Noi non possiamo conoscere che dividendo,
isolando, inquadrando, frammentando e contrapponendo, e ciò fa della coscienza
una coscienza dilacerata, infelice. L’apertura della coscienza è inevitabilmente
accompagnata da sofferenza, da un senso di tensione sempre inappagato e da una
nostalgia di una riunificazione impossibile.
Ma questa sofferenza, che è segno distintivo
dell’uomo, non è solo un’eredità negativa. È in realtà il segno di un’esigenza
di ulteriorità, e dunque una patente di nobiltà, la prova che l’uomo non si
accontenta – come gli altri animali – del già dato.
L’uomo è proteso oltre, tende alla trascendenza
– almeno finché non la definisce “Dio” e crede di aver trovato qualcosa.
La tensione, l’insoddisfazione, il dukkha buddhista, è la spinta che
controbilancia la chiusura di senso data dal sapere acquisito, dal dogma, dalla
convenzione, dalla regola, ecc. È spinta
a progredire, ad andare oltre.
Se fossimo soddisfatti di ciò che abbiamo, se
non cercassimo altro e oltre, se non soffrissimo le limitazioni della natura e
del sapere codificato, saremmo ancora delle scimmie, non di più.
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