La nostra testa è fra le fauci della tigre, diceva Ramana Maharsi, e non possiamo sfuggire. Questo è il punto. Anche se cerchiamo di non pensarci, anche se partecipiamo a tutti gli spettacoli e alle distrazioni possibili, la nostra testa è fra le fauci della tigre, che prima o poi stringerà le mascelle. E non possiamo farci niente. La morte ci aspetta.
Dunque una situazione drammatica. Sarà anche un gioco (lila), ma noi verremo comunque stritolati.
Questa consapevolezza è sempre dentro di noi e non può essere cancellata. Il gioco è fatto per durare poco. E dopo non sappiamo che cosa succederà.
Costruiamo famiglie, costruiamo città, costruiamo imperi... ma tutto sarà abbandonato e non potremo portarci dietro niente. Quindi, per che cosa lavoriamo?
Ci immaginiamo di lavorare per noi stessi - per un’anima, per uno spirito -, ma dovremo abbandonare anche l’io, la nostra proprietà più preziosa, ciò cui siamo più attaccati.
Ci dicono che dobbiamo lavorare, che dobbiamo impegnarci. Ma c’è il rischio che lavoriamo per nulla.
In fondo l’animale o la pianta seguono il loro istinto. Ma noi abbiamo dubbi anche sull’istinto. Per chi lavora l’istinto? Per chi, se non per il tutto?
Dunque dobbiamo abbandonarci al tutto, confidando nella sua sapienza.
Tutti, che lo sappiano o no, lavorano per la Totalità. Sperando che almeno lei sappia quel che fa e non ci inganni.
Altro, per il momento, non possiamo fare.
Ma quel che vediamo è che la Totalità lavora per l’individuo solo in quanto parte del tutto, solo in quanto strumento, non certo come fine.
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