mercoledì 10 aprile 2013

L'io e il mio: il valore dell'ego



Da quando nasce a quando muore l'uomo pensa di essere un io. Io sono Tizio, io sono Caio, io sono Sempronio, ecc. O, per meglio dire, quando nasce, il neonato non sa ancora di essere un io e non si pone nemmeno il problema. Ma i suoi genitori stanno ben attenti: immediatamente lo battezzano, cioè gli danno un nome. Poi gli insegnano a parlare - e la prima cosa che gli insegnano è di essere un io: io sono Mario, io sono Francesco...
Le nostre lingue ci dicono che ogni frase deve incominciare con il pronome "io", "tu", "lui", ecc. E questo si insegna nelle famiglie e nelle scuole. Si racconta al bambino la sua storia e gli si dice chi è, di chi è figlio, a quale tradizione,a quale cultura, a quale storia o a quale nazione appartiene. Infine gli si assegna una carta d'identità. Così l'individuo sa chi è e, da quel momento, dice anche "questo è mio", questo è "tuo", ecc. Insomma dal senso dell'io nasce il senso del mio - si tratta pur sempre di proprietà: questo sono "io" e questo è "mio". Per la legge, non è concepibile che non esista un io, un'identità. Oltre ai documenti si assegna anche un codice fiscale e mille altri documenti del genere che ci diranno chi siamo e che cosa è nostro.
Per il mondo non è ammissibile che uno non sappia di essere un io; se non lo sa, viene messo in un manicomio. È certamente un alienato, un anormale. Ma non basta. Se qualcuno entra nella vita religiosa, subito gli viene assegnato un altro nome. Un monaco o un Papa devono cambiare nome. Cambiano nome per segnalare che hanno cambiato identità. Hanno cambiato identità, però non hanno perso l'identità: sanno benissimo chi sono. Non c'è nessuna religione che ti tolga l'identità, che ti dica che non sei nessuno.
Il senso dell'io e del mio è il fondamento del nostro essere nel mondo. Non ci basta essere, dobbiamo essere un io, dobbiamo essere delimitati, confinati in un io - e in un io definito, definibile, in modo inequivocabile. Se entrate in Rete dovete avere un'identità e, quando entrate in un sito, vi viene chiesto di identificarvi o comunque venite identificati in modo sicuro, magari scegliendo nickname e password.
Il nome è fondamentale. L' "io sono" è fondamentale. Il Dio della Bibbia, non appena apre bocca, dice. "Io sono". Io sono colui che è, il mio nome è Javeh o qualche altro nome.
La nostra paura atavica è di non essere un io, di non essere riconosciuti o amati. Se non veniamo riconosciuti da qualcuno, se non veniamo amati dai genitori, ne portiamo una ferita per tutta la vita. Ma ogni momento è scandito dalla paura di non essere, che per la società diventa paura di non essere qualcuno. Lei non sa chi sono io. All'identità personale viene aggiunta l'identità sociale, quella del ruolo rivestito nella vita. E ogni momento è contrassegnato dalla paura di non essere più un io, di morire. Che cos'è infatti la morte se non lo stato in cui non si è più un io e neppure si è? Questo è il massimo degli orrori, insopportabile per l'ego.
Nell'esistenza ogni ferita all'ego provoca un'immediata reazione. Che cos'è un'offesa, un'ingiuria se non un'aggressione al tuo ego? Tu ti credi intelligente ma sei un deficiente. Tu ti credi una persona importante, ma non sei nessuno. Ecco, non essere nessuno è la massima offesa.
Il confinamento dell'essere in un io è come la nascita di un pianeta, con tutti i suoi satelliti. Da una nebulosa a poco a poco si condensa qualcosa e quel qualcosa assume una fisionomia "solida", concreta, ben definita.
Eppure, eppure... qualche uomo straordinario dice anche che l'ego, con tutto l'egoismo che inevitabilmente comporta, è il problema di fondo, è il male di fondo. Gesù, per esempio, sostiene che per farsi suoi seguaci, bisogna rinunciare a ogni cosa, anche a se stessi; e tutta la sua predicazione si rivolge a combattere l'egoismo, l'egocentrismo. Quando parla di amore indica proprio questo: la perdita del proprio ego. Io e gli altri siamo la stessa cosa. D'altronde, quando ami o quando fai l'amore, per un po' perdi proprio il tuo confinamento in un ego e ti apri ad un altro. E non ti trovi male. Ma poi ti limiti ad assimilare anche quest'altro nel tuo io: anche il tuo amore diventa "tuo", una parte di te.
Il buddhismo, che è la religione più radicale e più profonda di tutte, aggiunge qualcosa di unico. Mentre le altre spiritualità ti assicurano che il tuo fondamento è un "ego trascendentale", un ego divinizzato, il divino confinato in te, il Buddha sostiene che non esiste nessuna anima, anzi che l'illusione prima dell'uomo è proprio quella di essere un ego eterno, un io che sopravvive alla morte. Mentre tutti cercano di assicurarsi un buon posto nell'aldilà, un'anima imperitura, magari di fianco al Padreterno, e accumulano beni (immateriali) come le buone azioni, le preghiere, le confessioni, le penitenze, ecc, l'illuminato buddhista ti dice che devi liberarti prima di tutto di questo desiderio, di questa illusione, di questa presunzione. La suprema beatitudine non è essere eterni ma dismettere la pretesa di essere; la vera felicità è la cessazione di sé. Tre sono le presunzioni da cui devi liberarti: "Io sono migliore di qualcuno", "io sono peggiore di qualcuno" e "io sono uguale a qualcuno". E infine devi liberarti del tuo stesso ego, devi giungere alla tua stessa estinzione: ecco che cos'è il nirvana. Questa sì che una vera dieta dell'anima, una vera umiltà! Ma non finisce qui: l'illuminato deve arrivare a considerare se stesso, il proprio io, come un processo impersonale.
Agire impersonalmente. Chi ci riesce? Forse nessuno. Ma il merito di questa linea di pensiero è di mettere in dubbio tutte le nostre certezza acquisite, il nostro egocentrismo, le nostre paure, i nostri successi. Forse sbagliamo tutto. Forse un successo dell'ego è una sconfitta spirituale; è un passo indietro anziché un passo avanti nel nostro processo evolutivo. Forse siamo tutti vittime della nostra convinzione egoica. Forse è davvero meglio essere un po' meno ego-centrati.

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