martedì 3 ottobre 2017

Due forme di concentrazione

L'atto del controllare non si addice allo stato meditativo, che non è una volontà di repressione o di esclusione,
ma una forma di attenzione consapevole che include anche gli opposti. Anche il termine «concentrazione» può indurre qualche equivoco: non si tratta infatti di focalizzare il pensiero in un unico punto,
come spesso si sente dire, bensì di con-centrarsi, ossia di trovare un nuovo centro dell'attività psichica.
Tra i due tipi di concentrazione corre la stessa differenza che esiste fra chi si concentra, per esempio, per studia-
r
e una materia indifferente o sgradita - e quindi si sforza con la volontà e cerca di escludere tutto il resto - e chi, essendo assorbito in qualcosa di estremamente interessante e piacevole, non deve esercitare nessuno sforzo di volontà.
Questo secondo tipo di concentrazione, nella meditazione, è sollecitato da una sensazione di piacevolezza che
scaturisce dal profondo. In tal senso si è «centrati in sé», non più nel vecchio e piccolo ego. Si tratta dunque di compiere un salto interiore, come un elettrone che passi da un'orbita bassa a una più elevata.

Ma la meditazione ha un'altra caratteristica: nella sua fase finale non è una forma di esclusione della comune attività mentale, bensì è un essere presenti, un vivere non-mentale, in cui si è in rapporto con il mondo senza l'interposizione della mente centrata sull' ego. Questo stato non è artificiale, non è il prodotto di chissà quali operazioni; sarebbe uno stato naturale, uno «stato di grazia» spontaneo, se non venisse continuamente oscurato proprio dall'attività conoscitiva consueta: idee, immaginazioni, pulsioni di ogni genere, princìpi acquisiti, fedi, reazioni condizionate, ricordi, «modi di pensare» convenzionali ... insomma tutta l'eredità del passato, il karma condizionante.

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