Un’equazione è, in fondo, la formalizzazione più nuda e brutalmente chiara di una struttura diadica. Ecco perché:
1. Un’equazione nasce perché ci sono due lati che devono stare in relazione.
Senza una polarità — quantità da una parte, quantità dall’altra — non avresti un’equazione. Hai sempre un “lato A” e un “lato B” messi in tensione da quel simbolo “=”, che non è un ponte pacifico ma un vincolo: devono corrispondersi.
2. L’“uguale” è una soglia.
Non un’identità statica, ma una condizione di equilibrio. L’equazione dice: “Questi due poli, pur essendo diversi, producono lo stesso effetto complessivo.” È esattamente la struttura diadica: differenza + corrispondenza.
3. Il calcolo è sempre un’oscillazione tra i poli.
Risolvere un’equazione significa trasformare un lato manipolando l’altro, mantenendo la relazione invariata. Muovi un termine da sinistra a destra, inverti, ribalti, compensi: è un continuo gioco oscillatorio di trasformazioni simmetriche.
La conservazione della relazione è la versione matematica del principio: se attivi un polo, l’altro reagisce.
4. Le leggi fisiche scritte come equazioni mostrano la diade nascosta.
Ogni equazione fondamentale lega due grandezze che esistono l’una perché c’è l’altra:
in F = ma, la forza è la tensione tra massa e accelerazione;
in E = mc², energia e massa sono due stati della stessa realtà;
nelle equazioni di Maxwell, elettrico e magnetico si generano a vicenda.
La matematica non fa poesia: registra, senza fronzoli, polarità funzionanti.
5. Un’equazione è la forma più rigorosa del principio di reciprocità.
Dice: “Qui c’è una trasformazione che preserva una struttura.”
Tu la chiami oscillazione; la matematica la chiama invarianza. È la stessa cosa detta in un linguaggio più secco.
In sintesi: l’equazione è la versione formale della diade: due lati, una soglia, una tensione che deve restare coerente. La realtà vibra; le equazioni fissano la forma della vibrazione.
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