martedì 1 luglio 2014

Il giudizio dopo la morte

Tutte le religioni hanno alla loro base l’idea che le anime subiscano dopo la morte una sorta di giudizio che ne stabilisca il destino successivo: è una questione di giustizia. All’uomo sembra intollerabile che qualcuno o qualcosa non ponga riparo alle evidenti ingiustizie della vita. Nel cristianesimo troviamo l’idea del paradiso, dell’inferno e del purgatorio, “luoghi” o stati in cui ci indirizza un Dio-giudice. Anche nel buddhismo tibetano troviamo la convinzione di un giudizio post mortem. Ma non c’è la concezione del Dio giudice; si crede piuttosto che dopo la morte appaiano sia figure luminose e benefiche sia figure minacciose e malefiche: le divinità irate. Di fronte a queste apparizioni, l’uomo dovrà decidere chi seguire. E lo farà in base alle proprie predisposizioni. Comunque, si tratta non di entità reali, ma di proiezioni della propria mente.
Più in generale, nel buddhismo (e nelle religioni indiane) si pensa ad un meccanismo inesorabile, una legge fondamentale (il dharma) che non è amministrata da un Dio, ma che funziona in modo tale che chi ha accumulato meriti nella vita precedente avrà una rinascita migliore (in questo mondo o in altre dimensioni), mentre chi ha commesso misfatti finirà in una condizione peggiore. Il karma accumulato, insomma, determinerà la qualità della successiva reincarnazione.
Questo spiegherebbe il perché delle ingiustizie di partenza, e del male “casuale”, che chi crede in Dio non sa come giustificare.
Resta il fatto che tutti vogliono che sia fatta giustizia. Questa sembra essere un’esigenza dell’anima umana.

Chi invece non crede che i fatti siano collegati, chi crede che tutto sia casuale, si trova in un mondo incomprensibile, privo di senso. E allora ha veramente bisogno di un Dio che copra arbitrariamente i legami mancanti.

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