Certo, ci sono delle forme a priori, non solo della nostra mente ma della realtà stessa, e sono le diadi. Le diadi sono moti oscillatori inversamente proporzionali di due polarità, che vanno in tensione e a coppie, ma di cui l' una non può fare a meno dell' altra. Come il maschile e il femminile. Il guaio è che non sono solo moti della mente, ma di tutto. Quindi ci prevedono sempre.
Maurizio Ferraris
Se vogliamo conoscere il mondo, dobbiamo incominciare a capire come è fatta la mente, o meglio i princìpi che ne regolano il funzionamento rendendo possibile l’esperienza
La critica della ragion pura: esperienza come scienza
La descrizione delle condizioni di possibilità dell’esperienza occupa la prima parte della Critica della ragion pura (1781, una seconda edizione con delle modifiche importanti vide la luce nel 1787). Abbiamo un polo fondamentale, l’Io penso, che è l’erede del Cogito di Cartesio, ma è molto più attrezzato. Se in Cartesio, infatti, si trattava di un punto inesteso, qui abbiamo a che fare con una struttura complessa in cui si concentrano dodici categorie, ossia princìpi primi attraverso i quali l’intelletto organizza la conoscenza, e due forme pure della intuizione, ossia lo spazio e il tempo. Categorie e forme pure della intuizione sono, per Kant, metafisiche (ossia indipendenti dall’esperienza) e trascendentali (ossia capaci di rendere possibile l’esperienza). Il motivo di questo apriorismo è che Kant vuole sottrarsi al relativismo empirista, che ci fornisce sempre e soltanto delle conoscenze probabili, ma mai delle conoscenze certe. La scelta di capovolgere il problema, trasformando la domanda «che cos’è quello che c’è?» nella domanda «che cosa mi permette di conoscere quello che c’è?» è ovviamente geniale, e la macchina elaborata nella prima parte della Critica della ragion pura, l’analitica trascendentale, è ammirevole. Tuttavia, non funziona, perché rimane, per la stessa ammissione di Kant, un mistero sapere come i concetti si applicano effettivamente all’esperienza. Dipende, dice Kant, dalla mediazione di schemi prodotti da un mistero nascosto nelle profondità dell’animo umano, l’immaginazione trascendentale. Un mistero che, dice Kant, non era svelato ai suoi tempi, e non lo è tutt’ora, forse perché non c’è, il che compromette il punto decisivo di tutta la rivoluzione di Kant. Una via d’uscita, su cui si incammineranno gli idealisti subito dopo Kant e i postmoderni nel Novecento, consisterebbe nel dire che il mondo è interamente costruito dai concetti, ma per Kant non c’è conoscenza senza esperienza, cioè senza l’incontro con qualcosa di indipendente, nella sua componente materiale, dalle nostre facoltà cognitive. Tanto è vero che la seconda parte della Critica della ragion pura è dedicata a escludere la possibilità di conoscere tre idee a cui spesso la ragione fa riferimento: l’anima, il mondo (inteso come totalità, ovviamente se ne possono conoscere delle parti), e Dio.
La critica della ragion pratica: ragione o volontà?
