La
meditazione ripercorre per certi versi il cammino della morte, ed è per questo
che è così importante praticarla in vita. Si tratta di un addestramento a
riconoscere la luminosità fondamentale della consapevolezza che ci apparirà al
momento della morte quando il corpo e la mente saranno spenti. Non per nulla ci
si allena anche a non respirare e ad estinguere i pensieri e gli stati d’animo
fastidiosi. Questo succederà anche al momento della morte, quando il corpo e la
mente abituale non funzioneranno più.
Ciò che
apparirà è la luminosità fondamentale della coscienza, qualcosa che possiamo
sperimentare già adesso se sospendiamo in meditazione il corpo-respiro e la
coscienza dei fenomeni del mondo. Ho già detto che tra un atto mentale e l’altro
esiste un breve istante in cui trapela il nulla, la vacuità, che in realtà ha
un aspetto luminoso.
A questa
luminosità ci si riferisce in numerose testimonianze di chi è stato sul punto
di morire. Di solito, si interpreta questa luminosità come l’espressione del
dio in cui si è creduto. Ma, in realtà, è la luce fondamentale della mente che emerge
quando tutte le attività psicofisiche si sono fermate.
Infatti la
consapevolezza ultima non è più legata agli oggetti, al corpo, alle esperienze
contingenti, alla coscienza abituale o al cervello fisico, ma è esattamente la
base da cui tutto ciò è nato. È una vacuità o un nulla pieno di potenzialità,
un dio senza volto, la forza creatrice che non termina certo per la morte di
qualcuno, ma che prosegue ad esserci anche al di là.
Dunque non
resta che addestrarci a meditare, cioè a provare a morire. Anche se non ci
riusciremo concretamente o completamente, l’esercizio ci aiuterà al momento
effettivo della morte. Abituiamo a vedere la luminosità fondamentale negli
intervalli di vuoto.
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