Le cose sono
impermanenti, insoddisfacenti, cambiano di continuo e sono destinate al
dissolvimento – e questo non può non generare una sofferenza in chi ne è
consapevole. Ma la maggior parte della sofferenza non deriva da queste
caratteristiche, bensì dal nostro attaccamento. Noi siamo attaccati a cose che
mutano di continuo e vanno verso la distruzione, compresi noi stessi e la
nostra vita.
Il Buddhismo fa
per esempio del desiderio e dell’attaccamento proprio ciò che genera sofferenza.
Ed è impossibile dire che non sia così.
Ma si può non
essere attaccati alla moglie, ai figli, a certe proprietà e a noi stessi?
Certamente no.
E quindi
l’unica soluzione sarebbe ridursi a vivere come i monaci buddhisti, senza donne
e senza proprietà. Ma è possibile per noi? Direi proprio di no.
Ci rimane
dunque di essere il meno attaccati alle cose e alle persone, per evitare di
moltiplicare i motivi di infelicità. In fondo possiamo rinunciare a un sacco di
cose e di relazioni.
E poi quello
che conta è semplicemente rendersi sempre più conto che le cose e le persone
sono nostre solo temporaneamente. Anche di noi stessi siamo padroni per un
tempo limitato.
Niente è
veramente nostro.
Questa verità
viene nascosta da quelle religioni che parlano di eternità. Esse ci dicono che
abbiamo un’anima immortale, che non perderemo mai. Ma, a parte il fatto che non
esiste nessuna prova di qualcosa che duri in eterno (la legge è che tutto è
impermanente), ci sembra che questo tipo di fede nasca proprio dal desiderio di
nascondere la verità, di non accettare la nostra radicale mortalità.
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