Per chi conosce la verità, la morte dovrebbe essere un lieto evento,
una gioia, un sollievo, una liberazione, la fine della schiavitù di un essere
legato a un corpo e a una mente. Ma per noi è la massima paura, ciò da cui
derivano tutte le altre paure. L’abbandono di tutto.
Anche l’io dobbiamo abbandonare e la coscienza. Ma non forse
l’identità ultima, che non dovrebbe essere legata al dualismo, perché mai nata
e mai morta, perché unitaria.
L’identità ultima ha poco a che fare con la coscienza abituale, ma con
la consapevolezza, che non è uno stato duale.
Ci siamo identificati con un corpo e con una mente, che dobbiamo
perdere. Ma, una volta dis-identificati, siamo liberi.
La logica è che, se vogliamo l’infinito, dobbiamo passare per il
finito; e, se vogliamo l’immortalità, dobbiamo passare per la morte.
Ma perché questa contorsione? Non eravamo già infiniti e liberi? Mai
nati e mai morti?
La verità è che abbiamo a che fare con la stessa realtà… conosciuta
dualisticamente da punti di vista differenti. Tutto dipende dal nostro modo di
osservare: non potremmo pensare l’infinito e l’immortale se non passando dal
finito e l’immortale.
Dunque il finito e il mortale servono a conoscere la totalità della
Realtà.
Se partiamo dall’infinito e dall’immortale, dobbiamo conoscere per
forza il finito e il mortale. Se partiamo dal finito e dal mortale, dobbiamo
per forza aspirare all’infinito e all’immortale.
Questo lo diciamo partendo dal finito e dal mortale.
Se partiamo dall’infinito e dall’immortale, abbiamo già tutto. Ma non
la coscienza.
La realtà ultima è al di là di tutte le aporie. E quindi non è neppure
cosciente. Se dunque si apre la stagione della coscienza, cioè del dualismo
soggetto/oggetto ecc. e dello spazio-tempo, compaiono il finito e il mortale.
Ma tutto questo dovrà finire, un bel o brutto giorno.
Non domandate chi vuole
tutto questo. Non c’è nessuno che lo voglia. Si vuole.
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