Oltre a constatare la problematicità di una esperienza del mondo che non possiede una fondazione ultima, una domanda che è legittimo porsi rispetto all’impianto kantiano è la seguente: è possibile vivere in un mondo di puri fenomeni senza cadere nello scetticismo o nella depressione? La risposta è, ovviamente, no. Ma sappiamo che per Kant i punti fermi non mancano, e in particolare quel punto fermo essenziale che è la volontà. Questo aspetto apparirà con tutta la sua chiarezza in un discepolo indiretto e autonomo del suo pensiero, Arthur Schopenhauer, in Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). È possibilissimo che tutto sia pura rappresentazione, ma c’è qualcosa che è direttamente intuito, ed è la volontà. Quando alzo il braccio destro sono io che lo alzo e sono io che ho la certezza di farlo. In Kant questa esperienza fisiologica si riveste di panni morali. Si consideri la celebre conclusione della Critica della ragion pratica (1788), il libro in cui, abbandonato il mondo sensibile in cui abbiamo a fare solo con fenomeni, entriamo nel mondo morale, in cui le nostre esperienze sono dirette, perché frutto del nostro agire su un piano puramente intelligibile, quello delle intenzioni. Ci sono due evidenze mirabili, scrive Kant, e sono il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi. A rigore, la legge morale dovrebbe essere anche più evidente del cielo stellato, dal momento che è una espressione diretta dell’io, ma non importa. Quello che appare evidente è che c’è qualcosa, che per Kant è la ragione, e che consiste pressappoco in una versione civilizzata della volontà, che funge da fondamento, conferisce i fini, e in ultima istanza impedisce che il mondo dei fenomeni si trasformi in un universo di pure apparenze. È certo che tutto, dal tavolo di fronte a me alla rappresentazione che ho di me stesso è un fenomeno e non una cosa in sé. Ma l’azione viva, la decisione di fare o non fare qualcosa, questa è indubbiamente una espressione di una mia finalità interna, di una mia volontà, di cui non posso che essere certo, pena togliere qualunque valore alla mia vita, trasformandola in sogno.
Ci sono due evidenze mirabili, scrive Kant, e sono il cielo stellato sopra di noi e la legge morale dentro di noi.
La critica del giudizio: il mondo ha un senso?
Lo statuto dell’esperienza nella Critica della ragion pura e quello della volontà nella Critica della ragion pratica sono rivisti in modo sostanziale nella Critica del giudizio (1790), che Kant presenta come un «compimento del sistema critico», mentre in effetti è un cambio di rotta, per quanto riguarda la conoscenza, e una precisazione fondamentale, per quanto riguarda il concetto di ragione. Sotto il profilo conoscitivo, ha luogo una controrivoluzione silenziosa, che consiste in un abbandono sostanziale della rivoluzione copernicana. In primo luogo, nella critica del giudizio estetico, che costituisce la prima parte dell’opera, Kant osserva che il bello piace senza concetto, ciò che implica il venir meno dell’assunto secondo cui le intuizioni senza concetto sono cieche. In effetti, possiamo avere esperienze complesse, come il godimento estetico di un’opera, anche in assenza di una azione dei concetti. In secondo luogo, nella critica del giudizio teleologico, l’altra parte dell’opera, Kant sostituisce (sebbene formalmente si limiti ad affiancare) al giudizio determinante, che dalla legge discende al caso, con tutti i problemi a cui abbiamo accennato più sopra, il giudizio riflettente, che dal caso singolo risale alla legge. Io vedo una sedia, e poi vado alla ricerca della categoria a cui appartiene, conferendo all’esperienza un tenore concettuale. Con questa opzione, Kant risolve il problema tecnico di come i concetti apriori si applichino all’esperienza, ma rinuncia al punto fondamentale della sua replica a Hume: non è vero che l’esperienza è fondata a priori. Abbiamo delle esperienze, e da quelle risaliamo, in un momento successivo e forse mai, alla conoscenza, che potrà essere più o meno probabile, ma mai apoditticamente certa. Se dunque la ragione della prima Critica era un organo desideroso di travalicare i propri confini, ma la cui curiosità veniva limitata negli ambiti, numerosi e importanti, in cui si eccede la sfera dell’esperienza, nella Critica della ragion pratica e nella Critica del giudizio assume una funzione diversa e più piena. Spetta infatti alla ragione di guidare, con piena evidenza e legittimità, la nostra condotta pratica, mitigando la volontà e riconducendola a orizzonti più universali, quelli appunto della ragione illuminista. E sta ancora alla ragione il compito di assegnare un fine, soggettivo e non oggettivo, a un mondo che non ne possiede. Quanto dire che il fine dell’uomo come soggetto morale, ma anche i fini dell’uomo come animale razionale e desideroso di conoscenza, possono trovare nella ragione la facoltà adatta a realizzarli.
Spetta alla ragione di guidare, con piena evidenza e legittimità, la nostra condotta pratica, mitigando la volontà e riconducendola a orizzonti più universali, quelli appunto della ragione illuminista
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