venerdì 6 febbraio 2015

Trascendenza come ulteriorità di senso

L’uomo può assolutizzare il proprio io,  può farne una valore assoluto (che però è autoreferenziale e chiuso), oppure può porsi ad osservare il limite del proprio io, appostarsi su quel confine e contemplare, lasciando così spazio ad una propria trascendenza, scorgendo con la coda dell’occhio un più ampio sé.
Parlo di contemplazione perché non si tratta né di abbandonare noi stessi, saltando in una confusa trascendenza che ci annullerebbe e cancellerebbe la nostra identità, né rifiutarci di andare oltre, chiudendoci in uno spazio soffocante.
Se all’assolutizzazione dell’io assegniamo il nome di Dio e lo proiettiamo fuori di noi, facendone appunto l’Assoluto, mettiamo il carro davanti ai buoi; così, anziché mantenere l’apertura della coscienza, le creiamo nuovi limiti, precludendole la ricerca, l’allargamento e la maturazione.
In tal senso, Dio corrisponde ad una chiusura di senso. La capacità di trascendersi non va certo confusa con una trascendenza assolutizzata.

La mente deve invece appostarsi ai propri confini e mettersi in ascolto. In questo tipo di trascendenza c’è sia l’inconscio con i suoi vari livelli, sia il sovra cosciente, con le sue enormi potenzialità, ancora tutte da sfruttare.

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