Di solito noi
non sappiamo meditare. Infatti, più che metterci in una posizione di
osservazione dei vari contenuti mentali, ci facciamo assorbire da loro. In
altri termini, anziché metterci nella posizione del Testimone di pensieri,
immagini, sensazioni, ricordi, desideri, ecc., entriamo come parti in causa e
ci facciamo catturare dagli eventi psicofisici. Quindi non ci disidentifichiamo
e ci facciamo coinvolgere.
Ne risulta una
specie di sogno ad occhi aperti, dove il corpo resta fisso e la mente divaga.
Di conseguenza
dobbiamo continuamente ricordarci di riportarci alla posizione del semplice
Testimone.
Il problema può
essere superato se ci concentriamo sul senso dell’io superiore che ci sfugge,
ovvero se partiamo da una sensazione-pensiero di non essere completi. Questa
sensazione-pensiero è qualcosa di preciso che ci mette in una posizione di
osservazione.
In altri
termini, anziché perderci dietro le nostre fantasie, da cui poi dobbiamo
disidentificarci, cerchiamo di identificare il senso insoddisfacente dell’io o
del sé.
Va detto che
quasi tutti non abbiamo un preciso senso dell’io, e ci limitiamo a qualcosa di
imparziale o convenzionale. Più che una nostra sensazione, è quanto ci è stato
detto dagli altri o abbiamo ricavato da alcune esperienze. Ma chi siamo
veramente noi?
Chi ha un
carattere forte o una personalità egocentrica, è messo ancora peggio. Perché
crede di saperlo. E quindi non si mette a meditare. Ma chi medita non ha un
senso preciso del proprio ego mancante e crede di superare ogni problema con
una meditazione che approdi a un non-sé (l’anatta
buddhista).
Invece, va
detto che, per scoprire il non-sé, bisogna prima avere un sé definito.
Consigliamo
dunque di non cedere alla tipica alternanza fra onnipotenza e svalutazione di
chi medita, e di rimanere il più possibile in uno stato autocritico.
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