo che ci sono due alberi e il secondo è quello dell’immortalità
– che ci è severamente vietata da Dio stesso: “Ora, egli non stenda più la mano
e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!”
Dio
è geloso, Dio ha paura che l’uomo arrivi alla conoscenza e diventi un
concorrente.
Ma,
poiché quel Dio è una nostra stessa creazione, una proiezione dei nostri
desideri, il monito viene da noi stessi, supremo esempio di alienazione.
L’uomo
desidera essere immortale, ma ha paura di quel che succederebbe. Perché vorrebbe
diventarlo a modo suo, attraverso la scienza e la tecnica, nel tempo e nello
spazio, senza rendersi conto che l’immortalità è qualcosa da cui esce per
diventare un essere individuale.
Abbiamo
tutti una natura immortale. Ma vi rinunciamo per essere individui. Ecco il
dramma dell’uomo. Il problema è l’individualità, l’io, l’ego.
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